Foto di Paola Cazzaniga




The Rabbi is in Weimar


di Miriam Camerini



La prima volta che ne ho sentito parlare era la primavera del 2016, cinque anni fa.

Yiddish Summer Weimar. Un festival di musica klezmer, una scuola estiva di musica, ma anche di teatro, di danza e di yiddish, la lingua germanico-ebraica degli ebrei del centro ed est Europa. Cercavano artisti e artiste di tutto il mondo e di ogni età: cantanti, strumentisti, burattinai, attrici, giocolieri, danzatori, artiste visive, che lavorassero assieme per tre settimane e al termine delle quali fossero pronti a presentare il frutto - ancora imprevisto - del loro lavoro: uno spettacolo di strada, un po’ circo, un po’ musical e un po’ teatro di burattini basato sul primo testo yiddish stampato in Italia, precisamente a Venezia, nel 1540: il Bovo Bukh di Elyeh Bokher, grammatico, precettore, poeta, “chierico itinerante” sradicatosi dalla nativa Norimberga e stabilitosi a Venezia, da pochi decenni sede del primo ghetto della penisola italiana.

L’amica che mi aveva girato il bando è Shendy, una fotografa moldava - mentre scrivo ora siede accanto a me nel back-stage del concerto dove io ho appena cantato e lei fotografa – e ci eravamo conosciute l’estate precedente per un lavoro in Svezia.

Il bando era già scaduto quando lo ricevetti, passata da alcuni giorni la dead-line entro cui mandare CV, lettera di motivazione, raccomandazione da parte di un paio di registi con i quali avevo lavorato, video/foto/audio dei miei lavori teatral-musicali. Tutto fattibile, a saperlo prima! Senza perdermi d’animo, con la mia consueta hutzpe, ossia determinazione mista a creativo spirito d’iniziativa, scrissi allo sconosciuto (ma nella foto abbastanza sorridente da lasciar ben sperare) Dr. Alan Bern - che mentre scrivo ha appena finito di suonare la fisarmonica accompagnandomi mentre cantavo e sta ora suonando il piano sul palco assieme a un violinista – per chiedergli una proroga: potevo ancora candidarmi a questo progetto che pareva immaginato per me? La risposta giunse puntuale e positiva: potevo ancora inviare i miei materiali, purché lo facessi molto in fretta, avevano moltissime candidature e dovevano iniziare a selezionare i partecipanti.

Passai giorni frenetici nel riunire tutto il materiale, lo mandai, ma dopo appena una settimana la risposta mi gettò nella disperazione: la mia candidatura non era stata accettata. Ancora una volta, il desiderio fortissimo fu l’unica mia guida: scrissi che ero disposta a partecipare a mie spese, come assistente volontaria, uditrice o qualunque altra cosa potessi fare pur di essere lì, parte di questo progetto che sembrava – così scrissi – inventato apposta per me.

Questa volta la risposta fu di quelle che aprono i cieli, squarciano le nuvole e lasciano brillare un raggio di sole con trombe e cherubini: “Ci abbiamo pensato e crediamo che tu meriti di essere una partecipante a pieno titolo di questo progetto, alle stesse condizioni degli altri artisti selezionati. PS - Complimenti per la tua hutzpe: è una grande qualità!”. L’inizio era promettente.

Weimar: la città di Goethe, di Schiller, del Bauhaus, di compositori, poeti e architetti, la Firenze dei tedeschi, una piccola città della Turingia, ex DDR.

Ci ero stata - zaino in spalla - nell’estate dei miei 19 anni, il 2002, quando, dopo la maturità, esploravo l’intera Germania cercando di decidere dove stabilirmi per i miei studi universitari.

L’estate del 2016 fu spiazzante: difficile passare da essere una dei pochissimi a fare una cosa (musica, teatro, arte “ebraica”, in Italia) ad essere una fra tanti e tante, confrontata quotidianamente per un mese con i migliori artisti e musicisti yiddish, se non del mondo sicuramente d’Europa. Sono esperienze destabilizzanti e anche cariche di sofferenza, ma alla fine sane e produttive.

Tornai a Milano determinata a fare molto meglio, molto di più, ricominciare a studiare canto, magari provare a suonare uno strumento, sicuramente “darci dentro”.

Tornai l’estate seguente: solo allieva questa volta, studentessa di canto per una settimana meravigliosa, in cui oltre allo yiddish esplorammo la musica del Medio Oriente, le sue influenze sulla canzone israeliana, il rapporto fra questa e la musica est Europea dei hassidim, i mistici dell’Est Europa che ancora oggi a Brooklyn vivono come a fine ‘700 nella Galizia polacca.

Capii che era necessario imparare davvero lo yiddish, non orecchiare un po’ qua e là mescolando tedesco ed ebraico come avevo fatto fino ad allora. L’estate successiva fu una delle più belle della mia vita (finora): non riuscivo più ad andarmene da Weimar, conobbi un uomo che lì insegnava yiddish suonando la chitarra e me ne innamorai, abbastanza ignorata, peraltro, quell’estate, dall’oggetto del mio amore. Strinsi in compenso amicizie meravigliose, soprattutto femminili, con donne incredibili e di ogni dove: Ungheria, Ucraina, Brasile, California, Parigi, Bruxelles. Con una delle mie nuove amiche, quell’estate, viaggiai da Weimar a Sarajevo, da Sarajevo a Belgrado, e da lì tramite Sofia, sempre in treno, fino a Istanbul; l’itinerario che seguivo a me era chiaro: quello del meraviglioso poema d’amore e morte La Cotogna di Istanbul di Paolo Rumiz.

L’anno seguente ancora mi fu offerta addirittura la possibilità di dirigere uno spettacolo, un’opera basata sul biblico Libro di Ester, tradizionalmente l’ispiratore di fantasiosi e imprevedibili purim-shpiln, spettacoli allestiti da artisti girovaghi per la festa ebraica di Purim.

Ancora una volta la felicità di essere incaricata di un lavoro tanto importante, appena tre anni dopo essere entrata in punta di piedi, era mista alla paura, ai dubbi sulla capacità di farcela.

Fu un’estate faticosa e confusa, ma anche molto emozionante: amore e arte, lavoro e passione si mischiarono come può accadere solo qualche specialissima volta nella vita.

Quest’anno sono qui a insegnare ebraismo, a cantare in un concerto e – ancora una volta – a imparare nuove canzoni e nuove tecniche vocale, a migliorare il mio yiddish e incontrare nuove persone, fra cui un gruppo di giovani donne e uomini che hanno lasciato l’Iran e ora sono in Germania: venerdì sera abbiamo accolto assieme lo Shabbat su un grande prato, all’aperto: mentre sollevavo il bicchiere e vedevo attorno a me tanti volti felici, spiegavo il significato dello Shabat come giorno di sosta e pienezza, soddisfazione per ciò che si è fatto, pensavo a quanto imprevedibile è la vita, e ringraziavo la mia hutzpe.


Foto di Paola Cazzaniga