Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Monte Meron, Israele - Foto tratta da commons.wikimedia.org

Il monte che frana, la mente che frana




di Stefano Sodaro

La notizia, diffusasi al mattino di venerdì scorso, riportante la tragedia avvenuta in Israele durante la festa di Lag Ba’omer sul Monte Meron, ci tocca molto da vicino, come giornale, perché la curatrice della nostra nuova rubrica “The Rabbi is in”, Miriam Camerini (https://sites.google.com/view/therabbiisin/home), si trovava proprio lì ed è stata testimone della frenesia dei soccorsi, della fuga per mettersi in salvo, della preoccupazione angosciata di riuscire a raggiungere un luogo sicuro. Si può leggere il suo racconto al link https://moked.it/blog/2021/04/30/la-testimonianza-di-miriam-camerini-meron-esperienza-sconvolgente/ ed al link https://www.famigliacristiana.it/articolo/prima-i-canti-e-la-festa-poi-la-musica-si-e-fermata.aspx.

Le dinamiche dell’incidente che ha causato la morte di 45 persone sono all’esame delle autorità, ma il tramutarsi improvviso del tripudio di una celebrazione contemporaneamente laica e religiosa in un accadimento di morte lacera la coscienza, credente o no, interroga fino a sfibrare, impone una ricerca di senso che non pare possibile trovare.

Oggi è Pasqua secondo il calendario giuliano seguito dalle Chiese d’Oriente. Quasi un mese dopo la Pasqua secondo il calendario gregoriano dell’Occidente latino.

La liturgia è anch’essa priva di un senso funzionale ad un prodotto, materiale o non materiale che sia. Si apparenta piuttosto al gioco, alla poesia, all’inutilità dell’amore, che – stando alla letteratura di tutti i secoli e tutte le latitudini – sembra alla lunga far più male che bene.

Ieri era il Primo Maggio e la concezione del lavoro ha dovuto, con una lunga lotta da parte di molti attori e protagonisti – donne e uomini -, smarcarsi da uno schiacciamento del suo significato sulle sole ragioni produttive, di massimizzazione di una sola componente delle dinamiche economiche, per valorizzare piuttosto una visione molto più ampia e complessa, in cui il risultato produttivo si accompagnasse al benessere dei lavoratori, degli imprenditori, dello stesso assetto sociale, in cui si definisse un vero e proprio progetto esistenziale coinvolgente comunità interi e non singoli individui. Ma per giungere ad un tale risultato – rieccoci dentro la performatività -, non s’è potuto aggirare il conflitto, la contrapposizione, la dialettica scoperta e ad alto voltaggio del confronto tra ragioni, pretese, attese, bisogni, desideri.

Oggi tutto risulta scontato, non bisognoso di alcun vaglio critico, immediatamente comprensibile e condivisibile. La soggettività è stata sbaragliata in nome del “consenso”, o si è capovolta in eccentricità, celebratissimo segno di genialità, a scapito di ogni indagine sul quel profondo malessere che invece la distruzione pianificata del soggetto ha provocato.

Se ci pensiamo, tutte e tutti stanno, stiamo, benissimo – anche in tempi di pandemia -, guai altrimenti, perché non è neppure immaginabile poter avanzare riserve sul proprio individuale benessere, salvo poi stare malissimo ed avere le rianimazioni piene, reagendo – però – davanti a simile nuda verità, “inemendabile” direbbe qualche filosofo del neo-realism, con teorie complottistiche varie. Non si può star male, insomma, non è ammissibile.

Il “disagio della civiltà” ci sta di fronte agli occhi, ma lo sguardo va altrove. È dentro di noi, ma lo espungiamo.

L’io è diventato baluardo inespugnabile, imperatore di un piccolo mondo che sembra immenso e che non accetta di essere spodestato.

Vivere la contraddizione non è proposta che affascini, attiri, entusiasmi. Anzi deprime. “Abitare la distanza” – come si intitola un volume importante di Pier Aldo Rovatti (https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/p-aldo-rovatti/abitare-la-distanza-9788860301192-1006.html#:~:text=Abitare%20la%20distanza%20%C3%A8%20la,la%20distanza%2C%20l'alterit%C3%A0) – sembra non solo sconveniente, ma addirittura invocazione prossima alla follia.

E siamo arrivati così al punto, alla fine, alla resa dei conti.

Che fare con la follia? Non con quella delle divisioni ospedaliere specializzate – o non solo con quella -, bensì con la dimensione altra che appartiene ad ogni vita umana ma che resta schiacciata sotto il bisogno di identità, un bisogno assoluto, che, nondimeno, rischia di rimanere insoddisfatto in eterno perché ancora una volta originatosi dalla gigantografia dell’io sempre più incombente, tanto da mettere paura.

Fino a che non siamo disponibili a riconciliarci con la follia che ci abita, niente può assumere un senso, che, in quanto tale (si “sente”, non si dice), abita spesso territori molto lontani dal compiuto eloquio razionale. Ed è probabilmente indicibile.

La nostra mente non può franare, non osiamo nemmeno ipotizzarlo, neppure per una frazione di secondo. Dobbiamo restare lucidi, avvertiti, capaci, controllati, logici, abilitati alla parola e non al silenzio.

Eppure “il senso” sta lì e non qui.

Sta nel pianto, nell’incredulità, nello sgomento, nell’impossibilità di far la somma di tutti i calcoli, nell’imprevedibile, nell’ignoto.

La Pasqua Orientale di oggi, il Primo Maggio di ieri, la tragedia in Israele, le nostre vite ancora dislocate in un isolamento che vorremmo rompere ma ne abbiamo timore, tutto ci parla di qualcosa di inesprimibile, di un “oltre” che sta assieme ad un “altro”.

Potrebbe non bastare una vita per capire cosa sia e dove stia.

Ma dovremmo esserne lieti invece che corrucciati.

Un passo di danza dice molte volte di più di asettiche mani giunte.

Buona domenica.