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Il Signore e gli anelli.

Memoria di una benedizione diversa




di Andrea Grillo



Con il decreto “Tametsi” (1563), per la prima volta nella storia, la chiesa cattolica, cosciente della novità che proponeva, assumeva nella propria competenza esplicita non soltanto la benedizione degli sposi (o, meglio, della sposa), ma anche il consenso tra di essi[1]. Questa “sommatoria”, che dal 1563 entra nella esperienza ecclesiale a livello giuridico, pastorale e spirituale, modificando l’immaginario personale, il compito ufficiale e la struttura amministrativa della Chiesa (facendo iniziare la fase “burocratica” della registrazione dei cognomi, dei battesimi e dei matrimoni) costituisce una della forme di “passaggio dalla comunità all’individuo” che struttura la esperienza moderna[2].È uno degli atti di nascita della “burocrazia” nel senso più alto e più nobile della parola. Questo decreto tridentino, che ha un profilo istituzionale così forte, tanto da essere stato recepito dalle diverse nazioni in modo assolutamente differenziato e con distanze temporali e formali impressionanti, implica un capovolgimento di prospettiva, che merita una cautela, appunto un “benché”[3].

In effetti, nel momento in cui la Chiesa assume “sotto la propria competenza” non solo la benedizione, ma anche il consenso, avviene uno scivolamento reciproco tra benedizione e consenso. Ossia, se prima del 1563 alla esistenza del matrimonio nella vita naturale e civile, che la Chiesa presupponeva, si aggiungeva l’atto proprio della benedizione, come specificità ecclesiale, ora il sacramento è costituito soltanto dal consenso espresso e dalla benedizione dell’anello nuziale, cui segue la benedizione, ma in un luogo “accessorio”, essendo collocata non nel rito del matrimonio, ma all’interno della messa votiva per gli sposi, che segue il rito sacramentale. Il passaggio dal 1563 al 1614 (ossia dal Decreto Tametsi al nuovo Rituale Romano) attesta il travaglio di una tradizione, che prima recepiva ecclesialmente un consenso espresso dalla natura e dalla città, e ora iniziava a strutturarsi come una Chiesa che assume la espressione del consenso come “atto ecclesiale” in “forma canonica” e che aggiunge soltanto, all’interno di un altro atto sacramentale, la benedizione delle nozze (in realtà della sola sposa). Potremmo schematizzare questa evoluzione[4] in questo modo:

 

a) Prima del 1563 il sacramento accade nella vita naturale e sociale e diventa significativo per la Chiesa mediante un “rito di benedizione”. Non vi è una assunzione diretta di responsabilità ecclesiale sulla dinamica di consenso e consumazione.

 

b) Dopo il 1563, il consenso viene assunto nel rito ecclesiale (a partire dal 1614), che di fatto si struttura con le modalità classiche del contratto matrimoniale, a cui si aggiunge, in una celebrazione ulteriore, la benedizione, subordinata a criteri di carattere morale (come la non convivenza degli sposi)

 

c) Dopo il 1969, con la possibile collocazione del “rito del matrimonio” all’interno della celebrazione eucaristica, cambiano le relazioni tra consenso e benedizione, fino ad arrivare, come nel rito italiano del 2004, alla scelta di celebrare, in successione, consenso e benedizione anche all’interno della celebrazione eucaristica.

 

1. La identificazione del sacramento nella benedizione

 

La evoluzione dottrinale e disciplinare nel Medioevo merita una nuova e attenta considerazione[5]. In primo luogo appare evidente come la dottrina matrimoniale, nella sua unità, sia costretta a mediare diverse tradizioni culturali, giuridiche e persino “naturali”. Vi è, infatti, una lunga elaborazione, che dura alcuni secoli, che cerca di rendere compatibile la lettura del matrimonio come “consenso” - tipica della tradizione romana – con quella che lo legge come “coito” – tipica dei popoli scesi sul mediterraneo dal Nord. La sintesi, che il sapere teologico e giuridico provvederà ad elaborare nelle Università di Parigi e di Bologna, a partire dal XII secolo, offrirà una mediazione storica potente, unendo nello stesso atto la “validità per consenso” e la “indissolubilità per consumazione”. La formula giuridica, tuttavia, nasconde la presenza, all’interno della dinamica del sacramento, di livelli diversi della esperienza, la cui composizione è affidata stabilmente anche alla mediazione della natura e della cultura civile e che non può essere semplicemente anticipata dalla Chiesa.

