Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Com’è nata la religione?

di Dario Culot


Pubblicato il volume di Dario Culot che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/


Oggi sappiamo bene che l’immagine che ci facciamo di Dio è comunque sempre falsa (una semplice nostra rappresentazione mentale di qualcosa che è trascendente, cioè al di là di ogni nostra possibilità di comprensione), perché, come dice il prologo del Vangelo di Giovanni, nessuno ha mai visto Dio, per cui nessuno lo conosce. Oggi riconosciamo che Dio resta un mistero, e che di Lui non sappiamo quasi niente. In proposito ho richiamato più volte l’affermazione di papa Benedetto XVI,[1] tanto amato proprio dai tradizionalisti: quando si parla del Dio Trascendente, non sappiamo sostanzialmente nulla e riusciamo solo ad accennare alla verità, che tuttavia nella sua totalità non coglieremo mai in questa vita, appartenendo noi al diverso ambito dell’immanenza. Perciò questo dovrebbe essere ormai un fatto assodato e accettato da tutti. Invece questa idea non è stata ancora digerita dai credenti più tradizionalisti che continuano a voler imporre agli altri i dogmi sull’essenza di Dio stabiliti dalla Chiesa oltre un millennio e mezzo fa. Proprio perché l’idea di Dio è frutto di una rappresentazione umana, abbiamo nel mondo tante religioni,[2] e quando uno è convinto che solo la sua immagine del divino è l’unica giusta, pur non potendo dimostrarlo, già si separa dagli altri. Fin qui ancora niente di male. Ma quando un credente vuole imporre anche agli altri la sua visione spirituale, e s’imbatte in un credente che vuole imporre a sua volta la propria e diversa visione, si arriva inevitabilmente allo scontro. Per scontrarsi c’è bisogno di almeno due integralisti contrapposti, perché ogni integralista non sopporta chi non la pensa e non vive come lui vuol pensare e vivere. Ecco perché secoli fa un grande mistico cristiano diceva: “preghiamo Dio di diventare liberi da Dio”[3]. Cioè liberiamoci dall’immagine di Dio che abbiamo creato nella nostra mente, soprattutto avendo poi l’arrogante pretesa di dire che è l’unica vera.

Ma se non sappiamo quasi niente di Dio, com’è nata la religione? La tesi che tutti conosciamo è che la religione è nata quando l'uomo ha cominciato a pensare a un'esistenza di forze soprannaturali, oggi spiegate come fenomeni naturali, che incutevano paura e contro i quali non c’era difesa. Nell’immaginazione dei nostri avi questi fenomeni assumevano la forma di poteri personali invisibili, che si sono trasformati in déi; e gli dèi dimoravano per forza in cielo, perché dal cielo cadevano tuoni e fulmini. Si spiega così anche il politeismo (pluralità di dèi, dal greco polys+theos). Quando il discorso ha acquisito caratteri di maggior astrattezza (e questo  è avvenuto soprattutto sempre in Grecia) si è passati dal politeismo al Dio unico, al monoteismo.

Resta comunque strano che il monoteismo non sia nato nella Grecia che discuteva di filosofia e di metafisica astratta, bensì circa mille anni prima di Cristo a sud-est in Medio oriente. È curioso pensare come proprio nel Mediterraneo, brulicante di idoli, di altari, che aveva la più grande concentrazione per metro quadrato di divinità di tutto il mondo di sempre, proprio nel Mediterraneo a un certo punto si impiantò la notizia di un Dio Unico, che non era più il presidente di un’assemblea di divinità minori,[4] “ma era quello che li distruggeva tutti, li sradicava uno per uno dai luoghi dove si erano installati, dai loro templi, dai loro altari e dal cuore degli uomini. Per di più, questa lenta ma inesorabile eliminazione di tutti gli altri dèi, non è avvenuta in una lingua di qualche potenza militare di allora, come gli Egizi o i Babilonesi, o in seguito i Romani, o i Cartaginesi; non è avvenuta nemmeno attraverso la lingua greca, che nel campo della cultura del Mediterraneo era “La Lingua” della letteratura e del commercio; tutto è accaduto, invece, attraverso una lingua difficilmente traducibile, usata da un piccolo popolo di pastori,[5] certamente non ricca come il greco[6]. È indubbio che, se un simile progetto fosse stato deciso oggi in un’assemblea di saggi, sicuramente tutti sarebbero stati d’accordo nel dire che era illogico affidare un messaggio con mire di esclusività e supremazia a una lingua che era parlata in un’area minuscola e insignificante e per di più da gente cui gli altri popoli non guardavano con particolare ammirazione e rispetto. Sarebbe come se oggi, anziché usare l’inglese o il cinese per proclamare un messaggio universale, si decidesse di usare la lingua del Lesotho: un vero e proprio gioco d’azzardo. Eppure il trionfo del monoteismo in quel piccolo popolo ha avuto conseguenze in tutto il mondo.

