Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Il rito della messa


di Dario Culot


Prete cattolico celebra la Santa Messa - Polonia, foto del 17 aprile 2008, tratta da commons.wikimedia.org

 

La messa, argomentato detto la settimana scorsa, costituisce indubbiamente un rito, in cui occorre seguire una regolamentazione ben precisa perché si è certi che è l’esattezza del rito a produrre l’effetto. Nell’ambito religioso il rito è un’azione sacra che viene eseguita con una certa solennità e con esattezza. Ma proprio per questo, il simbolo corre il rischio di scadere facilmente in una vuota cerimonia di routine, mentre la messa dovrebbe essere innanzitutto condivisione, dovrebbe rinforzare il senso di essere una comunità di fratelli. Quando il rituale si ripete più e più volte, è facile vedere che l’esperienza muore e continua solo la procedura nella sua forma esterna. Quando il gesto esterno viene svuotato dall’esperienza, non è più simbolo di nulla, e dove manca il bios c’è sono il rito convenzionale, mentre il simbolo non esiste più, è scomparso.

Ecco materializzarsi il grave rischio di essere davanti a gesti esterni di carattere simbolico che però non corrispondono più a una esperienza interna della persona, per cui si riducono a un’azione abituale, asettica, nella perfetta osservanza di precise regole e nella convinzione che ai gesti compiuti con esattezza segua comunque automaticamente il giusto effetto. E proprio la convinzione che l’esatta esecuzione dei gesti o l’esatta pronuncia delle parole che accompagnano tali gesti produca automaticamente ogni effetto offre tanta sicurezza a chi lo esegue e anche a chi lo segue.

Allora si capisce anche perché queste persone diventano molto più sensibili davanti alla profanazione di un rito che davanti a evidenti e oggettive ingiustizie perpetrate contro i deboli, o detto in altre parole: molto più sensibili alla tovaglietta non perfettamente stirata sull’altare che al mancato pagamento della paga a un lavoratore. Ma ancor peggio, queste persone, convinte che il rito ha prodotto il suo effetto e che quindi sono inondate di grazia soprannaturale, fiere di essere abitate da Dio, si sentono autorizzate a giudicare prima del giudizio di Dio, e a tirare le pietre[1] di condanna o ammonimento agli altri, i quali non comportandosi come Dio vuole (e loro sanno cosa Dio vuole), vivono palesemente senza Dio e nel peccato. Quando una persona ritiene di essere l’unica ad avere Dio dalla propria parte, questa persona si fa assoluta, si serve di Dio e prende in realtà il posto di Dio,[2] dimenticando come dovrebbe invece comportarsi un vero cristiano seguace di Gesù.

Gesù aveva già in precedenza dato qualche raccomandazione, come ad es. quella di non giudicare (Mt 7, 1).

Ma in particolare nell’ultima cena ci ha dato tre comandamenti:[3]

a) lavanda dei piedi (Gv 13, 1ss.), cioè mettersi al servizio degli altri;

b) Fate questo in memoria (Lc 22, 19 e anche 1Cor 11, 25). Il termine memoria non va inteso come ricordare con la messa semplicemente un fatto passato, ma come una attualizzazione, un rendere presente ‘questo’,[4] E cosa significa ‘questo’? Chi va a fare la comunione attualizza, cioè riafferma il suo impegno di seguire Gesù sulla via da lui tracciata e di dedicarsi senza riserve a un’attività che, come la sua, contribuisca a dar vita all’umanità[5]. Fate questo in memoria vuol dire allora condividere la tavola con gli altri, perché Gesù si fa presente in tale circostanza. Forse il concetto cristiano più appropriato per condividere il pane e il vino con gli altri sarebbe quello della mensa, e la mensa non ha né candelabri né commensali con ricchi paramenti. Quando Gesù ha condiviso il pane e il vino era a cena con i suoi, si era davanti a una tavolata. Forse la tavolata conviviale in una casa, più dell’altare e dei paramenti colorati in una cattedrale, richiamerebbe oggi l’idea di gioia festosa. Come dimenticare che il rito non aveva per i cristiani, dei primi due-tre secoli, l’importanza che gli diamo oggi, tanto che essi venivano accusati di essere atei perché non avevano templi, non avevano l’altare dove effettuare un sacrificio, non avevano sacerdoti, non avevano oggetti sacri, non avevano paramenti liturgici né liturgie; come risulta dalla Didaché il rito era corale, senza la presenza di un apposito ministro; a differenza dei pagani, neanche facevano sacrifici,[6] e la stessa eucarestia si celebrava in case private, cioè in luogo profano (At 2, 46),[7] con un pranzo profano condiviso.