Risulta perciò estremamente utile osservare con cura una delle grandi sintesi del sapere medievale sul matrimonio, così come la troviamo nella “Summa Contra Gentiles” di Tommaso d’Aquino. Tutto il testo-chiave di questa ScG approda ad una lettura sorprendente proprio della “benedizione”, che il nostro tempo fatica ad elaborare:


- La materia del matrimonio, nell’opera di Tommaso, appare spezzata in due parti. Una prima, più consistente, sta nel libro III (capp.122-126) , mentre quella più propriamente sacramentale si trova nel libro IV (cap. 78). In effetti i primi 3 libri della ScG sono dedicati alla discussione degli argomenti della ragione naturale, mentre il IV libro lavora nel campo della divina rivelazione.


- Il matrimonio nel libro III (capp. 122-126) si occupa del matrimonio naturale, della indissolubilità, del matrimonio monogamico, della parentela e della natura di peccato di ogni unione carnale


- Il matrimonio (sacramento) nel libro IV si limita ad un solo capitolo (78), nel quale viene concentrato in poche righe il discorso. Subito, all'inizio, troviamo la presenza del tema della "generatio" come categoria centrale del sacramento e la sua articolazione su tre piani (naturale, civile ed ecclesiale) di cui il terzo si identifica, sacramentalmente, nella “benedictio”.


"Generatio autem humana ordinatur ad multa: scilicet ad perpetuitatem speciei; et ad perpetuitatem alicuius boni politici, puta ad perpetuitatem populi in aliqua civitate; ordinatur etiam ad perpetuitatem Ecclesiae, quae in fidelium collectione consistit. Unde oportet quod huiusmodi generatio a diversis dirigatur. Inquantum igitur ordinatur ad bonum naturae, quod est perpetuitas speciei, dirigitur in finem a natura inclinante in hunc finem: et sic dicitur esse naturae officium. Inquantum vero ordinatur ad bonum politicum, subiacet ordinationi civilis legis. Inquantum igitur ordinatur ad bonum Ecclesiae, oportet quod subiaceat regimini ecclesiastico. Ea autem quae populo per ministros Ecclesiae dispensantur, sacramenta dicuntur. Matrimonium igitur secundum quod consistit in coniunctione maris et feminae intendentium prolem ad cultum Dei generare et educare est Ecclesiae sacramentum: unde et quaedam benedictio nubentibus per ministros Ecclesiae adhibetur"[6]


Se esaminiamo questo testo, vediamo presentati, come in uno specchio, i caratteri del modello medievale che durerà fino al Concilio di Trento. Riepiloghiamolo nei suoi punti-chiave, che qualificano una lunga stagione di esperienza e di espressione del matrimonio:


- è caratterizzato da “pluralità dei fori". Lo stesso fenomeno, il matrimonio, è letto a tre livelli: naturale, civile ed ecclesiale, cui corrispondono tre “leggi” e “logiche” diverse;

- la dimensione sacramentale è la generazione ed educazione dei figli alla fede;

- il sacramento consiste, evidentemente, nella "benedizione degli sposi" da parte dei ministri della Chiesa, senza assumere in sé né unione sessuale né consenso, che appartengono alla logica naturale e civile del matrimonio.

Dal punto di vista sistematico, la "forma" del sacramento e la sua ministerialità viene pensata secondo una visione molto diversa dalla nostra. Poiché "consenso" e “consumazione” stanno nella logica naturale e civile, al profilo ecclesiale compete semplicemente la benedizione, che ovviamente non è atto degli sposi (come invece sono il consenso e la consumazione) ma del presbitero o del vescovo.

