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Il Buon Samaritano - Francesco Fornebraccio, 1759 - Museo Diocesano Tridentino - immagine tratta da commons.wikimedia.org


Visuali differenti sul cristianesimo e sugli stranieri

di Dario Culot



Sul quotidiano “Il Piccolo” di Trieste vengono accolte segnalazioni di lettori su vari argomenti. Chi scrive mette il proprio nome, quindi i nomi sono di pubblico dominio insieme al contenuto dello scritto. Le segnalazioni che toccano il campo religioso sono a volte fra le più interessanti, perché dimostrano come – nella stessa città - si è in presenza di visioni assolutamente contrapposte di cristianesimo. Probabilmente lo stesso avviene in tutte le altre città.

Emerge così concretamente quanto aveva profeticamente anticipato Enzo Bianchi nella rivista Jesus n.7/2016: “Si è ormai introdotta una crepa nella Chiesa italiana: a poco a poco e in modo sempre crescente appare la diversità, fino ad essere una vera e propria opposizione, tra cattolici che vogliono ispirarsi al Vangelo e cattolici per i quali la prima preoccupazione è la tradizione, l’identità cattolica localista… Siamo in una situazione di incertezza e anche di scisma non più occulto tra posizioni e gente di chiesa. Di fronte a tale scenario si possono nutrire sentimenti di rincrescimento e di preoccupazione, ma credo si debba anche riconoscere che questo è il prezzo da pagare, perché il Vangelo emerga con la propria egemonia nella comunità cristiana. È il Vangelo, infatti, che ha cambiato e cambia il nostro modo di essere cattolici, che ci ricorda che siamo cristiani perché discepoli di Gesù ben prima di esserlo per tradizione, cultura, appartenenza ad una terra e ad una storia. Nei prossimi anni questa frattura crescerà sempre di più e, come sempre, chi vorrà seguire solo il Vangelo sarà perdente, mentre la religione troverà nuovi assetti mondani. Ma il Vangelo, come fuoco deposto sotto la brace, anche coperto di cenere, divamperà ancora”.

Ecco allora un esempio di come si può vedere lo stesso fatto in maniera opposta. Trattasi del problema dei migranti, e quindi sempre attualissimo.

Dopo che alcune persone avevano segnalato la situazione indecente che è sotto gli occhi di tutti, nei pressi della stazione ferroviaria di Trieste, perché decine di migranti restano lì attorno accampati alla bell’e meglio e questa non è certamente una visione decorosa, nel mese di ottobre del 2022, è stata inviata al sindaco di Trieste e al prefetto una lettera aperta sulla questione immigrati, che arrivano in centinaia non dal Mar Mediterraneo d cui si parla in continuazione, ma dalla rotta balcanica, anche se di questi cospicui ingressi, in Italia, se ne parla molto meno rispetto a quelli marini. Ecco il testo:

a) “Alcuni giorni fa intorno a mezzanotte una nostra amica, in arrivo con l’ultimo treno da Milano, all’uscita della Stazione, ha visto decine di uomini, donne e ragazzi che dormivano al riparo (?) di una piccola tettoia sulla scalinata della Sala Tripcovich. Coperti alla meno peggio da cartoni e fogli di plastica, si difendevano, stretti gli uni agli altri, dalla pioggia e da un freddo pungente già quasi invernale. Appena a casa ha telefonato e mandato messaggi ad amici e amiche per condividere il suo sconcerto. Che facciamo, deve aver detto.

Intanto, senza pensarci due volte, una di loro ha raccattato vecchi cappotti, maglioni e coperte e si è precipitata alla stazione. Ha parlato con alcuni uomini e ragazzi, ha sentito il loro dolore, il tempo sospeso. Per questo piccolo gesto ha ricevuto tanti ringraziamenti! Erano ormai le due quando, tornata a casa, ha inviato con ancora più sgomento un messaggio ad alcuni di noi.

Non si è trattato di un limitato momento problematico. In molte altre occasioni, sia di giorno che di notte, molti di noi hanno avuto modo di toccare con mano questa drammatica situazione.

