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Lydia Natus e la cristologia femminista

di Stefano Sodaro

Lydia Natus e Clemente Rebora nel 1917 - foto reperita in rete senza autore, si resta a disposizione per il riconoscimento di eventuali diritti


Al Regina Caeli di questa domenica, il Papa ha menzionato Clemente Rebora, che non fu solo poeta, ma pure prete, dopo una svolta – che può sembrare sorprendente e quasi improvvisa – della sua vita.

E forse, tuttavia, ancor più sorprendente si rivela la scoperta di una presenza femminile accanto a lui, una donna, Lydia Natus, con cui convisse – benché lei fosse stata madre, perdendo drammaticamente la propria figlia morta di meningite in tenera età, e fosse sposata – per ben sei anni a Milano, tra disapprovazione morale e sdegno sociale.

Rebora sarà ordinato prete, tra i Rosminiani, nel 1936, dopo 17 anni dalla fine del grande amore in cui si verificò anche una gravidanza non condotta a termine.

Si può leggere, tra i molti, il bell’articolo di Anita Prati per settimananews.it.

Lydia – di origini ebraiche e russe - sopravviverà a Clemente, che muore nel 1957, a 72 anni.

Il presbiterato di Rebora non poté prescindere dall’incontro con colei che amò in modo appassionato e sconvolgente per il tempo.

La sua stessa adesione alla Congregazione fondata da Antonio Rosmini traduce, fa trasparire, un’opzione radicale, di fondo, imprescindibile, “filosofica” per così dire, sancita anche dalla conversione del 1929 (benché il termine consueto, conversione appunto, usatissimo nelle descrizioni narrative religiose, quasi banale, non piaccia affatto al sottoscritto qui scrivente).

L’interpretazione che proponiamo oggi, da queste righe, è che Lydia Natus fosse presenza, oltre che di se stessa con nome e cognome, certo, di Qualcun’Altra, per Clemente Rebora.

La devozione cattolica è impregnata di fervore mariano, fino a sfiorare l’idolatria soprattutto nelle manifestazioni popolari. Maria di Nazaret è diventata la Grande Madre, la Divinità muliebre assente nel contesto rigidamente patriarcale e maschio-centrico del potere clericale. È come se ci si rifugiasse presso la Madonna, la Vergine, la Madre di Cristo, nell’impossibilità di trovare nelle consolidate immagini di Dio tratti diversi da quelli virili.

Se le cristologie femministe ricevessero dalle Chiese un’accoglienza lontana dal sussiego, quando non dalla scandalizzata presa di distanza, che permane senza tema di scricchiolamenti, probabilmente crollerebbero intere biblioteche di tomi dedicati alla mariologia.

Proprio ieri si è tenuto a Roma il Seminario annuale del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI), dal titolo Il giusto limite. Strategie della violenza, possibilità della pace, che ha messo al centro la valenza propriamente antropologica e culturale di una alternativa cultura di genere, nonostante gli strali verso il fantomatico, pericolosissimo, gender (al maschile naturalmente, come del resto l’aborrito femminismo), che non si sa cosa sia.

Sulla vicenda storica di Natus e Rebora esiste, per quanto a noi noto, una sola pubblicazione: Il poeta e la sua lucciola, di Lucia Ravera, per Stampa Alternativa, anno 2013. Dopo di che, silenzio.

La cristologia femminista potrebbe incaricarsi di rivisitare storie molto poco conosciute, quando non taciute, per farne scaturire le ancora impensabili risorse ermeneutiche di una nuova teologia, dove l’inflazionata parola Dio, chissà, diventi semplice cognome di qualche nome proprio femminile.

Buona domenica.