c) Nei sinottici l’eucarestia è collocata fra l’episodio di Giuda e quello di Pietro. Ma Giovanni la sostituisce con un racconto diverso, il racconto dell’invito che Gesù fa ai suoi seguaci ad amarsi gli uni gli altri come lui ha amato loro (Gv 13, 34). C’è un unico comandamento che Gesù ci ha lasciato: “Vi lascio un comandamento nuovo,”. Nuovo (gr. καινός,[8] e non νέος), significa di una qualità che sostituisce tutti gli altri. Ma è nuovo soprattutto perché nei vangeli sinottici l’amore al prossimo era vincolato all’amore verso Dio (Mt 22, 36-39; Mc 12, 30s.; Lc 10, 27). Qui, invece, Dio non c’è più, sparisce del tutto, esattamente come nel giudizio finale (Mt 25, 31ss.).

Dunque occorre vivere al servizio degli altri – condividere la tavola con gli altri – amare gli altri come Gesù ha amato. Se facciamo così saremo veri seguaci di Gesù e avremo preso il Vangelo seriamente[9]. Secondo Gesù è evidente che non si onora Dio se non passando attraverso l’uomo. Chiaro, allora, che quando la concentrazione religiosa viene a focalizzarsi nelle formule rituali, senza essere seguite dai comportamenti, sopravvisti, perde di vista la necessità delle persone e manca la sequela di Gesù.

Perciò, anche l’eucaristia col pane e col vino[10] in tanto resta un simbolo in quanto è capace di evocare. Se l’innamorato guarda la foto della sua ragazza non vede solo un’immagine, ma si emoziona avendo davanti a sé tutta quella persona, in carne e ossa. Se un estraneo prende in mano quella stessa foto senza neanche sapere chi raffigura, quella foto non dice più niente, il simbolo ha perso il suo valore. Se l’eucarestia col pane e col vino non emoziona, ha perso il suo valore,[11] e vuol dire che il rito formale ha preso il posto del simbolo mentre si è perso il significato del suo reale contenuto anche se si sono seguite con scrupolo tutte le regole procedurali.

Pensate a questo banale incidente procedurale: prima di accedere alla comunione c’insegnano che bisogna fare la confessione (n.1385 Catechismo), perché un impuro non può neanche pensare di avvicinarsi all’Infinitamente Puro, per cui bisogna essere degni della comunione, o in grazia come si diceva una volta. Allora per timore di commettere qualche peccato fra la confessione e la comunione, molta gente si confessava all’ultimo secondo, magari a messa già iniziata. Ma anche così, mentre siete in fila per la comunione, vedete davanti a voi il sedere imperiale della parrocchiana che vi sta davanti; dovreste immediatamente uscire dalla fila perché avete già peccato contro il sesto comandamento,[12] e non siete più degni. Oppure, arrivate belli belli fin davanti al prete con gli occhi chiusi per cui non avete potuto vedere quel tondeggiante lato B che si muove danzando spettacolarmente davanti a voi e, in quel momento pensate che, per fortuna, non avete commesso peccati, che siete in grazia e potete accedere alla comunione la quale vi conferirà un’ulteriore dose di grazia:[13] di nuovo invece dovreste immediatamente uscire dalla fila perché in quel momento avete peccato di superbia, e non siete più degni. Ma non è mica questo il senso della comunione! Il senso della comunione ce lo dà Luca (Lc 12, 35), quando invita ad essere pronti avendo i fianchi cinti e le lampade accese. Che significa? I fianchi cinti (cioè la tunica tirata su e legata ai fianchi per favorire il movimento) significa essere disponibili a darsi da fare, al servizio. La lampada accesa indicava nell’Esodo (Es 40, 4.25.38) la presenza di Dio nella tenda trasportabile; ma con Gesù Dio non dimora più nel tabernacolo,[14] perché ogni credente diventa il santuario di Dio;[15] ogni credente, dunque, dovrebbe visibilmente manifestare questa presenza. Vedete bene, allora, come in giro da noi si vedano assai pochi seguaci di Gesù, anche se molti si professano cristiani[16].