Che facciamo?

Un numero imprecisato, ma molto alto, di richiedenti asilo staziona giorno e notte in Piazza Libertà, dinanzi alla Sala Tripcovich e nelle zone limitrofe, in cerca di un riparo dal freddo e dalla pioggia, nell’assoluta indifferenza delle istituzioni che dovrebbero invece ricollocarli in sedi di prima accoglienza. Ogni notte, ci riferiscono le associazioni, è una scelta drammatica: a chi, tra i più vulnerabili dare un giaciglio provvisorio al chiuso e lasciarne per strada altre decine.

Che facciamo?

Ecco signor prefetto e signor sindaco, è per questo che abbiamo deciso di scrivervi questa lettera aperta. Siamo cittadine e cittadini che amano la nostra città, la forza della sua storia, si adoperano per sostenere e dare valore al vivere democratico e solidale, che vogliono resistere al dilagare dell’indifferenza.

Li chiamiamo migranti ma si tratta di persone che hanno diritto a un posto di accoglienza, che, secondo le disposizioni di legge, dovrebbe essere assegnato con immediatezza dal momento che hanno chiesto asilo e sono prive di mezzi. Oltre alla mancanza di umanità, nel loro abbandono, c’è anche una grave violazione delle norme. I livelli di responsabilità sono più di uno: il Ministero che non assegna a Trieste quote sufficienti per operare i trasferimenti dei richiedenti asilo in altre aree del territorio nazionale, come è sempre avvenuto a Trieste dal 2016 e come è ovvio che sia dal momento che la città non può da sola farsi carico dell’accoglienza stabile di tutti i richiedenti asilo in arrivo. La Prefettura, che di fronte a una situazione di difficoltà iniziata già da luglio, avrebbe dovuto agire con maggior sollecitudine per collocare temporaneamente le persone in attesa di trasferimento o per inserirle nel sistema di accoglienza diffusa di Trieste. Il livello locale, segnatamente il Comune, che nel rispetto del principio di collaborazione con le altre istituzioni, non agisce di concerto con la Prefettura per individuare e aprire spazi provvisori, per evitare di abbandonare così tante persone alle intemperie.

Non si tratta, come loro ben sanno, di allestire nuove strutture abitative ex-novo, ma di individuare in tempi strettissimi spazi idonei per garantire un riparo dal freddo e un utilizzo civile di servizi igienici di prima necessità, in attesa che arrivi il giorno del collocamento o della partenza agognata. Sono, per esempio, l’ex palazzetto dello sport di Chiarbola o i molti spazi vuoti nella stessa area della stazione o la stessa Sala Tripcovich, che, in attesa della sua annunciata demolizione,[1] possa per un’ultima volta svolgere una luminosa funzione di profonda umanità.

Perché il problema non è il “decoro” della piazza della stazione, ma l’abbandono delle persone. Il decoro è umanità, accoglienza, civile convivenza e riconoscimento dell’altro.

Certi di un vostro pronto impegno…”   La lettera è sottoscritta da circa 600 persone.

b) Su “Il Piccolo” del 14 ottobre 2022 – c’è stata una replica del consigliere comunale Salvatore Porro dal titolo “I firmatari agiscano in prima persona”. Qualificandosi cattolico-romano-mariano, il consigliere ricorda che la beneficienza si fa con le proprie risorse personali ed economiche, seguendo l’esempio del ‘buon samaritano’ della parabola di Gesù (Lc 10, 25-37). Perciò la solidarietà espressa dai 600 firmatari sarebbe molto più credibile se essi decidessero di ospitare in casa propria i migranti che tanto li commuovono. Visto che il flusso di accessi è destinato ad accrescersi in continuazione, anche se con indebito sforzo degli organi pubblici e spreco di risorse si riuscisse a tamponare per qualche momento la situazione, il problema si riproporrebbe prestissimo in maniera ancora più grave. Né si deve dimenticare che in città esistono tanti concittadini che versano in gravi condizioni di indigenza e di cui nessuno parla perché essi ‘non servono’ al clamore pubblicitario: sarebbe molto più giusto aiutare costoro. Ama il prossimo tuo come te stesso (Mt 22, 37-39).