 

Questo assetto illumina di una luce particolare la funzione decisiva della benedizione, la cui identità permette una comprensione del sacramento molto diversa da quella che si è affermata in contesto cattolico dopo il 1563. A ciò occorre aggiungere un aspetto dimenticato: la duplice logica del matrimonio, di essere allo stesso tempo “officium” e “remedium”, permette di scoprire che questa unità di creazione e redenzione, di cui la prima anticipa la seconda in modo tanto strutturale, riconduce l’atto di benedizione ad una logica, allo stesso tempo, escatologica e protologica. 

 

2. La emarginazione della benedizione

 

Alla centralità della benedizione nella visione sacramentale di Tommaso e di larga parte della teologia pre-moderna, corrisponde la sua emarginazione nel “modello moderno” di considerazione del matrimonio, che sposta il consenso all’interno delle competenze ecclesiali, facendo scivolare la benedizione sul piano di una cerimonia esterna rispetto al sacramento.

La evoluzione è chiarissima se si esamina la struttura del “sacramento del matrimonio” nel Rituale Romano del 1614. La sequenza prescritta per il sacramento è “manifestazione del consenso e benedizione dell’anello”. Ciò che la tradizione precedente concentrava nella benedizione della sposa (o delle nozze), ora si sposta sulla espressione del consenso e sulla benedizione dell’anello che lo sposo mette all’anulare sinistro della sposa. La benedizione diventa una “parte eventuale” (“se le nozze devono essere benedette”…) e viene collocata in una sequenza rituale esterna al sacramento, della “messa votiva per gli sposi”, come stabilita dal messale romano.

Come la benedizione è “della sposa”, così l’anello da benedire è “della sposa”. Questa comprensione, che il Rituale Tridentino afferma sia nella struttura del rito, sia nel testo del matrimonio, offre una lettura della benedizione come pronunciata sugli sposi, ma indirizzata esclusivamente alla sposa. Così sia la benedizione dell’anello, sia la benedizione della sposa orientano la comprensione ad una lettura della fecondità e della fedeltà detta e pensata esclusivamente in rapporto alla donna. Non è difficile rilevare, in questo caso, una interpretazione della tradizione, tradotta in una forma particolarmente accentuata a partire dal 1614.

Esaminiamo i due testi fondamentali di questo rituale:

 

Benedizione dell’anello (della sposa)

 

Béne+dic, Dómine, ánulum hunc,

quem nos in tuo nómine bene+dícimus:

ut, quæ eum gestáverit,

fidelitátem íntegram suo sponso tenens,

in pace et voluntáte tua permáneat,

atque in mútua caritáte semper vivat. 

Per Christum Dóminum nostrum.


Benedizione della sposa

 

Deus, qui potestate virtútis tuæ

 de nihilo cuncta fecisti:

qui dispósitis universitatis exórdiis, hómini,

ad imaginem Dei facto, ideo inseparabile

mulíeris adiutórium condidisti,

ut femineo córpori de virili dares carne princípium,

docens, quod ex uno placuísset instítui,

numquam licére disiúngi:

Deus, qui tam excellénti mystério

coniugalem cópulam consecrasti,

ut Christi et Ecclésiae sacraméntum

præsignares in fœdere nuptiàrum:

Deus, per quem múlier iúngitur viro,

et societas principaliter ordinata

ea benedictióne donatur,

quæ sola nec per originalis peccati pœnam

nec per dilúvii est ablata senténtiam:

réspice propitius super hanc famulam tuam,

qua, maritali iungénda con­sórtio,

tua se éxpetit protectióne muniri:

sit in ea iugum dilectiónis et pacis:

fidélis et casta nubat in Christo,

imitatríxque sanctarum permaneat feminarum:

sit amabilis viro suo, ut Rachel:

sapiens, ut Rebécca: longæva et fidélis, ut Sara:

nihil in ea ex actibus suis

ille auctor prævaricatiónis usúrpet:

nexa fidei mandatísque permaneat:

uni thoro iuncta, contactus illicitos fúgiat:

múniat infirmitatem suam róbore disciplina:

sit verecúndia gravis, pudóre venerabilis,

doctrínis cæléstibus erudita: sit fecúnda in sóbole,

sit probata et ínnocens: et ad Beatórum réquiem

atque ad cæléstia regna pervéniat:

et vídeant ambo filios filiórum suórum,

usque in tértiam et quartam generatiónem,

et ad optatam pervéniant senectútem.