Ecco allora che c’è da chiederci se un mero rito può essere il culmine, la più alta realizzazione della nostra vita cristiana. Non lo credo, posto che il rito appartiene comunque alla categoria dei simboli, mentre essere cristiani appartiene all’ordine esistenziale:[17] una reale unione con Dio, che si concretizza nell’amore che per noi può manifestarsi solo verso gli altri esseri umani.

All’inizio, dunque, i cristiani respingevano con forza il culto meramente rituale come l’abbiamo oggi, perché l’unico culto consisteva nel particolare modo di affrontare la vita da parte dei credenti:[18] si doveva vedere che i cristiani erano nel mondo, ma il loro culto era quasi invisibile[19]. Sicuramente questi primi cristiani non si sentivano in colpa se non andavano nel giorno di festa in un luogo sacro (chiesa), dove un addetto al culto (sacerdote) realizzava una mediazione fra gli uomini e Dio attraverso un rito particolare (il culto), seguendo una procedura appositamente studiata (liturgia), affermando che solo così si ottemperava al precetto domenicale. Era sufficiente riunirsi attorno a una tavola e condividere il pasto, facendo a un certo punto memoria del Signore.

Del resto, contraddicendo ancora una volta la Bibbia (Salmo 95: “Date al Signore la gloria del suo nome; portate offerte ed entrate nei suoi atri”) Gesù stesso ha chiarito che i riti sacri, mere formalità esterne fatte di riti santificanti ed abluzioni purificanti[20] (come in Es 29), sono incapaci di instaurare una vera relazione con Dio. L’adempimento del culto o la costante ripetizione del gesto religioso non bastano a trasformare l’osservante in un vero seguace di Cristo. È sempre lo stesso Gesù ad evidenziare che il culto tradizionale umilia l’uomo perché accentua la distanza fra Dio e la sua creatura, al punto tale che questa si sentiva, inevitabilmente, piccola e indegna di fronte all’Altissimo; inoltre, proprio il culto del Tempio si era trasformato in una deformazione del volto di Dio, poiché separava l’amore per Dio dall’amore per gli uomini (Mt 5, 23s.; 12, 7); concentrava i fedeli su Dio senza coinvolgerli in uno sforzo concreto per la giustizia in terra. Gesù dunque ha cambiato anche il concetto di culto. Se venerare Dio significa onorarlo, ciò che onora Dio non è la sottomissione dell’uomo a Dio e ai suoi rappresentanti seguendo scrupolosamente il rito canonico, ma la somiglianza dell’uomo a Dio: l’unico culto che Dio vuole è l’accoglienza del suo amore per prolungarlo verso gli altri. Siccome Dio è forza d’amore, questa somiglianza si ottiene solo attraverso la pratica dell’amore per il prossimo, cioè attraverso l’impegno per procurare il bene dell’umanità,[21] cominciando da quelli che non contano nulla, come i piccoli (i nepioi in greco: es. Mt 18, 10). Nulla di particolarmente nuovo, visto che questo l’aveva già detto Isaia. In Is 1, 11ss. è Dio stesso che parla: «Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?... chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri?... Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto… imparate a fare il bene». In Isaia, Dio in persona ci fa intendere che se non si fa il bene degli altri si è atei, anche se si crede di essere religiosi; Dio non sa che farsene della nostra ora di culto se la conversione non ci coinvolge poi per tutto l’arco delle 24 ore, e se non ci diamo da fare per il bene degli altri. Il culto di per sé non interessa a Dio perché è fatto solo di parole, mentre il cuore è lontano (Is 29, 13); tutto il culto, dunque, è privo di significato se il cuore resta lontano perché consiste solo in regole umane che si pensa siano gradite a Dio. Allora anche l’eucaristia durante la messa non è un culto da rendere degnamente a Dio, ma dovrebbe essere il momento emozionante nel quale Dio si comunica per far riprendere ai suoi le forze, sì da poter continuare a servire gli altri (ecco perché non ci devono essere esclusi dalla mensa eucaristica, perché tutti possono accettare l’amore di Dio e poi collaborare al suo progetto di migliorare il mondo). Se Gesù ha detto di essere venuto per servire (Mc 10, 45), anche il suo seguace deve somigliargli in questo.