b1) Il sig. Marco Coselli, sempre in riferimento alla lettera dei 600, ritiene fastidiosa l’arroganza e la supponenza nell’autoincensarsi come la parte migliore dei cittadini (diversi si sono firmati anche con titoli accademici) essendo poca cosa rispetto agli altri 190.000 abitanti di Trieste che non hanno espresso pareri, per cui questi firmatari parlano esclusivamente a nome loro, e non sono gli unici detentori della verità. “Perché, se uno non è d’accordo con loro, deve sentirsi inferiore? Chi lo decide?”

b2) Anche il sig. Paolo Pocecco, su “il Piccolo” del 20.10.22, afferma che l’accoglienza non fa parte dei dieci comandamenti, cioè dei nostri principi fondamentali della religione, ma solo dei nostri principi morali; che anche il buon samaritano non si è preoccupato di trovare un lavoro, né una casa, né ha mantenuto il ferito per lungo periodo. Ritiene comunque che i rifugiati sorpresi a rubare, spacciare droga e prostituirsi dovrebbero essere subito rimpatriati forzosamente, costi quel che costi[2].

c) Don Paolo Iannaccone ha invece così risposto: “La lettera di Salvatore Porro a ‘Il Piccolo’ del 14 ottobre u.s. ha liberato in me alcune riflessioni su un tema che mi sta a cuore. Per brevità scandirò il mio pensiero in cinque punti.

Primo: le centinaia di accademici e intellettuali che, con una lettera aperta, hanno richiesto un intervento immediato volto a collocare le decine di persone che a Trieste ogni giorno sono costrette a dormire all’addiaccio a causa del mancato rispetto delle norme che riguardano il diritto ad assegnare un alloggio ai richiedenti asilo in attesa del loro trasferimento in altre aree del territorio nazionale, dimostrano una “solidarietà credibile” non solo perché si sono esposti pubblicamente su un tema scomodo e rivelante il grado di umanità che ci abita, ma anche perché dietro a quei nomi ci sono spesso storie di prossimità e di attenzione all’altro che si rivelano all’interno di una vita privata e professionale, che non ha bisogno né di pubblicità, né di dimostrazioni.

Secondo: l’“ingestibile” situazione degli ingressi può essere messa a nudo facilmente dai numeri ufficiali, che parlano di numeri in fondo modesti e perfettamente gestibili; quella dell'invasione è una “bugia” che purtroppo fa molti danni perché fomenta inutili paure e rigidità verso le persone provenienti da altri paesi, quando non addirittura giudizi ed esclusioni, portando le persone a esser trattate come rifiuti e a divenire parte di una vera e propria discarica umana.

Terzo: è ora di finirla di fare la guerra ai poveri e tra i poveri! Aiutare i profughi non significa dimenticare i concittadini che versano in situazioni di povertà ed emarginazione. Ne sono eloquente testimonianza le numerosissime realtà assistenziali presenti nella nostra città – oltre ai servizi sociali comunali, le cooperative, le organizzazioni di volontariato ecclesiali e non, le strutture caritative, di degenza e di accoglienza, dai minori agli anziani… –.

Inoltre continuare a considerare in contrapposizione i “nostri” e i “loro” non è per nulla evangelico. Proprio domenica scorsa papa Francesco esortava: “Ho paura quando vedo comunità cristiane che dividono il mondo in buoni e cattivi, in santi e peccatori: così si finisce per sentirsi migliori degli altri e tenere fuori tanti che Dio vuole abbracciare”. La parabola citata da Porro mostra il buon Samaritano che, incontrando sulla strada uno straniero mezzo morto, si china e, senza esigere la carta d’identità o sapere se abita vicino o viene da lontano, se ne prende cura per quella compassione che dovrebbe essere nel DNA di ogni uomo o donna che voglia avere una pur minima parvenza di umanità alla stregua di quel Samaritano, in cui Gesù di Nazaret si rispecchia.

