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Fiume Lima (Portogallo). Statua di Decimo Giunio Bruto. Foto tratta dalla rete



Il concetto di verità

di Dario Culot




“La verità vi farà liberi” scrive Giovanni (Gv 8, 32). La Chiesa aggiunge: ‘Siccome io vi offro la Verità Assoluta, aderendo ai miei insegnamenti siete liberi’. Ritengo che la pretesa della Chiesa di essere l’unica legittimata a poter presentare agli altri la verità non sia oggi minimamente sostenibile neanche dal punto di vista razionale.

Premesso che neanche Gesù ha mai detto di possedere la Verità, l’intera Verità non è rinvenibile nell’insieme di parole che si dice Gesù avrebbe pronunciato in terra e solo parzialmente riportate nei 4 Vangeli; men che meno la stessa Verità può trovarsi nel sistema dogmatico costruito dalla Chiesa. Dobbiamo anzi stare particolarmente accorti quando si usano le parole. Quando in un ragionamento si parte dai concetti, occorre prima chiarire i termini, perché dobbiamo essere sicuri che chi pronuncia e chi sente quella parola la intendano esattamente allo stesso modo. Ad esempio, quando si parla di guarigione, una persona normale pensa che finalmente la malattia è stata definitivamente debellata. Quando però gli oncologi parlano di guarigione dal cancro, intendono guarito colui che sopravvive almeno cinque anni dal giorno della diagnosi, anche se muore cinque anni e un giorno dopo[1]. Se chi parla dà alla parola un preciso significato, e chi ascolta ne dà o ne può dare un altro, i due faranno fatica a capirsi.

Mi scuso se il discorso si fa, a questo punto, un po’ impegnativo, ma se chi mi legge avrà la bontà di seguirmi con un po’ di attenzione fino in fondo, spero proprio di riuscire a fargli capire quello che voglio dire: che cioè la nostra è sempre una verità fallibile, perché siamo umani, e in quanto esseri limitati noi riusciamo al massimo ad accogliere frammenti di verità.

Forse non tutti sanno che la parola italiana verità viene dal latino veritas, mentre in greco antico si usava il termine alètheia. Potreste ribattermi: e allora, che ce ne importa? Per noi profani non fa alcuna differenza. Per chi studia etimologia,[2] però, la differenza è abissale: alètheia deriva da lanthano che vuol dire coprire. Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell'oblio nella mitologia greca, il fiume che tutto copre, e che quindi tutto fa dimenticare. Sul cammino portoghese di Santiago de Compostela, a Ponte del Limo c’è il fiume Lima, o Limia per spagnoli. Nel 138 a.C. Decimo Giunio Bruto arrivò lì con la sua legione romana, ma i soldati non volevano attraversarlo convinti di trovarsi proprio davanti al fiume Lete; Decimo Bruto lo attraversò allora da solo e giunto sull’altra riva cominciò a chiamare i suoi soldati per nome, uno dopo l’altro; solo allora essi si convinsero che attraversandolo il loro comandante non aveva perso la memoria, per cui lo seguirono. In ricordo dell’episodio, ancora oggi è lì visibile il monumento a Bruto e i suoi legionari. Alètheia, con l'alfa privativo,[3] cioè con l’aggiunta di una “a” all’inizio di parola, è il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre con la mente, col ragionamento. In latino, invece, veritas è un termine che proviene dalla zona balcanica (slava), e non ha nulla a che vedere con ciò che si scopre col ragionamento. Vuol dire, in origine, "fede", tant'è che in russo vera vuol dire appunto fede. E anche oggi, qui da noi, l'anello matrimoniale si chiama ‘vera’ o ‘fede’, proprio perché questa origine balcanica è penetrata profondamente in noi: la vera è la fede. E perché ci si scambia la vera? Perché il matrimonio si differenzia dalla mera unione di fatto in quanto gli sposi si promettono pubblicamente, davanti a tutti, di avere insieme un futuro, basando questa alleanza sulla mera fiducia di uno nell’altro (da qui lo scambio degli anelli). Quando due si mettono insieme senza promettere niente davanti a tutti, manca, o quanto meno c’è una qualche riserva mentale su questa fiducia giocata sul futuro. I due stanno insieme perché al momento stanno bene così; in futuro si vedrà! Quindi l’alleanza si limita al momento presente, domina la provvisorietà e manca un impegno responsabile per il domani.