Ma fra gli studiosi si è fatta largo, da un bel po’ di tempo, un’idea che colloca la nascita della religione ancora più a monte: gli studiosi si sono ormai convinti che l’idea di Dio è un prodotto piuttosto tardivo nella storia umana,[7] dove per migliaia di secoli già si praticarono riti (che possiamo già definire religiosi) legati alla morte; la religione è quasi certamente nata senza che ci fosse ancora alcuna precisa idea degli dèi o di Dio; la religione è nata come rituale associato al sacrificio: nel cuore della religione, di ogni religione cioè, è in agguato la violenza, perché l'azione sacra, eseguita nel luogo sacro, nel giorno sacro, dalla persona sacra a ciò addetta, è l'uccisione (lo sgozzamento) della vittima[8]. L’atto del sacrifico esprime quindi innanzitutto la consapevolezza di essere al contempo vulnerabili e violenti. L’azione sacrificale è un modo per ritualizzare e incanalare la violenza. Nessuna delle tre religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo), che coprono circa metà dell’umanità, si è liberata da questo elemento ancestrale di violenza. Neanche il cattolicesimo, che ancora da Paolo fino a noi, ha fatto giungere la sconvolgente affermazione: "senza effusione di sangue non c'è remissione" (Eb 9, 22).

L'homo sapiens calpesta la terra da almeno 150.000-100.000 anni (dal paleolitico medio[9]). Le notizie storiche più precise si cominciano ad avere, però, solo dopo che è nata la scrittura (appena fra i 10.000-3.500 anni a.C.). Quindi, non sappiamo sostanzialmente nulla di almeno 90.000 anni. Però dalle scoperte fatte dagli antropologi e dai paleontologi qualcosa si è capito. Probabilmente l’antropologo di Zurigo Walter Burkert è colui che ha inquadrato meglio (nel suo libro Homo necans) l’inizio del fenomeno religioso,[10] chiarendo che l’uomo, per mantenere la sua vita, ha dovuto da sempre uccidere.

