Foto di Paola Cazzaniga




Respirare


di Miriam Camerini



Respirare. Re-spi-ra-re.

Questa settimana, una mattina, nel monastero di Camaldoli nel Casentino, in provincia di Arezzo, dove mi trovo in questi giorni, sono uscita su un prato al sole e ho pensato a quanto mi piacerebbe trovare un modo di combinare la tefillah di shachrit, ossia la bella preghiera ebraica della mattina, ricca di salmi, benedizioni e ringraziamenti, oltre che richieste fra cui quella di renderci studiosi della Torah, capaci di comprenderla e anche di osservarla e custodirla, con lo yoga e con il canto. Non è certo un’idea nuova: tante e tanti prima di me lo hanno fatto, con diversi e vari risultati, e non solo in ambito ebraico, ma anche cristiano: basta dare un’occhiata ai bei libri del genere esposti anche solamente qui, nella Libreria del Monastero, per rendersi conto di quanto vasta sia l’esperienza degli ultimi decenni nei vari mondi religiosi.

Uno dei monaci, un giovane musicista, mi spiega le origini del canto gregoriano; lo fa con semplicità, esemplificando con la sua voce bella e intonatissima: la sera prima lo abbiamo incastrato, Manuel e io, perché cantasse con noi il Salmo 146 in ebraico, composto dall’ebreo italiano Salomone Rossi a Mantova nel 1622: sarebbe quasi un madrigale a quattro voci e noi – temerari come sempre – ci proponevamo di cantarlo in due, con Manuel al soprano e io al contralto, studiato più di dieci anni fa, quando vivevo a Gerusalemme e cantavo in un coro. Emanuele, dunque, viene “ingaggiato” un’oretta prima del concerto, gli viene messo in mano uno spartito e detto: “leggi!”. E lui legge il basso, lo segue col dito e lo canta e io resto estasiata dalla facilità di chi sa leggere la musica, e sono anche un po’ invidiosa: vorrei averla anche io.

Il nostro concerto nel chiostro del monastero sui compositori ebrei italiani e sulla musica degli ebrei d’Italia trascorre lieto, nella sera estiva e fresca: Salomone Rossi lascia spazio a Benedetto Marcello, che ebreo non è, ma che compone per primo musica scritta alla maniera ebraica, cioè stampata da destra a sinistra, per seguire il testo del piyut, componimento poetico para-liturgico di epoca medievale in lingua ebraica. Nello specifico, ciò che eseguiamo noi è il suo Maoz Tzur, inno del XII secolo per la festa delle luci, ossia Hannuka, interpolato da Marcello al suo Salmo 15, in italiano, sulla stessa melodia, dolce e trionfale assieme. Saltando avanti nella Storia raccontiamo la vicenda di Mario Castelnuovo Tedesco, allievo di Ildebrando Pizzetti (che io conosco per il suo Faust) nella Firenze di primo ‘900, costretto all’esilio nel ’39 dalle leggi anti-ebraiche, approdato prima a New York e poi stabilitosi a Los Angeles, dove compone per le due grandi “industrie ebraiche” degli anni ’50: le sinagoghe e Hollywood. Eseguiamo parte di una sua composizione “sacra” che suona molto come una bella colonna sonora di Ennio Morricone (ebreo anch’esso, e gli anni sono poi quelli), il Salmo 92, quello che dà inizio al Sabato, lo Shabat, da sempre a me caro, anche perché citato nella rinascimentale leggenda del Golem di Praga, secondo la quale il gigante d’argilla deve essere addormentato ogni venerdì prima del tramonto dal suo creatore, il Maharal di Praga, pena la perdita del controllo “da parte del Wunderabbi sul suo fantoccio”, direbbe Ripellino. Allora una vigilia dello Shabat il Maharal dimentica di addormentare il Golem, dice la storia, se ne ricorda solo dopo aver

già cantato il Salmo 92 nella Sinagoga vecchia-nuova, risale di corsa, cancella la ALEF dalla fronte del mostro rendendolo MET, cioè “morto” per il tempo dello Shabat, torna di corsa sul pulpito, recita da capo il Salmo e solo allora il Sabato può davvero scendere sul mondo: in ricordo di ciò, ancora oggi, a Praga, il nostro Salmo viene intonato due volte di seguito.

Respirare, prendere fiato: è questo che lo Shabat ci invita a fare, è per questo che il povero Golem di Shabat può solo dormire, perché lui, che pure ha umane sembianze e fattezze, non ha un’anima, quella parola NEFESH che in ebraico è - appunto - la stessa di spirito, spirto, soffio, respiro, insomma: fiato. L’Eterno di Shabat prende fiato e dona a noi, creati e creatori a nostra volta, un’anima aggiuntiva, che se ne andrà con l’inizio dei nuovi sei giorni della creazione. Durante lo Shabat respiriamo, cantiamo, preghiamo. Qui in monastero, sui colli del Casentino, passeggiamo e contempliamo l’infinita bellezza del creato. Emanuele, il monaco musicista, mi spiegherà durante la mattina che alcuni Halleluja del gregoriano sono lunghissimi, pieni di melismi, ossia di note e suoni diversi che stanno tutti sulla stessa sillaba. “Alcuni aggiungono altri testi per ricordare meglio la melodia, che se no se ne sta appesa sul vuoto..” sorrido e penso alla mia difficoltà nel ricordare il niggun, canto chassidico senza parole, appoggiato solo su sillabe che si ripetono, io che con tanta facilità imparo e ricordo una canzone, quando posso associare la melodia alle parole: allora penso all’Ommm dello yoga, a quella capacità di modulare canto e fiato senza ricorrere al testo, alla parte intellettuale del parlare, a quella caratteristica umano-divina che ci eleva e appesantisce assieme (ancora una volta penso al Golem, che un manipolo di rabbini nel Talmud crea e manda ad altri, per scherzo: questi gli parlano, quello non risponde e da ciò questi capiscono lo scherzo: non hanno davanti un vero umano, ma solo un Golem, che rimandano da dove se ne è venuto) (Talmud Babilonese, trattato di Sanhedrin).

Imparare a stare, sostare, cantare, anche senza parole, anche senza altro metro che il nostro passo. Ommmmmmm, Halleluja.


Foto di Paola Cazzaniga