Quarto: è vero, la carità sarà sempre necessaria anche nella società più giusta e nulla potrà rendere superfluo l’amore e la dedizione personale, perché – ce lo ricorda anche papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est al n. 28 – “chi vuol sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo”.

Eppure è il medesimo pontefice a ricordare che la Chiesa non può sostituirsi allo Stato; la misura intrinseca di ogni politica è proprio la giustizia. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe – diceva sant’Agostino – a una grande banda di ladri.

Allo stesso modo la carità non potrà mai sostituire l’esercizio di un diritto: i diritti vanno garantiti, appunto, da una società giusta; nel momento in cui sono demandati a puri atti di carità, non sono più diritti ma concessioni. La storia dell’età moderna è la storia di un progressivo allargamento dei diritti (diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro) verso i cittadini e poi verso chiunque. Ciò ha portato al riconoscimento di diritti universali della persona (non solo del cittadino) come il diritto di asilo. L’accoglienza dei rifugiati è un diritto previsto dalle leggi italiane ed europee, e abbandonare per strada le persone senza fornire loro l’assistenza prevista è dunque un reato.

Quinto: un auspicio. Anche la nostra città è segnata da diseguaglianze ed emarginazioni. Sogno una città che, come tra alti e bassi ha dimostrato nel corso della sua Storia, sia capace di includere sempre. Ne va del nostro domani.

c1) Una controreplica più strettamente religiosa, pubblicata su “Il Piccolo” del 16 ottobre 22, è venuta anche dal sottoscritto (il quale non è uno dei 600 firmatari): “Nella segnalazione del 14.10.22 il sig. Porro invita coloro che si spendono per accogliere gli immigrati di farlo a casa loro, e ad occuparsi piuttosto dei concittadini che versano in indigenza e di cui nessuno parla, perché si deve amare il prossimo come sé stessi. Evidentemente egli pensa che il prossimo non sia lo straniero, ma per i vangeli il prossimo è ogni persona che attraversa la nostra strada, come appunto fa il samaritano che s’imbatte per caso in uno sconosciuto. Inoltre forse non sa che le Caritas parrocchiali già cercano di occuparsi dei concittadini indigenti, mentre tanti stanno a guardare.

Secondo i vangeli Gesù non si è mai scontrato con gli impuri stranieri, né con i tanti peccatori, ma solo con i pii osservanti della religione, perché mettendo al centro della religione il sacro e i rituali, tranquillizzavano le loro coscienze e credevano di essere a posto con Dio. Invece umanizzandosi, il Dio di Gesù ha dimostrato che la vita di ogni uomo è importante perché Lui è presente in ogni uomo, a prescindere dal tipo di vita che vive, sia ateo peccatore o santo religioso, sia straniero o concittadino, per cui si onora Dio onorando l'uomo, ogni uomo, esercitando non solo la beneficienza ma condividendo (Eb 13, 16), cioè facendo qualcosa.  Il Dio di Gesù si trova pertanto nel profano, non nel sacro: nel carcerato, nel povero, nello straniero.

Peccato perciò che, pur dichiarandosi cattolico-romano-mariano, il sig. Porro si ostini a criticare chi – come diversi di quei firmatari - cerca di fare almeno qualcosa per queste persone emarginate, e soprattutto dimentica che nel giudizio finale (Mt 25, 37-43) non si verrà condannati per non aver accettato i dogmi mariani, ma proprio per non aver accolto lo straniero. Perciò se il sig. Porro pensa che l’immigrazione si possa fermare, dica come. Comunque suggerisca una soluzione fattibile e ragionevole, ma soprattutto una soluzione conforme al Vangelo visto che dichiarandosi cattolico e non accogliendo, anzi volendo cacciare lo straniero, caccia proprio il Dio in cui dice di credere. «Guai a chi si alimenta di Te”, diceva il vescovo brasiliano dom Câmara “e poi non avrà occhi per scoprirTi mentre cerchi del cibo nella spazzatura, scacciato sempre, mentre vivi in condizione sub-umana sotto il segno di una totale insicurezza».