La fonte della nostra vita - per quanto possa apparire per noi doloroso e forse anche umiliante - è la morte: quando mangiamo un frutto o tagliamo dell’insalata, abbiamo tolto la vita a quei prodotti che avrebbero potuto continuare a vivere. Lo stesso succede quando uccidiamo un animale per mangiarlo: per mantenere la nostra vita ci siamo sempre comportati da homo necans, uomo che uccide. Per vivere noi, occorre sacrificare un’altra vita. Quindi, la prosecuzione di una vita è continuamente associata al sacrificio di un’altra, alla morte di un altro essere. Questa è una realtà universale e quotidiana, alla quale non facciamo neanche più caso, tanto che ci appare non solo necessaria, ma perfino innocente[11]. Questa realtà umana, che è durata per millenni, forse non appariva poi così innocente, per cui si è, a poco a poco, ritualizzata[12]. Ad esempio, i paleontologi hanno scoperto in Africa (luogo delle origini più antiche dell’homo sapiens) che i nostri antenati cacciatori, quando uccidevano a mangiavano un animale, poi seppellivano le ossa con un rituale specifico: analizzando i resti è stato cioè scoperto che essi venivano sistemati con un criterio ordinato e preciso. In Siberia, sotto crani di mammut (periodo paleolitico superiore, finito circa 10.000 anni fa) è stata rinvenuta una statuetta femminile[13]. Così in Sudan e Abissinia. Quindi sacrificio[14] dell’altrui vita e rituale sono stati associati inscindibilmente fin dall’inizio. Certamente l’eccitazione della caccia, l’affannoso inseguimento, il sangue, la morte (cioè una situazione che al tempo stesso respinge e attrae) hanno contribuito a far nascere sentimenti irrazionali e primordiali che hanno qualcosa di inquietante, misterioso, tremendo, spaventoso, attraente ma anche raccapricciante;[15] esperienze che l’uomo ha presto cercato di incanalare nel rito forse sperando di padroneggiare questa realtà misteriosa. Che ci piaccia o no, l’origine della religione è dunque inscindibilmente associata alla violenza[16] e alla morte, proprio perché per mantenere la sua vita l’uomo ha sempre dovuto uccidere, dall'inizio della sua storia. E fin dall’inizio dell’umanità il legame tra la disgrazia, cioè la morte dell’animale, sembra portare necessariamente al rituale religioso,[17] che sublima il senso di colpa per la morte di un altro essere vivente attraverso il sacrificio. Da sempre, cioè, c’è questa stretta correlazione: uccisione per poter sopravvivere - disastro per l’animale - senso di colpa - rituale religioso - morte rituale con effusione di sangue - sacrificio rituale, che mette a tacere il senso di colpa. Il sacrificio religioso esprime simbolicamente che una vita vive a costo di un’altra vita, e in questo modo è quasi di sicuro nata la religione,[18] molti millenni prima che si cominciasse a pensare a un Dio trascendente. Con simile inizio, dunque, non è strano che nel cristianesimo si sia parlato di Gesù sacrificato come un agnello, e che ancora la messa venga vista come un sacrificio. È un legame con le origini che si perdono nella notte dei tempi.

I riti servono ovviamente per svariati motivi; non per ultimo ci servono per governare un po’ le nostre paure e insicurezze. Ma la religione non può servire solo per tenere a bada le ataviche paure che ci portiamo dentro. Sicuramente una grande novità del cristianesimo è consistita nel fatto che Gesù ci ha fatto capire che ci salviamo non per correttezza di riti ma per correttezza di cuore: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro” (...) “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza (Mt 15, 10-20). Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.

Altra grande novità, che ha favorito il grande successo del cristianesimo, è stata l’aver saputo cogliere una necessità profonda dell’essere umano: l’uomo, nella sua limitatezza, si sente come defraudato in questo mondo; sente di avere possibilità inespresse, e questa religione gli ha dato la speranza di poter appartenere a una realtà più grande e di continuare a vivere anche dopo la morte biologica. Se si vive per gli altri, assicura Gesù, la nostra vita diventa indistruttibile (Gv 6, 51ss.), sì che noi siamo chiamati a vivere in eterno. E questa idea è stata spiegata da Gesù con un esempio terra terra che tutti possono capire: «Se il piccolo seme non muore resta solo» (Gv 12, 24), cioè si illude di poter restare vivo, ma se non cade in terra e se non muore non produce niente. Solo quando muore, muore come piccolo seme, ma cresce come grano per cui solo a quel punto fiorisce veramente la vita.

Con questa metafora Gesù ci sta dicendo che la nostra esistenza sulla terra è provvisoria e frammentaria. È frammentaria perché noi non siamo tutta la vita, siamo piccoli frammenti di una Vita che è ben più grande di noi. Noi come frammenti e come viventi potremmo pensare che mettendoci insieme formiamo la vita nella sua totalità, ma in realtà non è così: la Vita nella sua totalità non è il risultato del nostro metterci insieme, ma ci precede. Per cui noi, come piccoli frammenti, mettendoci insieme agli altri frammenti, siamo riflesso di una Realtà totale ben più ampia. E così mettiamo in moto quelle dinamiche di vita che – frammentarie e per di più incompiute perché siamo sempre in processo e dobbiamo raggiungere un traguardo – riescono a pervenire al traguardo proprio solo offrendosi reciprocamente i propri doni. Per cui la condizione essenziale è proprio il saper perdere ciò che noi siamo, per consegnarlo[19]. Morendo dovremo consegnare anche la nostra vita biologica.