La realtà è che noi ci portiamo ancora appresso, dopo venti secoli, il legalismo dei farisei, per cui molti di noi sono ancora oggi convinti che ci si salva mettendo l’accento sul rito, sul comandamento, sull’aspetto legale, sull’amore inteso in senso verticale verso Dio[22]. Il legalismo religioso, inoltre, si muove nella sfera del peccato,[23] mentre Gesù libera l’uomo dalla religione, cioè da tutto quello che l’uomo deve fare per piacere a Dio, perché la religione inaridisce e paralizza le persone[24], e con le sue regole formali impedisce di conoscere il vero volto di Dio, il quale non chiede insaziabilmente, ma dà gratuitamente; non chiede nulla per sé, ma invita ognuno a mettersi al servizio degli altri[25].

La tendenza naturale della religiosità è purtroppo ancora oggi orientata proprio nel senso del culto rituale e porta a vivere la religione a questo livello. La religione tende cioè spesso a divinizzare sé stessa. Essenziale, nella religione, sembra l’osservanza dei riti: quante volte avrete sentito dire che a messa si prega, ma cantando si prega due volte, sì che Dio dovrebbe essere più contento. Questa osservanza da sola, soddisfacendo un certo misticismo, basta per dare anche un senso di sicurezza, tanto che molti cristiani si fermano a questo livello religioso o perfino pensano che la vita cristiana consista in questo, mentre ripudiano quello che resta al di fuori del rito:[26] l’osservanza dei riti, le formule astratte creano un possente meccanismo di difesa contro gli insopportabili richiami del ben più gravoso impegno cristiano[27]. In quest’ottica di sicurezza, la dottrina ufficiale tranquillizza ulteriormente il gregge affermando che l’azione liturgica del sacerdote è efficace anche se il sacerdote è indegno[28]. L’efficacia della messa non dipende dal prete che compie il gesto. Basta seguire il rito, e si è sicuri di avere automaticamente la salvezza.

Però quante messe si sono celebrate in questi due millenni? Milioni? Miliardi? Qualcuno osa dire che le messe servono perché quelli che vanno molto in chiesa sono migliori di quelli che non ci vanno? In genere, si può dire che siamo diventati migliori grazie a questi miliardi di messe? Non partecipavano alle messe anche i torturatori dell’Inquisizione? Non partecipavano alle messe quegli europei che hanno saccheggiato altri continenti e poi con parte del bottino hanno costruito grandiose cattedrali in Europa dove poter celebrare il “culmine della vita cristiana”?

E che dire del pessimo insegnamento tridentino sul purgatorio? “La chiesa cattolica, istruita dallo Spirito santo, conforme alle sacre scritture e all’antica tradizione, ha insegnato nei sacri concili, e recentissimamente in questo concilio ecumenico, che il purgatorio esiste e che le anime lì tenute possono essere aiutate dai suffragi dei fedeli e in modo particolarissimo col santo sacrificio della messa...”[29]. Ovviamente queste messe venivano pagate e i protestanti – fermi nel negare l’esistenza del purgatorio al pari degli ortodossi orientali - hanno fatto notare che l’idea cattolica ha portato alla dannosa pratica delle Indulgenze, con l’ingresso di mammona (cioè la corruzione del denaro) e tutto quello che ne consegue, il che è stata la causa prima della Rivoluzione Protestante che ha spaccato in due il Cattolicesimo romano[30].

Eppure il magistero insegna ancora oggi che da questo purgatorio si può uscire prima, ma si esce prima solo pagando un pedaggio: si torna al volgare do ut des, per cui noi doniamo una messa a Dio e Lui, in cambio, rilascia o abbrevia la pena per qualche anima purgante. Ci si chiede allora necessariamente se questa situazione rispecchi veramente il nostro Dio-Padre amorevole, quando Gesù ci ha raccontato invece la Parabola del Figliol Prodigo, dove è il padre a correre per primo incontro al figlio. Sostenere che la messa aiuta le anime purganti vuol dire che qui il ‘culmine’ si riduce semplicemente a un mezzo di scambio (messe pagate per i defunti in cambio di indulgenze): idea – mi sembra, - piuttosto pagana.