Identificarsi con formule religiose non significa ancora vivere evangelicamente. E tutti coloro che pensano di essere cristiani, davanti al problema degli immigrati si trovano ad affrontare un bel dilemma, non facilmente risolvibile. Cosa fa ognuno di noi davanti a quelle persone che sono il nostro prossimo?”

c2) Un’altra controreplica è venuta anche da Renata Grim con una lettera pubblicata il 17 ottobre 22, la quale ricorda – accanto alla parabola del buon samaritano -, l’invito a non guardare la pagliuzza negli occhi altrui quando si ha una trave nei propri. Trave che, riguardo alla Chiesa, si ha nel suo immenso patrimonio immobiliare e nelle note disponibilità finanziarie. La segnalante richiama poi l’altro precetto secondo cui la mano destra non sa quello che fa la sinistra, chiarendo che la sua mano deve ogni anno sottoscrivere un’onerosa dichiarazione dei redditi “con l’aspettativa di vedere utilizzati tali importi anche per l’accoglienza e il sostentamento di ch ha bisogno. Migranti compresi”. Richiama quindi il fatto che, facendo il sig. Porro parte dei rappresentanti politici retribuiti per risolvere i problemi, ovvero per indicare le possibili alternative e non per riversare sui cittadini opinabili omelie, il lavarsi le mani del problema è comportamento assai discutibile.

Come vedete c’è sempre ampio spazio per argomentare, e la risposta è necessariamente legata alla definizione che si dà al termine cristianesimo e al termine mio prossimo.

Quando le persone chiedono a Gesù cosa devono fare per compiere le opere di Dio, e quindi per essere a posto con Dio, egli risponde: “Questa è l’opera di Dio: credere in lui” (Gv 6, 29). Non dice di rispettare i dieci comandamenti, di credere alle dottrine e ai dogmi. L’unica volta che appare nell’Antico Testamento il termine ‘opera di Dio’ è nel Libro dell’Esodo (Es 32,16), per indicare le tavole della legge. Ma con Gesù c’è un cambio di alleanza, il rapporto con Dio non è più basato sull’osservanza della legge che Dio ha dato a Mosè, ma sull’accoglienza dell’amore che Gesù, il quale si dichiara mandato dal Padre, ha dimostrato vivendo. Quindi si sarà figli di Dio non più obbedendo alle tavole della legge, ma seguendo il comportamento di Gesù, in cui si manifesta l’amore misericordioso proprio di Dio.

 

Se per cristianesimo s’intende allora cercar di seguire cosa ha fatto Gesù nella sua vita, e non seguire semplicemente una dottrina o una credenza, occorre accettare di vivere in un certo senso ai margini dell’esistenza, identificandosi con gente come gli schiavi, gli stranieri, i fuorilegge e quelli considerati maledetti da Dio[3]. Non si tratta, naturalmente, di trasformarsi in uno di questi apolidi, esclusi o soggetti pericolosi. Si tratta però di vivere come propri i problemi che questa gente deve trascinarsi dietro e con cui si confronta ogni giorno. Vale a dire, tutto il cristianesimo si focalizza nel rimodulare la nostra sensibilità e le nostre preoccupazioni affinché in questa società e nella cultura che oggi abbiamo si accorcino le distanze di disuguaglianza, ingiustizia, carenze e sofferenze che segnano gli strati di questo mondo così violento che abbiamo costruito fra tutti noi[4].

Come ha rimarcato papa Francesco, è necessario rafforzare la consapevolezza di essere un’unica famiglia umana, eliminando i confini politici e sociali ed evitando la globalizzazione dell’indifferenza. Non a caso questo papa denuncia “la globalizzazione dell’indifferenza” che ci rende “incapaci di simpatizzare con le grida degli altri” e di piangere “di fronte al dramma degli altri”; e critica l’“anestesia” generata dalla “cultura del benessere” e la considerazione degli esclusi da parte dei mercati come “popolazione di scarto” e di eccedenza[5]. 