Ma il termine “verità” – per come viene oggi comunemente inteso – ha una origine ancora diversa: lo si intende di solito nel senso usato da Gandhi secondo il quale la verità, satya, è basata sul verbo sanscrito che significa esistere[4]. Vi è una stretta connessione tra la verità e l’esistenza. La verità, in questo senso, è ciò che è ed esiste in sé; è rispondenza alla realtà effettiva; è qualcosa di oggettivo, non di soggettivo, valido per tutti, che io ci creda o meno, che io m’impegni o meno. In effetti, la maggior parte di noi, quando sente parlare di verità senza ulteriori spiegazioni, l’intende proprio in quest’ultimo senso: la verità è ciò che oggettivamente è; il vero deve corrispondere al reale. Basti pensare al concetto che tutti noi abbiamo di verità in riferimento al mondo fisico: la verità in senso scientifico viene, infatti, verificata e confermata dalla realtà osservabile e misurabile;[5] e la scienza è una sola perché vale sempre, ovunque, per tutti. Che sia cattolico, induista o musulmano, se salto dalla finestra, la legge di gravità non dipende dalle mie credenze religiose, né dai miei ragionamenti. E come faccio a sapere che questa legge è “vera”? Semplice: faccio cadere a terra un libro, o salto da una sedia. Ripetuto l’esperimento e verificato più volte che la legge di gravità effettivamente funziona, so che è vera[6]. Quindi nn siamo davanti né a una verità di fede da accettare acriticamente, né a una verità di ragione raggiunta attraverso il solo ragionamento.

Come avete visto, ci troviamo di fronte ad almeno tre significati di verità del tutto diversi, non sovrapponibili, ma anzi a volte incompatibili fra di loro. Da un lato la “verità di fatto,” ciò in cui ho fede,[7] per cui l'accolgo come vera senza nessuna riflessione critica: questa è la veritas latina, ed è la verità che insegna la Chiesa. La moglie che accetta come vera la dichiarazione del marito di non essere andato con altre donne lo fa sulla fiducia, senza andare a indagare. Totalmente diversa è la "verità di ragione," per la quale basta la ragione, perché è una verità logica che scaturisce attraverso il saper pensare: parlando in termini filosofici (sempre piuttosto difficili da seguire), la verità di ragione, l’alètheia, scopre la condizione che permette di definire la cosa e quindi questa diventa vera nel giudizio, nel ragionamento che la viene determinando.[8] Tradotto il discorso filosofico in soldoni, vuol dire che se un ragionamento è logicamente corretto deve essere anche vero.

Ma perché mai dovrei affidarmi delle volte all’astratto ragionamento, anziché verificare sul campo ciò che esiste? Perché si dovrebbe scoprire col ragionamento quando si può scoprire anche osservando, misurando? È semplice: la realtà, purtroppo, non la si può sempre osservare; non è sempre riconducibile a formule oggettive come la chimica. Se i nostri occhi ci ingannano, se la realtà è troppo piccola oppure troppo grande (come quando si vuol parlare di Dio), troppo microscopica oppure troppo cosmica,[9] non riusciamo più a scorgerla, e allora siamo costretti ad accettare come verità gli schemi ragionati che si possono ricavare attraverso conclusioni matematiche o deduzioni logiche.[10] Ci rendiamo spesso perfettamente conto che dietro a quello che vediamo e misuriamo c’è una verità che continua a sfuggirci, proprio perché sfugge ai nostri cinque sensi, e sfugge ai criteri scientifici. Quando non possiamo osservare ciò che è, può però ancora intervenire la logica a convincerci che laggiù esiste uno strato di realtà nascosto, al di sotto del mondo osservabile. Nel 1964, ad esempio, il fisico inglese Higgs aveva intuito l’esistenza di una particella subatomica detta bosone,[11] ma solo nel 2012 si è avuta la prova della sua esistenza al CERN di Ginevra: dunque, come i quark, anche i bosoni sono stati scoperti tramite la logica scientifica prima di venire osservati in laboratorio.