Allora non sarebbe molto più appropriato definire culmine della vita cristiana, per fare un esempio, l’impegno di un operatore sociale che continua a sostenere i diritti degli indios oppressi in Amazzonia, nonostante le minacce[31] che riceve in continuazione dai latifondisti, che per colmo si definiscono cristiani? E se Gesù ci offre il buon samaritano come modello di credente (Lc 10, 25ss.), per capire chi è suo seguace e quindi cristiano, è stato sicuramente più cristiano un Gino Strada, che in vita si è sempre dichiarato ateo ma ha speso tutte le sue energie per curare gli ammalati e i feriti, piuttosto che tante persone che si dichiarano a gran voce cristiane, vanno a messa tutte le domeniche, fanno anche la comunione, e convinte di aver ormai  raggiunto il ‘culmine’ poi si guardano bene dal seguire quanto ha fatto Gesù.

Quando Gesù dice «chi accoglie anche uno solo di questi piccoli in nome mio accoglie me» (Mt 18, 5), sta dicendo che l’esperienza del divino in noi non dipende dal seguire una serie di riti o di norme religiose, ma si fa quando c’è empatia con la figura del piccolo garzone, del piccolo che non conta nulla. Ancora una volta senza elucubrazioni teologiche dottrinali, ma con un esempio concreto, Gesù ci interpella: “Se non scegliete di cambiare, di abbassarvi al livello dei piccoli” non arriverà mai il Regno di Dio. Per costruire il Regno di Dio si deve mettere al centro solo un comportamento che, però, implica conversione ad “U” nella vita perché quelli che erano i valori del tempo, e che sono tuttora considerati validi, vengono sovvertiti. E la liturgia, i riti, i sacramenti, la santa messa, tanto cari all’ortodossia, che fine fanno? Perdono d’importanza: tutto il resto non serve a niente se al centro della vita delle persone non c’è prima l’amore servizievole e gratuito verso gli altri. Ciò che si fa a un qualsiasi essere umano, quantunque sia il più indegno, lo si fa a Dio[32]. Perciò essere cristiani è cercare di essere sempre più umani e di insegnare agli altri di essere sempre più umani. Il cristiano non cerca di avvicinarsi a Dio separandosi dagli altri, salendo da soli verso il cielo[33].

Come ha ben detto il prof. Castillo: «Il cristianesimo ha il suo vero senso solo quando lo si interpreta a partire da Gesù. Ebbene, Gesù è la rivelazione di Dio perché in lui Dio si è incarnato. Questo vuol dire – come ho già ampliamente spiegato – che, in Gesù, Dio si è fatto conoscere. Perché così il Trascendente è entrato nell’ambito proprio dell’immanenza. Pertanto, se la finalità del cristianesimo non può essere altro che la finalità di Gesù (la sua ragione d’essere e la sua missione), da ciò segue che, come Gesù è l’umanizzazione di Dio, così il cristianesimo, che prolunga nella storia la presenza di Gesù, non ha altra finalità e altra ragion d’essere che rendere presente e operativo il processo di umanizzazione che è iniziato nell’incarnazione. Quindi il cristianesimo e le istituzioni nelle quali esso si realizza storicamente non hanno la finalità di santificare i fedeli, ma di umanizzare le persone, gli esseri umani in generale. Nel cristianesimo deve pertanto prevalere l’elemento orizzontale su quello verticale. Per la semplice ragione che, a partire dalla kénosis di Dio in Gesù, se noi credenti in Gesù prendiamo sul serio le categorie di «imitazione» e di «sequela», la nostra imitazione di Dio e la nostra sequela di Gesù si possono realizzare solo nell’elemento orizzontale in questo mondo, col quale Dio si è unito e si è fuso, e nel quale è nato, vissuto e morto Gesù»[34].

