Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Tramonto triestino - marzo 2022, foto di Sara Sodaro

Sulla sabbia ho scritto che ti sposerò



di Stefano Sodaro


Si può provare a rileggere, per l’ennesima volta, il celeberrimo episodio del perdono dell’adultera da parte di Gesù di Nazaret – narrato agli inizi del capitolo 8 del Vangelo di Giovanni – a partire dal misteriosissimo chinarsi di quel rabbi a terra per scrivere sulla terra sabbiosa?

Vediamo un attimo che dice il testo originale in greco, nella microscopica estrapolazione di metà soltanto del verso 6 che ci è sufficiente: δ ησος κτω κψας τ δακτλ κατγραφεν ες τν γν. Le parole si pronunciano – sempre più o meno, come si è tentato di fare domenica scorsa - con questi suoni: “ho de Iesoùs kàto kýpsas to daktýlo katègrafen èis ten ghèn”. Il latino: “Iesus autem inclínans se deórsum dígito scribébat in terra”. Traduciamo così: “Gesù abbassandosi e guardando verso terra si mise a scrivere con un dito”.

Simile stranissimo comportamento ricompare al verso 8, dopo che il maestro – così appellato al verso 4 dai suoi interlocutori – li ha invitati a scagliare pure la prima pietra della lapidazione se senza peccato: κα πλιν κατακψας γραφεν ες τν γν, “et íterum se inclínans scribébat in terra”. Traduzione usuale: “E di nuovo chinatosi, scriveva per terra”.

Che mai ha scritto Gesù per terra e perché mai sulla terra, verosimilmente sabbiosa o pietrosa o fangosa?

Avanziamo un’ipotesi che sarà ritenuta assurda, ma senza troppo spaventarci: Gesù ha scritto per terra un vero e proprio contratto di matrimonio con quella donna in pericolo di morte. Quel contratto però – e qui viene il bello – non si componeva di un testo, ma di immagini, di immagini eloquenti, affascinanti, forse stilizzate, in ogni caso immediatamente percepibili, diciamo “meta-letterali”, però non fonetiche, bensì in grado di colpire l’interezza del nostro sé, di quella che chiamiamo nostra soggettività.

E com’è possibile sostenere, o anche solo abbozzare, simile assurdità dentro l’altra assurdità (quella del matrimonio)? Osiamo farlo perché il verbo del verso 6 non è il semplice γράφω / “gràfo” / scrivere, ma è “καταγράφω”, il cui significato sembra del tutto identico, eppure non può che avere una diversa sottolineatura per la presenza della particella “κατα” / “katà”, che può certo semplicemente indicare il movimento dall’alto in basso, ma che i vocabolari – si veda ad esempio https://bibleapps.com/greek/1125.htm - riportano come un delineare di forme e figure. Del resto è un po’ difficile pensare che Gesù abbia scritto molto e a lungo nello spazio concitato di un dialogo drammatico.

“Io questa donna me la sposo”: che sia stato scritto con lettere alfabetiche o con immagini quasi simili ad ideogrammi, chi avrebbe potuto obiettare alcunché a quel rabbi che finalmente ottemperava ad una specie di obbligo di matrimonio, non propriamente e strettamente giuridico ma sicuramente sociale? Alla buon’ora! Epperò: con una donna simile? Con un’adultera beccata in flagante? Stiamo scherzando?

Però quell’assurdo impegno di matrimonio – beninteso integralmente frutto della malata fantasia del qui scrivente – se l’è portato via il vento, perché scritto per terra.

Non c’entra il sesso, non c’entrano gli obblighi di convivenza. “Va’ pure, non ti trattengo neppure io”, potendo ben immaginare che il matrimonio fosse a volte, o spesso – non lo so, non sono un esperto – una vera e propria condanna.

Perché infatti quell’adulterio è stato commesso? Nessun commentatore ed omileta mai se lo chiede, è peccato gravissimo e basta. Ma quand’anche non siano ammissibili attenuanti e giustificazioni, ci saranno pure delle cause. La “perversione muliebre”? Suvvia, neppure al tempo sarebbe stata una risposta plausibile od accettata, salvo rimanere nella ipocrisia. E dunque? Sarebbe il caso di farsela una domanda così inquietante ed imbarazzante. Ai nostri giorni è indubbio che all’adulterio – privo ormai di qualunque rilevanza penale, e dunque sottratto a qualunque condanna giudiziale se non quale possibile addebito, in sede però solo civile, della separazione (e con molti distinguo che non è qui il caso di affrontare) -, ai nostri giorni, si diceva, è pacificamente possibile che all’adulterio segua un nuovo matrimonio di quel coniuge ritenuto, appunto socialmente, comunque tutt’ora fedifrago.

Il matrimonio scritto per terra dal rabbi di Nazaret è un matrimonio invece del tutto diverso dai nostri schemi giuridici, mentali, sociali, ideali ed ideologici, financo filosofici. È l’affidarsi alle immagini piuttosto che ai discorsi razionalmente compiuti e precisi con clausole, sillogismi e sinallagmi. È un’opera d’arte, un osare oltre, al di là, in territori sconosciuti.

Sposare un’adultera. E potremmo oggi pure dire: sposare un adultero.

Che razza di morale soggiace a simile scrittura sulla sabbia che non può di certo meritare pubblici registri, iscrizioni anagrafiche di stato civile e sacre vergature sugli altari? È il superamento di ogni morale all’insegna della costruzione di un rapporto di fiducia reciproca assoluta, dove il non detto non conta meno del parlato e dello scritto. È, in fondo - se ci pensiamo -, il mistero del nostro volto e del nostro corpo, che nessuna scrittura può esaurire e contenere.

Ne viene qualche conseguenza per la spaventosa guerra in atto in Ucraina, per noi oggi, per la fine dell’emergenza sanitaria?

L’invito finale dell’episodio narrato dal capitolo 8 del Vangelo di Giovanni, al verso 11, noi lo traduciamo sempre come “non peccare più”, e così pure in latino. Ma il testo greco riporta il verbo μαρτάνω / “hamàrtano”, nella sua forma imperativa con la proibizione davanti: μηκτι μρτανε / “mekèti hamartàne”, che significa semplicemente “sbagliare”, “commettere un errore”. Dunque, volendo - ma non so se vogliamo -, sarebbe in senso proprio e letterale: “Non sbagliare più!”.

Gli sbagli che la nostra morale ridotta a moralismo commette sono molti e non occorre elencarli. Ad iniziare dallo sbaglio – o “peccato” – di fare strategia senza vedere i volti di chi è condannato dalla violenza bellica, dalla distruzione delle proprie case e delle proprie vite.

Il dilemma non può essere se usare le armi per difendersi o se non usarle e lasciarsi sterminare. Il dilemma è: cosa si fa per salvare i volti di quelle persone? Perché non sposiamo il popolo ucraino? Forse perché per noi scrivere per terra è ritenuta una bambinata, mentre per Gesù è stata una questione serissima. Da rischiarci la vita.

Buona domenica.