E ora possiamo tornare finalmente a noi. Evidente, a questo punto, che se la Chiesa cattolica dice di avere una verità (di fede) assolutamente unica, e che nessun altro possiede, dice senz’altro cosa esatta (vera, anche secondo la ragione): solo il cattolicesimo ha, infatti, quelle determinate caratteristiche lì: pensiamo ai dogmi. Un dogma di fede non è altro che una dottrina, cioè un’affermazione che la Chiesa dice essere stata divinamente rivelata e quindi vera, che sempre la Chiesa dichiara dover esser creduta come fede divina, di modo che il contrario di essa va condannato dalla stessa Chiesa come eresia.

Ma attenzione! anche parlando di sola fede, è bene ricordare le accorate parole di frate Goffredo, monaco di Bose:[12] «La nostra fede, come la Parola che l’ha generata, è solo una piccola fiamma che non permette di vedere tutto come in piena luce, non possiede la chiarezza su tutto e, dunque, non dà certezze incrollabili, non offre verità assolute da imporre con la forza a tutti, non permette l’arroganza di chi presume di possedere tutta la verità. I credenti nella notte cercano la verità con la stessa fatica con la quale nel buio si cerca il cammino: a tentoni e spesso sbagliando. La notte sia sempre la misura della nostra fede, perché, se cediamo alla tentazione di voler vedere e sapere tutto, non vivremo più nello spazio della fede, ma delle certezze, e non saremmo più credenti». Fin san Paolo diceva che viviamo nella fede, ma non vediamo ancora chiaramente (1Cor 13, 12), eppure nessuno lo ha accusato di relativismo. Ciò significa che il vero credente non è colui che non ha più dubbi ed accetta ogni verità insegnata dal magistero ritenendola garantita da Dio in persona, come sembra sostenere il Catechismo (artt.2087 ss.), ma è un povero ateo che ogni mattina si sforza di cominciare a credere, perché sta accettando come vero qualcosa che non è poi così evidente. Insomma, il vero credente è colui che dice: “Signore, io credo, aiuta la mia incredulità.”

Sennonché, si è detto, la gente comune del mondo occidentale, quando sente usare il termine verità, non lo abbina all’idea di fede (alla veritas) come fa la Chiesa istituzione; è convinto che chi affermi di avere la verità possegga veramente un qualcosa di oggettivo; pensa alla verità come a ciò che oggettivamente è osservabile o controllabile (alla satya), o, al massimo, a quella della ragione (all’alètheia).

Ora, è pacifico che la realtà morale non è così evidente come la realtà fisica, e accettarne l’esistenza può essere in gran parte un atto di fede. È anche scontato che se Dio non è né osservabile con i sensi, né misurabile, e lo si può al più dedurre solo per ragionamento, dobbiamo ovviamente escludere in radice, nei suoi confronti, una ricerca di verità intesa come satya. Ma può sempre esserci, per quel che riguarda Dio e la religione, una ricerca della verità anche non di fede, ma ragionata. E allora, l’affermazione della Chiesa di possedere solo lei tutta la Verità, di non guardare altrove, se pretende di estendersi anche alla verità non di fede, è errata, perché nessuno e nessuna religione può possedere l’interezza anche dell’alètheia. E se non si possiede la verità anche sotto questa forma, non si possiede tutta la verità, quella con la “V” maiuscola. Ecco perché si può dire che Cristo, il quale è la Verità (Gv 14, 6), è Chiesa, mentre appare eccessivo dire che la Chiesa è Cristo. Se solo Dio è Verità, e noi non possiamo conoscerlo, non possiamo neanche possedere la Verità, che è completa solo in Lui; noi, la Verità, la possiamo cogliere al più a piccoli frammenti. Se Dio esiste non può essere che infinito, e se è infinito non può essere ingabbiato dentro una qualsivoglia entità finita, come lo siamo noi. Lo stesso papa emerito, pur non avendo avuto mai il coraggio di affermare che occorre smettere di far credere che la Chiesa cattolica è per volontà di Dio l’unica detentrice di tutta la verità, ha riconosciuto che razionalmente si deve dire che Dio è troppo grande per comprimere sé stesso nella limitatezza di un essere umano. Dio è troppo grande perché un’idea o una scrittura[13] possano abbracciare in toto la sua parola; può solo rispecchiarsi in molteplici esperienze che a noi possono sembrare anche contraddittorie[14]. In effetti, se Dio è onnipotente e infinitamente buono, perché c’è il male sulla terra?