L’eucaristia, introdotta dalla Chiesa, è allora un far memoria che “se il chicco di grano non muore, non può portare frutto”. Perché il frutto della vita sta nel far fiorire gli altri.  Chi vive l’eucaristia si nutre per nutrire; mangia per essere poi mangiato. Distruggere il pane mangiato serve per nutrire le relazioni con gli altri. Noi viviamo se doniamo agli altri.

Dio non vuole la morte, ma il frutto, cioè la vita. Ma chiunque si mette dalla parte della vita e dei diritti della vita, se lo fa seriamente, dovrà probabilmente passare attraverso situazioni che assomigliano molto alla morte o che persino finiscono con la morte[20]. Questo ha insegnato Gesù.

Sennonché anche il cristianesimo, dapprima perseguitato, già nei primi secoli, quando cioè è diventato religione ufficiale dell’impero romano per ragioni politiche, si è presto deformato perché i suoi rappresentanti hanno subito cominciato ad approfittare dei privilegi che venivano loro riconosciuti, e a espellere – anche con la violenza - coloro che non si sottomettevano in piena obbedienza ad essi che ormai detenevano un grande potere.

Ci si deve perciò render conto che il cristianesimo originale è stato rapidamente modificato, e quello giunto oggi a noi non corrisponde di sicuro al cristianesimo originale. Ad esempio, se ci si sofferma a guardare con un minimo di attenzione si vede che lo stesso altare, elemento apparentemente essenziale nella nostra religione, è del tutto assente nei vangeli perché richiama l’idea pagana del dove i sacerdoti facevano i sacrifici:[21] non per niente l’art. 1383 del Catechismo, prima di equipararlo alla mensa, lo ricorda come luogo di sacrificio. L’altare presuppone sempre un’idea di Dio cui bisogna sacrificare. Se la messa è abbinata all’altare, ecco che viene abbinata anche al sacrificio. Se c’è il sacrificio, c’è bisogno del mediatore, del sacerdote[22]. Eppure già san Paolo aveva affermato che l’unico mediatore è Gesù Cristo (1Tm 2, 5), e nessun uomo può usurpare il ruolo di Gesù. Nella lettera agli Ebrei (Eb 7, 27; 9, 12) sempre Paolo, o chiunque si nasconda dietro a quel nome, contrastava la nostalgia per il giudaismo, col suo tempio e il suo culto, ed espressamente precisava che d’ora in avanti non deve più esserci alcun sacrificio e alcun sacerdozio: il nuovo ed unico sacerdozio di Gesù bastava per cancellare il sistema antico. Del resto già alcuni autori biblici (Amos, Osea, Isaia) avevano affermato che Dio è contrario ai sacrifici, al culto.

Eppure ancora Pio XI, in una sua Enciclica,[23] ha scritto che la maestà del sacerdozio giudaico costituisce modello per il sacerdozio cristiano. Sappiamo invece dai vangeli (es.: Gv 2, 13; 5, 1; 6, 4; 7, 2) che Gesù non ha mai partecipato ai riti officiati dai sacerdoti nel Tempio di Gerusalemme; anzi con la cacciata dal Tempio ha dimostrato che quel culto sacerdotale era superato, ottenendo in cambio l’odio della classe sacerdotale che ha preso la decisione di ucciderlo (Mc 14, 1). Inoltre, eliminando la distinzione sacro/profano, puro/impuro, vietando a chicchessia di farsi chiamare maestro, Gesù ha proprio distrutto la maestà del sacerdozio giudaico.

Oggi siamo più consapevoli che nella messa non si tratta di dare qualcosa a Dio (fare un sacrificio), ma consentire all’azione di Dio di esprimersi gratuitamente in noi e diventare a nostra volta diffusori gratuiti del suo amore. Il principio di gratuità è specifico del cristianesimo moderno, e consiste nell’offerta di una ricchezza da diffondere attorno a noi senza pretendere ricompensa, diventando così testimoni dell’amore di Dio che è gratuito[24]. Pensiamo solo a quante persone Gesù ha guarito senza chiedere nulla in cambio.