Per eúndem Dóminum.

 

La benedizione dell’anello della sposa (durante la celebrazione del sacramento) e la benedizione della sposa (durante la celebrazione della messa votiva) sono elementi di una recezione selettiva e orientata della tradizione precedente. In questo ambito la esclusione dalla benedizione sia dell’anello dello sposo sia della persona dello sposo appare sorprendente, se viene pensata all’interno della evoluzione dei costumi e delle forme civili del matrimonio. Fino al 1969, anno della approvazione del nuovo rito del matrimonio successivo al Concilio Vaticano II, questo assetto rituale continuava a pensare la “differenza strutturale” tra uomo e donna come contenuto dell’intervento “benedicente” della Chiesa. La formula del consenso, invece, si era allineata da secoli sulla parità tra uomo e donna, almeno dal punto di vista della libera espressione del consenso , come centro di attenzione della elaborazione giuridica e sacramentale. Potremmo dire che la libertà del consenso, ipotizzata formalmente già dal diritto medievale, non impediva le condizioni di una “soggezione” della moglie al marito nel vincolo, come bene indica sia il testo della benedizione dell’anello, sia quello della benedizione della sposa.


NOTE

[1] Qui vorrei chiarire che la elaborazione di una comprensione “giuridica” dal matrimonio è molto più antica. Ed è già una acquisizione medievale che il “cuore” del matrimonio sia il “consenso validamente espresso”. Ma è la collocazione del consenso il punto delicato della tradizione. Dove “accade” il consenso? Nella vita dei battezzati, dove il consenso alla convivenza fedele e alla unione feconda è espresso, lì vi è matrimonio. La sua verità sacramentale, che è riconosciuta nella natura e nella città, è espressa appieno dalla benedizione rituale. Questa lettura è rigorosamente “pre-tridentina”. Dopo il decreto Tametsi anche la espressione del consenso diventa “ritualizzata”, al punto da sostituire la benedizione, che esce dalla dimensione del sacramento e entra addirittura nell’ambito di un “altro rito”, ossia la “missa votiva pro sponsis”, al cui interno è però elemento non necessario. Questa evoluzione è l’orizzonte delle questioni che oggi possono essere sollevate sul rapporto tra consenso e benedizione.

[2] Cfr. J. Bossy, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Torino, Einaudi, 1998.  

[3] Una riflessione acuta sul “quantunque” si trova in E. Curzel, “Quantunque..” Storia del matrimonio cristiano, in “SettimanaNews”, al link  http://www.settimananews.it/sacramenti/quantunque-storia-del-matrimonio-cristiano, accesso il 21 maggio 2022.

[4] Una accurata documentazione di queste diverse fasi si trova in B. Keinheyer, Riti riguardanti il matrimonio e la famiglia, in B. Kleinheyer- E. Von Severus – R. Kaczynski, Celebrazioni sacramentali – III, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1994, 103-232.

[5] Molto utili appaiono le ricostruzioni della evoluzione della disciplina matrimoniale che si possono leggere in Claudio U. Cortoni, Chistus Christi est sacramentum. Una storia dei sacramenti nel medioevo, Napoli, EDI, 2021, soprattutto alle pagine 189-212.

[6] Non si deve dimenticare che, nello Scriptum super Sententias Tommaso utilizza una prospettiva molto più stretta e angusta, affermando che (Super Sent., lib. 4 d. 26 q. 2 a. 1 ad 1) “verba quibus consensus matrimonialis exprimitur, sunt forma hujus sacramenti, non autem benedictio sacerdotis quae est quoddam sacramentale.” Sotto questo profilo la differenza netta tra “sacramento” e “sacramentale” sembra preparare la soluzione tridentina, anche se in un contesto diversa.