La domanda da porre al magistero, allora, è: può un’entità infinita farsi catturare e rinchiudere dall’uomo, per definizione entità finita, in un qualcosa a sua volta di finito: ad esempio nelle quattro mura di un Tempio, di una chiesa o di una moschea? Può esserci tutto Dio all’interno del recinto, di un “ovile”, di una struttura che si chiama Chiesa o religione cattolica?[15] Può la Chiesa cattolica, fatta di uomini, che non è Dio e non può diventare Dio, sostenere ragionevolmente che all’interno di questa struttura realizzata nei secoli dagli uomini,[16] c’è tutto Dio? Perché solo se all’interno della Chiesa cattolica ci fosse tutto Dio, la Chiesa potrebbe pretendere di essere l’unica detentrice e portatrice di tutta la verità, la Verità assoluta con la “V” maiuscola (e quindi infinita). Mi sembra proprio che l’unica risposta ragionevole da dare sia quella negativa, perché essere in possesso di tutta la Verità significa possedere tutto Dio, e un qualcosa di finito che pretende di possedere l’infinito mi sembra francamente non solo irragionevole, ma proprio risibile.

Diceva mons. Claverie, vescovo cattolico di Orano, vittima dell’odio religioso e ucciso in un attentato: «Quando pretendiamo di possedere la verità e cediamo alla tentazione di parlare in nome dell’umanità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione. Io sono credente. Credo che c’è un Dio, ma non ho la pretesa di possederlo, né attraverso Gesù, né attraverso i dogmi della mia fede. Dio non si possiede. Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità di altri»[17].

Mi ritrovo completamente in queste sue parole, e mi sembra che, soprattutto in questo periodo, non si possano imporre percorsi dall’alto, dai pulpiti o dalle cattedre, e che non sia questo il momento per dare risposte universali,[18] che debbano andare bene per tutti.

 


NOTE

[1] Mondini A.R., Il tradimento della medicina, ed. Ass. per la ricerca e la prevenzione del cancro, Mestre, 2007, 27. Quindi, a qualsiasi oncologo, il paziente non dovrebbe chiedere quale probabilità ha di guarigione, ma che probabilità statistica ha di essere vivo dopo cinque anni, se si sottopone a chemioterapia, oppure se non si sottopone a chemioterapia.

[2]Etimologia è la scienza che studia l’origine e la storia delle parole.  

 

[3] Alfa era la prima lettera dell’alfabeto, la nostra lettera “a”: quando, in greco, ad un vocabolo si aggiungeva all’inizio la lettera “a” il significato della parola diventava esattamente l’opposto (coprire – scoprire).

[4] Juergensmeyer M., Come Gandhi, un metodo per risolvere i conflitti, ed. Laterza, Roma-Bari, 2004, 22.