E mentre la Chiesa ha cercato di portare la gente verso Dio perdendo così per strada moltissime persone, con l’incarnazione (cioè, come detto, l’umanizzazione[35]) Dio è andato verso gli uomini; e non li ha avvicinati con una dottrina, con i riti sacri, ma con l’amore misericordioso. Questo è quanto ha cercato di farci capire Gesù, sì che anche noi dovremmo sforzarci di diventare sempre più umani, non più religiosi. E umanizzarsi significa far prevalere sempre la vita sulla distruzione; significa gestire (seppur con fatica) la nostra distruttività, aggressività, violenza[36]. Non si è perciò cristiani se ci si limita ad essere uomini di culto e dalle certezze granitiche, se si va a messa e ci accosta alla comunione in tutte le feste di precetto, evitando così di commettere peccato grave, perché non ci si può avvicinare a Dio se non attraverso ciò che è umano[37].

In effetti, quanti fra coloro che vanno regolarmente a messa si comportano poi da atei praticanti, nel senso che negano Dio non con la parola – come l’ateo teorico – ma col loro comportamento? A cosa gli serve Dio? Se qualcuno glielo togliesse a queste persone cambierebbe qualcosa nella loro vita relazionale quotidiana? Per la maggior parte di esse non cambierebbe proprio niente.

Dunque, il rito può essere un aiuto, al pari della preghiera, delle letture, del dialogo, ma di certo non può essere il culmine della vita cristiana. Penso perciò che sbaglino coloro che pensano di raggiungere Dio solo andando a messa; semplicemente si deve accogliere Dio che – a detta di Gesù, - vuole raggiungere tutti gli uomini, e l’accoglienza va fatta nell’arco di 24 ore, non solo nell’ora dedicata settimanalmente alla messa. Il rito domenicale, ripetuto immutabilmente nel tempo, porta con sé – come detto - il rischio dell’abitudine: una tranquilla ripetizione di parole e gesti sempre uguali da parte del fedele spento e acquietato, un amore fiacco per gli altri, senza la lotta tipica del credente (o del non credente) che è angosciato dai dubbi. Il rito porta facilmente a un Dio del passato che ci ha già dato tutte le risposte, non a un Dio vivente che viene a interpellarci in continuazione con nuove domande, e chiede la nostra costante e attiva collaborazione.

Se dunque l’incarnazione è l’umanizzazione di Dio, ma è al tempo stesso la divinizzazione di tutta la carne permeata da questo Dio che anche se si è abbassato è pur sempre divino, non mi sembra coerente affermare che al di fuori del piccolo gruppo che va a messa in chiesa non ci possa essere salvezza.

Chi poi con la sua vita non disturba nessuno e non si lascia disturbare da nessuno, può essere certo di essersi adeguato ai principi di questo mondo ma ha già rinunciato al Regno di Dio, forse senza neanche rendersene conto. Per questo il vescovo Tonino Bello al termine della messa non diceva: “La messa è finita, andate in pace;”[38] diceva invece: “La pace è finita, andate a messa!”, posto che il dono totale di sé, richiesto dai vangeli, richiesto dall’eucarestia, non porta pace a buon mercato: non basta lasciarci andare a una religiosità che si accontenta di qualche semplice, piccolo gesto – come andare a messa e ricevere l’ostia - se non ci si converte in tutta la nostra esistenza[39].

 

NOTE

[1] Da Spinetoli O., La Giustizia nella Bibbia, “Bibbia e Oriente”, XIII, 1971, 246.

[2] Di Sante C., Tavola rotonda sulle religioni in dialogo, in AA.VV., E se Dio rifiuta la religione?, ed. Cittadella, Assisi, 2005, 107.

Quanti frequentatori delle messe, ‘forgiati dall’idea che il loro Dio non è il Dio degli altri,’ sono convinti che quest’apertura della Chiesa di papa Francesco sia manifesta apostasia (Langone C., Andiamo a messa, nonostante il Vaticano, “Il Giornale” 13.11.2020, 24).

[3] Rinvio alla bella conferenza fatta da Castillo a Treviso il 28.4.2018 per l’associazione Liberare l’uomo. Il punto centrale lo trovate in https://youtu.be/euuIhziCfqk.

[4] Haag H., Da Gesù al sacerdozio, ed. Claudiana, Torino, 2001, 97. Che il memoriale non sia un fatto mentale, ma esistenziale; che non sia rievocazione ma partecipazione, lo sostenevano i protestanti già 500 anni fa (Ricca P., L’Ultima Cena, anzi la Prima, ed. Claudiana, Torino, 2013, 185).