Oggi siamo consapevoli che la presenza di Dio nella storia non si può osservare in modo diretto, né si può dimostrare (come invece si credeva una volta); si può solo testimoniare, il che è possibile solo dopo averne fatto esperienza. Perciò, per parlare di Dio non possiamo partire da Dio che non conosciamo. Possiamo partire solo dalla nostra esperienza, in quanto come creature possiamo fare esperienza dell’azione di Dio che si manifesta in noi[25] o a noi. Dunque, visto che tutti noi facciamo col tempo esperienze diverse, la nostra immagine di Dio può cambiare più volte nella nostra vita. E del resto, se non cambiamo mai, come potrebbe entrare la novità di Dio nella nostra vita?[26] Se ci limitiamo a ripetere il passato non ci può essere novità di vita.

Teniamo sempre presente che quando Giuseppe viene a sapere che Maria aspetta un figlio non suo, deve scegliere fra l’osservanza della religione (che prevedeva la rituale lapidazione di Maria – Dt 22, 23) e il bene dell’uomo. Le persone religiose, come si racconta nella parabola del buon samaritano (Lc 10, 25ss.), scelgono sempre la prima; la scelta evangelica è sempre e solo la via dell’amore, e non appena si incrina anche di poco il muro dell’osservanza della Legge, si permette allo Spirito di Dio di irrompere[27] con la sua novità. È il passaggio dalla religione alla fede: due termini che spesso noi sovrapponiamo ma che non dovremmo sovrapporre. Giuseppe diventa il patrono silenzioso di chi aveva dei progetti suoi ed ha accettato che la vita glieli sconvolgesse, fidandosi di Dio e rifiutandosi di obbedire alla legge divina insegnata dalla religione. Dio ha bisogno di uomini così. Di credenti in lui con questa fede[28].



NOTE

[1] Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia, 163s.

[2] Oggi le religioni fanno paura a tanti, perché molti si scontrano in nome delle religioni. Ma come mai non fa paura la religione che mette gli idoli (denaro, tecnologia) al posto di Dio, e in nome di questi idoli porta allo scontro?

[3] Meister Eckhart, Sermone Beati pauperes spiritu.

[4] Pensiamo a Zeus per i greci, a Giove fra i romani, a Wotan per i popoli germanici.

[5] De Luca E., In molti giorni lo ritroverai, ed. Fraternità di Romena, Pratovecchio (AR), 2008, 62 ss.

[6] Per fare un esempio pratico, le preposizioni ebraiche sono sostanzialmente tre; in greco sono innumerevoli, e sfumano ogni volta il significato, a seconda dei casi che reggono (genitivo, dativo, accusativo). Per questo motivo, ad esempio, il più sintetico ebraico di Sof 3, 3 viene tradotto a volte: “i giudici sono lupi di sera che non lasciano neanche un osso da rosicchiare di mattino”; altre volte “per il mattino” (e quindi quello successivo). Il greco avrebbe reso più chiaro il tutto.

[7] Castillo J.M., La laicità del Vangelo, ed. La Meridiana, Molfetta (BA), 2016, 20.

[8] Idem, 23.

[9] La preistoria (o periodo della storia per la quale non esistono documenti scritti, si divide in tre periodi:

1. Il Paleolítico (con utensili di pietra grezzamente lavorata),

2. Il Neolítico (con utensili di pietra levigata),

3. L’età dei metalli (con utensili di metalli differenti, prima il rame, poi il bronzo).

A sua volta il Paleolitico si divide in:

a) Paleolitico inferiore, che abbraccia l’arco di tempo dalla comparsa dell’uomo (contemporanea presenza di vari tipi di ominidi) fino al 100.000 a.C. La più grande scoperta è il fuoco.