Chi segue Gesù secondo il progetto e le esigenze presentate dal Vangelo, cambia radicalmente la propria stessa mentalità, i propri valori e, di conseguenza, il proprio modo di vivere[6]. Perciò i veri cristiani sono in realtà pochissimi, un piccolo gregge (Lc 12, 32). La maggioranza di coloro che si dichiarano cristiani pratica una religione, e pensa di aver esaurito il suo compito andando a messa la domenica, adorando Dio e venerando la vergine e i santi, senza mai neanche curarsi del proprio prossimo, che è colui che incrociamo per strada anche occasionalmente[7].

Da ultimo, forse dovremmo riflettere sul fatto che accogliere gli emarginati è utile anche per noi tutti: ad esempio dar loro qualcosa da mangiare è già nutrirli, ma mangiare con loro è un modo per far loro ritrovare dignità e il senso di appartenenza all’umanità. Continuare invece a ferire persone già ferite, a respingerle, può facilmente portare come reazione alla rabbia e poi anche alla violenza. E allora, visto che non possiamo risolvere il problema mangiando gli stranieri che arrivano, forse è nel nostro stesso interesse cercar di non creare qui da noi un terreno fertile acciocché persone sofferenti e disorientate si dedichino dapprima alla criminalità (dovendo pur sopravvivere), e poi magari non cerchino redenzione accostandosi a una fede fanatica.

Finché ci saranno i poveri e gli stranieri emarginati il regno di Dio non può dirsi arrivato, perché l’arrivo del regno di Dio dipende dal nostro impegno a favore di questi infra-privilegiati.

Perciò sono convinto che la società – pur dichiarandosi ancora prevalentemente cristiana - non ha dentro di sé presente Gesù, perché Gesù non si siede alla tavola di coloro che non cercano la dignità di tutti i propri membri, mentre si siede alla tavola dei poveri che noi abbiamo emarginato.


NOTE

[1] Oggi la Sala è stata ormai abbattuta.

[2] A queste osservazioni è facile replicare che l’accenno al samaritano non coglie nel segno perché, dopo essersene andato dalla locanda, lo stesso assicura all’albergatore che tornerà e gli restituirà eventuali somme pagate in più (Lc 10, 35). Quanto alla sostanziale impossibilità di rimpatriare gli stranieri rinvio a quanto ultimamente spiegato – per l’ennesima volta - nell’articolo Elezioni 1 – Considerazioni generali al n. 678 di questo giornale. Quanto al dovere di accoglienza – oltre a quanto detto nell’articolo sulla Convergenza al n. 674 di questo giornale), non possiamo dimenticare che anche nel giudizio finale (Mt 25, 31-46) il criterio scelto da Dio per giudicare gli uomini non sarà nessuno dei dieci comandamenti su cui tanto lo scrivente (e ancora oggi  buona parte della Chiesa) punta, ma sempre e solo come ci siamo relazionati con le altre persone che abbiamo incrociato nella nostra vita, e con le loro sofferenza (avevo sete, avevo fame, ero in carcere, ero straniero, ecc.). Basta questo per farci capire quanto sia difficile essere veri cristiani.

[3] Warren Carter, El Imperio romano y el Nuevo Testamento, Verbo Divino, Estella (Navarra), 2011, 499.

[4] Castillo,J.M., El Evangelio marginado, Desclèe De Brouwer, Bilbao, 2018, 99.

[5] Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 24.11.2013, §§53s.

[6] Se si segue veramente il vangelo, normalmente inizia un conflitto e si scatena una violenza contro chi parla e agisce di conseguenza. Ecco che si spiega la chiamata più forte e più dura che c’è nei vangeli sulla “sequela”: «se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34; Mt 16,24; Lc 9,23).

[7] È significativo che per Gesù di Nazareth il prossimo non è una categoria, non è chi è vicino a me, ma colui che io decido di rendere vicino (Bianchi E., Chi ha paura della vicinanza in “la Repubblica” del 23 agosto 2021).