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Viaggio in Italia


di Stefano Agnelli


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14. L’ospedale Sant’Anna



Chi transita lungo il raccordo autostradale Ferrara – Portogaribaldi, tornando verso la città, magari di sera o a notte inoltrata, dopo una giornata di mare, vedrà comparire come d’incanto, dopo un cavalcavia, un’improvvisa fila di lampade notturne e finestroni illuminati, che rivelano una struttura enorme, formata da quattro o cinque parallepipedi giganteschi ad incastro trasversale l'uno nell'altro. È il nuovo Sant’Anna di Cona, a pochi chilometri dalla città, che ha di fatto sostituito, fra mille polemiche, il vecchio Arcispedale Sant’Anna di C.so Giovecca, attualmente sede del CUP e di vari laboratori diagnostici dell'ASL di Ferrara. Ho attraversato molte volte alcuni dei suoi corridoi in questi mesi, a causa dei numerosi e continui ricoveri di mio padre, e devo dire che soltanto in questi lunghi e interminabili budelli, zeppi di codici numerici, insegne e cartelli indicatori, si ha la prima percezione di essere in un luogo di cura. L’Atrio, infatti, con il personale che esegue il controllo della temperatura e dell'ormai famigerato Green Pass, ricorda molto un grande centro commerciale, con tanto di negozi, funzionanti o ancora sfitti, e scale mobili. Questa sgradevole sensazione, altamente disumanizzante, mi fa credere che buona parte delle persone si trovi a proprio agio nei centri commerciali, tanto da duplicarne il modello in un luogo di cura collettivo. Personalmente non li sopporto, con quella musica “facile” di sottofondo, i pavimenti in marmo extralucido e l’irriverente sfilata di carrelli stracolmi, indice di un benessere costruito nei secoli dall'Occidente a spese del resto del mondo. Un modello di vita che si regge sui consumi, un modello che abbiamo esportato anche in molti di quei paesi che abbiamo sfruttato, poiché il consumatore è il cittadino ideale, ben disposto a mettere in secondo piano uguaglianza e solidarietà, nel nome di diritti sempre meno sociali e sempre più “personali”.

L’ospedale Sant’Anna sembra dire a chi entra che troverà cure adeguate – a dire il vero vi sono medici, infermieri ed Oss (Operatori Socio-Sanitari), molto efficienti e preparati – ma sempre nel rispetto della logica dell’efficienza commerciale, produttiva. Da quando le Unità Sanitarie Locali – le vecchie USL, per intenderci – sono diventate Aziende Sanitarie Locali (ASL), con tanto di bilancio, il Sant’Anna ha un Cash Manager per ogni reparto ospedaliero (“devo chiedere al mio Cash Manager mi ha risposto un medico a fronte della mia richiesta di un ulteriore TAC per mio padre), e trovo che, anche per questo motivo, la sanità si sta lentamente disumanizzando. Credevo che i medici facessero il giuramento di Ippocrate per salvare delle vite, ma ora hanno degli incentivi se fanno risparmiare “l’Azienda”, e le due cose mi sembrano in conflitto fra loro. Certo, se guardiamo agli Stati Uniti, dove le cure mediche non le passa lo Stato, possiamo ancora ritenerci molto fortunati, ma fino a quando? A ben guardare il Welfare è sicuramente oneroso per la nostra economia, ma ho come l’impressione che si stia trovando la modalità più appropriata per ridurlo a brandelli, trasformandolo in un sistema misto e facendone pagare una fetta sempre più consistente ai cittadini.

Nei reparti, vedendo i degenti, il continuo andirivieni di infermieri, Oss e medici, a tessere rapporti con i pazienti, la fiducia ritorna. Ascolti una conversazione, vedi il carrello dei pasti e delle terapie, osservi con ammirazione i letti articolati, i materassi antidecubito ad aria, ma poi non puoi fare a meno di notare quante persone anziane vi siano e di come la sofferenza li riguardi sempre più.

Mi sono chiesto spesso, in questi giorni, quando mio padre è stato letteralmente salvato in extremis almeno due volte, se sia giusto prolungare così le sofferenze di chi non può più migliorare, guarire. Ogni giorno sono felice di vederlo, ma confesso che il pensiero della perdita mi spaventa sempre meno. Forse perché lo vedo molto sofferente, e penso che più di tanto non potrà migliorare, tornare a casa sua. Dovrà vivere il resto dei suoi giorni allettato e dipendente dal nutrimento in fleboclisi per compensare la scarsa alimentazione. Si sta spegnendo, è innegabile. Con grande dignità e forza, lottando contro il dolore, la confusione, il disorientamento mentale causato dal prolungato ricovero, ma si sta spegnendo, anche se potrebbero volerci anni, e sinceramente credo che questo sia più utile a noi che lo amiamo, e ancora non ci rassegniamo a fare a meno della sua dolcissima presenza, per debole e minima che sia. In mezzo a tutti questi pensieri, spesso, uno soltanto si fa strada: ringrazio il Signore per avercelo dato e soprattutto per aver trovato il coraggio, diversi anni fa, di dirgli apertamente e senza alcuna ombra di dubbio: “Ti voglio bene papà”.