b) Paleolitico medio, che va dal 100.000 al 30.000 a.C.. Compare in Europa l’uomo di Neanderthal. Si vive prevalentemente di caccia e nelle caverne. Prevale il nomadismo.

c) Paleolitico superiore, che va dal 30.000 al 10.000 a.C., e coincide con l’ultima glaciazione, dopodiché inizia l’agricoltura e si addomestica e si alleva il bestiame. Si scopre la ruota, ma l’homo sapiens che attraverso lo stretto di Bering passerà dall'Asia nelle Americhe non ha fruito di questa scoperta. In Europa il paleolitico superiore viene identificato con l’uomo di Cromagnon (dal luogo, in Francia, dove sono stati rinvenuti i primi scheletri). L’homo sapiens si sovrappone al preesistente uomo di Neanderthal, prevalendo alla fine perché probabilmente più idoneo al clima e forse più intelligente e di sicuro capace di organizzarsi in grandi gruppi.

[10] Burkert W., Homo necans, ed. Boringhieri, Torino, 1981, 31: “il cacciatore può vivere solo uccidendo”.

[11] Castillo J.M., Abbandonare la tristezza, vivere la felicità, conversazioni a Sezzano, 2014, in https://www.youtube.com/watch?v=R-vDHHRYMsY.

A dire il vero, i vegetariani di oggi contestano l’uccisione degli animali. Ma probabilmente fra non molto arriveremo a capire che anche le piante soffrono quando vengono tagliate. Forse in un futuro assumeremo per mangiare solo pillole chimiche, vergognandoci di troncare la vita di altri esseri, siano animali o vegetali.

[12] Vedasi il rito sacrificale raccontato da Senofonte, Anabasi, VII, 1, 40. Nella Bibbia vedasi Lv 6, 2.

[13] Castillo J.M., La laicità del Vangelo, ed. La Meridiana, Molfetta (BA), 2016, 18.

[14] Burkert W., Homo necans, ed. Boringhieri, Torino, 1981, 29.

[15] In questo sentimento hanno le loro radici i demoni e gli dei (Rudolf O., Il sacro, ed. SE, Milano, 2009, 29). Anche in seguito, con la religione, nell’ira di Dio lampeggia sempre qualcosa di irrazionale, che conferisce un’impressione di sgomento che l’uomo non è capace di razionalizzare (Rudolf O., Il sacro, ed. SE, Milano, 2009, 33). Ma le raffigurazioni degli spiriti sono tentativi posteriori di razionalizzare e chiarire questi sentimenti, il che comporta sempre un indebolimento dell’esperienza originaria (Rudolf O., Il sacro, ed. SE, Milano, 2009, 41).

[16]Contra il cardinale Kasper, secondo il quale la violenza è solo un abuso della religione (Kasper W., Misericordia, ed. Queriniana, Brescia, 2013, 64).

[17] Castillo J.M., La laicità del Vangelo, ed. La Meridiana, Molfetta (BA), 2016, 19.

[18] Idem, 25s., 115: L’aspetto più originale e primitivo della religione non è stato Dio, ma il rituale del sacrificio; cioè, la pratica dei rituali da parte dei cacciatori primitivi per scaricare le loro coscienze dai sensi di colpa per gli animali che uccidevano.

[19] Così ha spiegato chiaramente Molari Carlo, nella sua Omelia su Gv 12, 20-33.

[20] Castillo J.M., Omelia su Gv 12, 20-33.

[21] Castillo J.M., Simboli di libertà, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 100.

[22] Pio XI, nella sua Enciclica del 20.12.1935, Ad catholici sacerdotii, § 1, in www.vatican.va/Sommi_Pontefici/Pio_XI/Encicliche, afferma che la maestà del sacerdozio giudaico costituisce modello per il sacerdozio cristiano.

[23] Idem.

[24] Molari C., Quando Dio viene nasce un uomo, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2023, 151.

[25] Idem, 12 e 206.

[26] Idem, 262.

[27] Maggi A., Non ancora madonna, ed. Cittadella, Assisi, 2004, 33.

[28] Curtaz P., Commento al Vangelo di Matteo, 22.12.2013, in www.paolocurtaz.it.