Buon voto!


di Paola Franchina

Il noto testo platonico La Repubblica, in greco πολιτεία, è un dialogo composto tra il 380-370 a.C. Nei capitoli II-III prende spazio una riflessione articolata sullo stato ideale: tale meditazione è occasionata dal critico momento storico in cui versa la città di Atene: a seguito della guerra del Peloponneso si assiste, infatti, all’instaurarsi del governo oligarchico dei Trenta Tiranni, il quale viene a sua volta avvicendato dalla democrazia. Fu proprio la democratica Atene a compiere uno dei delitti più atroci dell’umanità; nel 399 a.C, presso l’acropoli, si riunisce l’Areopago: sul bancone degli imputati vi è Socrate, la cui straordinaria passione per la verità era divenuta un’arma di seduzione capace di ammaliare i giovani; il dubbio socratico, strumento corrosivo di smascheramento delle false certezze millantate dai sapienti, diviene una seccatura per gli ateniesi, al punto che Socrate viene investito del titolo di tafano, insetto noto per la sua molestia in grado di infastidire sia uomini che gli animali. Il processo vede il filosofo intento a far crollare a una a una le accuse mediante semplici domande. La fine della triste vicenda è nota a tutti: Socrate si uccide, avvelenato con la cicuta.

È in questo momento storico che si avvia la riflessione di Platone sullo stato ideale. Tale meditazione è contemporanea alle teorizzazioni di Alcmeone di Crotone, il quale, attraverso un’analogia tra l’ambito medico e quello politico, arriva a sostenere che, se la salute di una società consiste nell’equilibrio (isonomia) tra proprietà (dynameis) opposte, la tirannia può essere considerata alla stregua di una malattia in cui un elemento prevale sugli altri.

Nel solco della teorizzazione di Alcmeone, Platone, nella Repubblica, offre una ricostruzione fenomenologico-genetica della nascita e dello sviluppo della polis: in principio vi era un piccolo villaggio connotato da forti legami di solidarietà, successivamente, si assiste ad un processo di arricchimento e complessificazione interna che determina una graduale degenerazione sia morale che fisica. L’infrangersi dell’idillio iniziale diviene spunto per una riflessione inerente un’utopica città. Lo stato ideale platonico è connotato da una rigida divisione interna– ciascuno dovrebbe infatti specializzarsi in una sola techne - , costringendo gli abitanti a collaborare per provvedere alle proprie necessità; la società sarebbe così divisa: i lavoratori, la cui caratteristica è la temperanza, i guardiani, la cui caratteristica è il coraggio, e la classe governativa caratterizzata dalla saggezza. Questi ultimi, secondo Platone, disponendo delle facoltà intellettuali, possono presiedere la città, evitando che essa finisca nel caos. Al centro della Repubblica platonica vi è il tema cardine della giustizia, concepita come un’armonia tra le classi dei cittadini.

Con Platone si avvia, così, una riflessione che vedrà impegnati filosofi e teologi. Aristotele arriva a concepire la giustizia come partecipazione all’essenza della virtù: essa diviene medietà, che non consiste nel dare a tutti allo stesso modo, ma costituisce una quantità variabile che muta a seconda del bisogno. Agostino, invece, mette in evidenza lo scarto sussistente tra la conoscenza del giusto e l’azione giusta: quest’ultima, infatti, esige la partecipazione della grazia divina.

Le meditazioni sulla giustizia hanno consumato carte e, ancora, oggi mantengono il loro fascino, sia per l’interesse del tema, o forse, semplicemente a motivo della constatazione che la giustizia non è ancora stata realizzata. Essa, infatti, si insinua in un equilibrio precario tra il già e il non ancora, fungendo da principio critico che orientare le nostre scelte. Lecito, dunque, almeno sperare che non siano, ancora una volta, la demagogia e i populismi a sacrificare, con illusorie promesse, il tafano fastidioso della Verità.

Buon voto!