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Viaggio in Italia


di Stefano Agnelli


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17. Venezia



Vista dal battello in servizio sul Canal Grande, Venezia di notte è ancora più bella, illuminata a tratti ma avvolta nelle acque buie, che per qualche strano motivo ci sembrano molto profonde, più del dovuto, tanto da non poter credere che la città sia fondata quasi interamente su pali di legno. L’immaginazione, nel riconoscere le sagome dei camini allargati, concessi nel Medioevo soltanto alle case dei capitani a mare, scorre a ritroso i secoli, quando carichi di avorio, spezie, legni e metalli preziosi, stoffe e sete raffinate, arrivavano ai moli di Venezia dal lontano Oriente. Oggi la città è sola, parzialmente abbandonata dai suoi abitanti - che le hanno preferito l’entroterra mestrino - sovrabbondante di turisti, specie l’estate, in cerca di poche immagini tipiche, da fissare nella memoria per evitare di vederla com'è e magari, di un bel giro in gondola per completare l'illusione.

Ma basta tirare a perdersi per calli e campielli per scoprirla ancora viva: qualche stamperia artigiana, ben nascosta, alla pari delle vetrate di vecchie osterie, gelosamente riservate agli abitanti e a qualche fortunato turista, dove trovare i tradizionali cicchetti. Un albero enorme, fronzuto e solitario, a dominare il campiello dove se ne sta da secoli, un pozzo inchiavardato in ferro arrugginito e circondato da gatti male in arnese, ma con occhi furbissimi; la grande scala esterna a chiocciola, dalla pianta circolare, unica al mondo. E poi ancora, la vecchia e cadente Scuola degli Armeni, verso i magazzini ristrutturati del porto, divenuti una delle sedi dell’Università Cà Foscari, per lungo tempo la sola in Italia, assieme alla Sapienza di Roma, dove si potevano studiare le lingue orientali, o la manifattura dove si fanno ancora, rigorosamente a mano, con gli stessi attrezzi del Medioevo, le gondole nere e lucenti. Barche strane, storte di chiglia, per poter essere governate da un solo remo, che contengono con eleganza comodi sedili in raso rosso ed un abile gondoliere, il quale conosce a memoria tutto il repertorio delle canzoni napoletane. Tanto ’a rezza (la rete, in napoletano), la tiravano anche qui, ma nelle acque salmastre delle isole che circondano numerose la città.

Se siete fortunati e capitate a Burano - una delle isole maggiori, dalle case dipinte in toni pastello, a contrastare le precoci brume invernali - sul finir di settembre, potete gustare dell’ottimo pesce fritto, assieme alla morbida polenta bianca, accompagnato da un vinello chiaro in damigiana, che rende l'assaggio un piacere unico per il palato. È la Sagra del pesce di laguna, che i pescatori di Burano organizzano ogni anno al termine dell’estate, nel primo autunno. Quella stessa estate in cui si organizzavano i tagli degli alberi segnati, nei boschi del Cadore e della Val di Fiemme, possedimenti di terra della Serenissima. Solo quelli pronti a diventare fasciame, alberatura, remi di nave, di galea, venivano infatti segnati e tagliati per la flotta della Repubblica. Via fiume, giungevano poi in massa all’Arsenale, immenso ed efficiente cantiere navale, le cui maestranze specializzate erano vezzeggiate e ben pagate. Le veloci galee di San Marco hanno fatto la fortuna dei mercanti veneziani, poiché grazie al cabotaggio, cioè alla navigazione lungo le coste dalmate, e poi giù, passando per Ragusa (oggi Dubrovnik), toccando le coste della Grecia, di Creta e Cipro, giungevano sicure in Siria, dove gli intraprendenti mercanti arabi avevano condotto le merci d’Oriente, a dorso di mulo e di cammello. Navigando lungo le coste, in caso di tempesta o di pirati, si poteva riparare velocemente in uno dei tanti porti fortificati, che i veneziani avevano costruito lungo il tragitto sopra descritto. Le merci erano al sicuro, gli affari prosperavano e i mercanti si arricchivano sempre più, almeno sino a quando i portoghesi non presero a circumnavigare l’Africa, aprendo così una via diretta per le indie che, eliminando la mediazione dei mercanti arabi, permetteva loro di avere merci ad un prezzo inferiore, anche perché contrattato in loco. Eppure Venezia resistette fino al Settecento, in lento ma inesorabile declino, quando l'atmosfera di palpabile decadenza, si tradusse in musica, nelle opere straordinarie di Antonio Vivaldi, Benedetto Marcello e Tomaso Albinoni.

Da allora la città non si è più ripresa. Venezia, inutile negarlo, sta morendo da tempo, forse è già morta, una salma esposta e confezionata ad arte in un catafalco barocco, in cui vive, defunta e cristallizzata soltanto per i turisti, una lenta, eterna agonia che assomiglia tanto a quel lunghissimo declino – ben tre secoli - innescato dalle nuove rotte oceaniche. La città lagunare, che ancora si anima col Carnevale (ma dopo il Martedì Grasso, c’è sempre la Quaresima), ci ricorda il ripetersi senza fine né inizio della caducità della vita, ma anche la sua forte, secolare resilienza. Questa sensazione che la città lascia - chi l’attraversa, l’ha provata almeno una volta – è persistente, rimane a lungo nell’animo e si rinnova puntualmente ad ogni visita, almeno finché Venezia esisterà/resisterà, proprio come sta facendo ora, metafora dell’oggi, dove si sta come sospesi, in perenne equilibrio fra la vita e la morte.