[5] La “scienza” non dà certezze, ma solo ipotesi che devono essere confermate, ed eventualmente messe in discussione, non perché siano sbagliate (succede anche questo), ma perché imprecise. La teoria di Newton non era sbagliata, ma non spiegava correttamente tutti i fenomeni (per esempio l'orbita di Mercurio). Ed ecco che un Einstein propone una teoria alternativa e questa permette di fare i calcoli più precisi. È esatta e definitiva? Probabilmente no. Per esempio ha permesso di predire l’esistenza dei buchi neri, ma prevede anche l'esistenza dei "buchi bianchi" che sinceramente non so cosa dovrebbero essere.

Il secondo punto è che, come diceva Lord Kelvin, la scienza si basa esclusivamente sulle misure e sui calcoli. Se non riusciamo a misurare e ad inserire le misure in equazioni che funzionano, quella non è “scienza”, è opinione soggettiva opinabile.

[6] Va però ricordato come oggi perfino la legge di gravità viene messa in discussione da molti scienziati (v. Gravità addio, in “La Repubblica” 15.7.2010, 35).

[7] Diceva Nietzsche, riferendosi a questo tipo di fede, che fare una passeggiata in manicomio mostra che questa fede non prova nulla, e che la fede così intesa significa solo non voler sapere quello che è vero.

[8] Tratto dall'intervista fatta al filosofo Adorno F., Parole chiave della filosofia greca – la verità - Napoli, Biblioteca Marotta, martedì 31 maggio 1998; leggibile in www.emsf.rai.it/aforismi.

 

[9] Secondo il papa, l’uomo è l’essere che vede, sennonché Dio è per l’uomo essenzialmente invisibile. Ma l’uomo non considera il vedere, l’udire e il toccare come la totalità delle cose che lo riguardano, e cerca una seconda forma di accesso alla realtà, forma alla quale dà il nome di fede. La fede ha rappresentato da sempre qualcosa come una rottura e un salto avventuroso, perché esprime in ogni tempo il rischio di accettare un valore invisibile, accogliendolo come genuinamente reale (Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 42 ss.).

[10] Juergensmeyer M., Come Gandhi, un metodo per risolvere i conflitti, ed. Laterza, Roma-Bari, 2004, 23.

[11]Per farsene un’idea: si pensi a un lago con la superficie tranquilla; quando soffia una leggera brezza si creano delle increspature, che scompaiono quando il vento cessa. Allo stesso modo i bosoni decadono in altre particelle: di qui la difficoltà di vederli. (Corriere della Sera 5.7.2012, 14-15).

[12] “Vita nuova,” n. 4395, 18.1.2008, 2.

[13] Sia essa la Bibbia, il Vangelo o il Corano. Il Corano, dicono i musulmani, è stato dettato da Dio. Ma se Dio si riducesse ad essere contenuto tutto nel Libro sacro, si ridurrebbe a un essere finito, mentre deve restare sempre infinito, e quindi ben più grande del Libro, ben al di là del libro. E analogamente, la parola di Dio è più della sola Bibbia: Dio sa scrivere altri libri sacri (Casaldàliga P. e Vigil J.M., Spiritualità della liberazione, ed. Cittadella, Assisi, 1995, 307), egli stessi vangeli sono al di là del nostro cristianesimo.

[14] Ratzinger J., Dio e il mondo, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, (MI), 2001, 25.

[15] Ma lo stesso discorso vale per la religione islamica, o induista, o per qualsiasi altra religione.

[16] E la cosa non cambierebbe se si dicesse che la Chiesa cattolica è opera di Dio, e non degli uomini, perché abbiamo appena visto che Papa Benedetto XVI ha detto che Dio è troppo grande per comprimere sé stesso nella limitatezza di una realtà umana; il che vuol dire che Dio, Verità, resta fuori dalla capacità umana di comprendonio, anche se volesse darsi tutto – Lui infinito – a degli esseri finiti.

[17] Zanotelli A., Korogocho, ed. Feltrinelli, Milano, 2003, 81.                                                                                                                   

[18] Martini C.M. e Sporschill G., Conversazioni notturne a Gerusalemme, ed. Mondadori, Milano, 2008, 97.