Venticinque anni fa, i preti sposati
di Stefano Sodaro
Venticinque anni fa come oggi, nell’Aula Magna Storica del Rettorato dell’Università degli Studi di Siena, veniva discussa una tesi di laurea in diritto canonico, presso la Facoltà di Giurisprudenza, avente ad oggetto “L’ammissione al presbiterato degli uomini sposati nel diritto delle Chiese Orientali Cattoliche”. Relatore il Prof. Giovanni Minnucci, insigne storico del diritto. Correlatrice la Prof.ssa Floriana Colao, anch’essa esimia storica del diritto. Controrelatrice la stessa Presidente della Commissione di Laurea, l’ecclesiasticista di chiara fama Anna Lina Ravà, partigiana durante la Resistenza contro il nazi-fascismo. Candidato il sottoscritto, tale Stefano Sodaro.
Per la cronaca, la discussione si concluse con il massimo dei voti e la lode, dopo un’elaborazione di due anni, che portò l’aspirante giurista a recarsi due volte in Libano e una volta in Siria. Conseguita la laurea, fu l’Università cattolica ucraina, al tempo appena in fase di costituzione, ad invitarlo a Leopoli, quindi a Ternopil e a Ivano-Frankivsk.
Si era puntato un fascio di luce – per quanto debole – su una realtà ecclesiale ed ecclesiastica per nulla ignota, almeno alla gerarchia cattolica, ma volutamente silenziata e che non avrebbe dovuto essere investigata addirittura dedicando ad essa una tesi di laurea.
Erano tempi in cui, ad esempio, un concetto come quello di “cambio di rito” era completamente sconosciuto ai cattolici italiani, uomini e donne, e che, nello svolgersi della storia della Chiesa del nostro Paese, è rimasto, sempre volutamente, ben serrato nei cassetti di eruditi e studiosi specialisti.
Erano anche tempi in cui, onde evitare qualunque “passaggio di rito” che, per quei pochissimi – più rari delle mosche bianche – al riguardo ben avveduti, avrebbe potuto consentire un’ordinazione presbiterale di uomini sposati (appunto), la Santa Sede apponeva la famigerata clausola “excepta sacrorum ordinum receptione”, che bloccava esattamente quella possibilità canonica, derivandone, come nella tesi fu ampiamente rilevato, un incoerente “cambio di rito a tre quarti”, ammesso cioè per ogni aspetto della vita ecclesiale, spirituale, sacramentale, giuridico, salvo che per l’ordinazione.
La clausola poi progressivamente sparì dall’indulto – come si chiama tecnicamente – per il passaggio di rito, anche perché, nel frattempo, e già durante il pontificato di Giovanni Paolo II, fu reso possibile il “cambio di rito”, dall’appartenenza latina ad una orientale, con il solo consenso per iscritto dei due vescovi, latino ed orientale, che avessero potestà sul medesimo territorio geografico.
Venticinque anni sono un quarto di secolo, un pezzo di vita significativo e lungo.
Nel 1999, sempre continuando con gli esempi, non era neppure consentito ad un prete cattolico orientale legittimamente sposato esercitare il ministero in Occidente, a motivo di una serie di disposizioni normative di inizio Novecento abrogate solo nel novembre 2014 – dieci anni fa quasi esatti – con i Pontificia Praescripta de clero uxorato orientali.
Quella stessa tesi un anno più tardi, nel dicembre 2000 – in simbolica coincidenza con la chiusura del cosiddetto “Grande Giubileo” -, uscì pubblicata in un volume dal titolo Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale, con l’introduzione del celebre orientalista Dimitri Salachas.
Ma qual era il contenuto specifico che infastidì quasi ogni rappresentante di clero (latino), anche dichiaratamente “progressista”, con rarissime eccezioni? Non era soltanto il fatto di parlare di qualcosa di cui sarebbe stato meglio – più “prudente” – tacere.
Sconcertava – o piuttosto, diciamolo, proprio “dava sui nervi” – un approccio strettamente giuridico, laicamente giuridico, tanto da ipotizzare, da parte mia, una concessione di biritualismo a chi, sposatosi nella Chiesa Latina e transitato con debito permesso canonico ad una Chiesa Orientale, ricevesse l’ordinazione presbiterale pur coniugato, così da assicurare una presenza di preti, per capirsi, “normali” (cioè, ahinoi, latini appunto, almeno nella liturgia) nelle comunità composte dall’assoluta maggioranza di cattolici appartenenti alla Chiesa Latina, la più conosciuta e universalmente diffusa - anche in Africa equatoriale e nella foresta amazzonica -, benché, come ci si lamenta di continuo, “povera di vocazioni”.
E oggi?
Oggi, venticinque anni dopo, è in corso di svolgimento un Sinodo dei Vescovi che non è dato capire bene verso quale direzione concreta si muoverà, ma tra i 21 nuovi Cardinali, di cui il Papa ha annunciato la creazione il prossimo dicembre, potrebbe esserci qualcuno – chissà – che ritenga non del tutto stravagante, campato per aria, quell’ormai antico studio di diritto.
Buona domenica.