Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Fondazione Museo della Shoah, Roma - foto tratta da commons.wikimedia.org


Il nostro processo di Shamgorod



di Eros Odo Stanfa



In quel capolavoro teatrale di Elie Wiesel che s’intitola Il processo di Shamgorod, in cui è Dio stesso ad essere convocato in giudizio, compare il personaggio del Pope, che, nel secondo atto, intavola con Mendel – descritto da Wiesel, tra i Personaggi, come «L’Anziano. Sulla cinquantina. Sognatore. Alto, magro. Maestoso. Domina i suoi compagni. È il primo attore. Sa guardare. E ascoltare.» - un dialogo di strabiliante intensità, emotiva più che intellettuale, da guardare ed ascoltare, appunto, più che da capire e mentalmente accettare.

Si rivolge il Pope a Mendel: «Non oltrepassare il limite, attore! Il Signore che tu getti nella spazzatura è il mio; è il figlio di Dio …»

E Mendel: «Lo siamo tutti».

Il Pope: «No, voi no! Vi ha diseredato!»

Mendel: «Veramente? Da dove vi viene questa certezza? Dalla nostra sofferenza? Fra l’uomo che soffre e quello che fa soffrire, chi sceglierà Dio? Fra chi uccide in suo nome e chi muore per lui, chi, secondo voi, è più vicino a Dio?»

Il Pope: «Voi parlate di Cristo come di un assassino?! Tu osi miserabile…»

Mendel: «No, io non parlo del Cristo ma di chi lo tradisce, servendosi del suo insegnamento per predicare l’odio e l’omicidio. I suoi veri discepoli agirebbero diversamente, non ce ne sono più. Non ci sono più cristiani su questa terra cristiana.»

E prosegue il testo di Wiesel:

«IL POPE (ritrovando la sua calma): È colpa sua? Perché biasimarlo? Se ciò che dici è vero, se il Cristo è solo e senza discepoli, se è abbandonato dai suoi, allora… allora abbiate pietà di lui almeno voi.

MENDEL: Questo accadrà, questo accadrà, signor curato. Un giorno questo accadrà.

IL POPE: Un giorno, un giorno… Voi ebrei amate rimandare tutto a dopo… Un giorno… Un’altra volta… Non ora. Dopo sarà troppo tardi. È già troppo tardi… Vi ricorderete che vi ho avvertito. (Esce lentamente, con passo stanco. Tutti lo seguono con lo sguardo. Apre la porta. Si sente il vento che urla esce)

La ricchezza del dialogo sta nella centralità che assume l’incontro/scontro sulla questione decisiva, e forse ancora oggi troppo elusa, forse per pudore, o protocollare circospezione ecumenica, o per malinteso senso di delicatezza, vale a dire il messaggio di Cristo che pure, in quanto Gesù, era ebreo, totalmente ebreo.

Ma la ebraicità di Gesù è proprio il tema tuttora difficile da affrontare, perché Gesù, diventato Cristo, sembrerebbe, secondo una costante linea interpretativa, sbaragliare ogni pretesa della legge giudaica, superarla insomma e così abolirla, e perché l’universalità della fede in Lui sembrerebbe cozzare con la sua particolarità, quasi limitatezza, di contorno geografico, territoriale, religioso, culturale della sua identità ebraica.

Ne deriva allora una domanda inquietante, pure ancora oggi silenziata: quali sono le radici religiose dell’antisemitismo?

È fuori di discussione che il nazismo si nutrisse di religiosità anticristiana, necrofila, tributaria ai culti deliranti della razza, del sangue, della purezza biologica, ma questo afflato pur comunque religioso perché incontrò un consenso popolare smisurato? Un fallimento, dagli esiti addirittura genocidari, della predicazione e della missione dei Cristiani? È molto comodo assolvere l’intera Cristianità da ogni compromissione con ciò che accadde.

Scrive Anders Gerdmar, nell’Introduzione al suo capolavoro Bibbia & antisemitismo teologico. L’esegesi biblica tedesca e gli ebrei da Herder e Semler a Kittel e Bultmann, pubblicato in Italia da Paideia Editrice nel 2020: «Come la storia politica della Germania, anche la storia della teologia tedesca sotto il vecchio impero – il Reich guglielmino e il regime nazionalsocialista -, senza dimenticare gli sconvolgimenti dell’età weimeriana, è segnata da conflittualità costante e mutamenti radicali. Il destino della nazione tedesca si è legato alle sorti del cristianesimo forse più che ogni altro paese moderno.» (p. 37 Op. cit.)

Chi è dunque il vero, autentico, testimone del messaggio cristiano? Daniele Menozzi ha pubblicato nel 2014, per il Mulino, il suo studio «Giudaica perfidia». Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, uno studio fondamentale per comprendere le dinamiche interne al cattolicesimo, che solo con il Vaticano II e la Nostra Aetate – peraltro in ciò fieramente avversata dal pur lungimirante Patriarca Melkita Massimo IV (che aveva i suoi Pope conformemente alla tradizione bizantina) – sono finalmente sfociate nell’affermazione che «se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.

La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.»

L’antisemitismo ha esattamente esonerato il nostro Mondo – bisogna avere l’onestà di riconoscerlo – dal senso del peccato, individuando negli Ebrei la colpa del peccato di questo nostro Mondo, con un’operazione culturale che Renè Girard ben ha messo in evidenza: la necessità cioè di trovare qualcuno che espii i peccati di tutti. E, nella paurosa inversione dei piani della storia, non è stato il Cristo tanto ad essere interpretato come il martire innocente, bensì proprio gli Ebrei, come i sacrificabili per riparazione di deicidio.

Il Pope e Mendel dell’opera di Wiesel possono assumere il volto di ciascuno di noi, fossimo anche non credenti.

Se non iniziamo a riconoscere e nominare l’oscurità che ci abita, avvolgeremo di oscurità gli altri che non conosciamo e che, ignorando, condanniamo per il sol fatto di non essere “come noi”.

Che differenza con l’ispirazione spirituale del padre René Vouillame che, per descrivere la vita dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, ricorreva all’espressione “Come loro”!

Noi non vogliamo essere “come loro”, bensì vogliamo che “loro” – gli altri, tutti gli altri – siamo “come noi”. Che mangino tutto quel che mangiamo noi, che usino la lingua che usiamo noi, che condividano alleanze e inimicizie, che vestano gli abiti del progressismo che sfoggiamo noi, che contraggano matrimoni come diciamo noi.

Prestiamo attenzione però: che la Giornata della Memoria non sia scusante museale per impedire a quella Memoria di illuminare il Futuro vivente.

Il processo di Shamgorod non ci avrebbe insegnato niente.