[5] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 263 s.

[6] Augias C. e Cacitti R., Inchiesta sul cristianesimo, ed. Gruppo editoriale L’Espresso, Milano, 2010, 119. Haag H., Da Gesù al sacerdozio, ed. Claudiana, Torino, 2001, 103.

[7] Inizialmente i cristiani non avevano templi, ma si adunavano in case private e, nella società greco-romana, il capo della casa era sempre l’uomo, il pater familias. Siccome dovevano adunarsi in gruppi di molte persone, dovevano essere per forza case grandi, quindi case di persone ricche, persone importanti: i poveri non avevano uno spazio per accogliere i confratelli perché la situazione edilizio-abitativa in quella società era così, ed i vangeli hanno cominciato a circolare con un ritardo di almeno vent’anni dopo che Paolo aveva ormai organizzato e fatto funzionare in tal modo queste prime comunità (Castillo J.M., Perché il Concilio non ha dato i frutti attesi, conferenza tenuta a Montefano il 1.6.2013).

[8] Balz H. e Schneider G., Dizionario esegetico del Nuovo testamento, ed. Paideia, Brescia, 1995, vol. I, voce καινός: non nel senso che non esisteva prima, ma nel senso che diventa un predicato essenziale.

[9] Capite allora perché il cristianesimo è un modo di vivere veramente nuovo, e perché è così difficile essere veri cristiani.

[10] I protestanti contestano ai cattolici la mancanza della condivisione del vino, in violazione delle espresse parole di Gesù: “Bevetene tutti!” (Mt 26, 27), e lo consideravano un vero e proprio furto da parte del clero cattolico. Una prima modifica, nel senso prospettato dai protestanti, è avvenuta da noi solo col concilio Vaticano II (Costituzione sulla sacra Liturgia – Sacrosanctum concilium del 4.12.1963 capitolo II, Il sacrosanto mistero dell’Eucarestia §55, in www.vatican.va/Testi_fondamentali/Concilio_Vaticano_II: la Comunione sotto le due specie si può concedere ai chierici, ai religiosi e ai laici, nei casi che saranno determinati dalla Sede Apostolica e secondo il giudizio del Vescovo).

[11] Culot D., L’eretico, ed. stampato in proprio, Trieste, 138.

[12] E Contra sextum non datur parvitas materiae” (cioè: tutti i peccati sessuali sono mortali).

[13] Per Zwingli il problema non si pone, perché l’eucarestia non è mezzo di grazia, ma celebrazione per la grazia già ricevuta. I sacramenti, cioè, rendono semplicemente visibile la nostra appartenenza alla chiesa, e principalmente a Cristo (Ricca P., L’Ultima Cena, anzi la Prima, ed. Claudiana, Torino, 2013, 192).

[14] Cioè la tenda dell’incontro. Nella Bibbia (Es 26; Lv 26,11; 1Cr 17, 5) YHWH si era fatto costruire una tenda per dimorare in mezzo al suo popolo; in seguito la sua casa era diventata il Tempio di Gerusalemme (Zc 8, 3). Con Gesù, Dio abbandona il Tempio e pone la sua tenda fra di noi (Gv 1, 14), in ogni singolo uomo che amerà come lui ha amato (Gv 14, 23), sì che ogni suo seguace diventa una dimora divina (1Cor 3, 16): ogni uomo è un tempio di Dio; non lo è l’edificio chiesa. L’edificio chiesa non è affatto la casa di Dio, ma il luogo dove si riunisce il popolo di Dio.

Ricordiamoci anche che Gesù è stato religioso, ma per pregare andava di notte in posti solitari; mai ha cercato un luogo sacro, mai ha seguito un rituale, mai è entrato per pregare nel Tempio (la nostra chiesa). Correttamente, allora, i protestanti fanno rilevare che, in realtà, nella Chiesa cattolica c’è ancora una reminiscenza del Tempio di Gerusalemme, visto che la conservazione delle ostie consacrate costituisce una sorta di presenza permanente della divinità nell’edificio chiesa (Gounelle A., I grandi principi del protestantesimo, ed. Claudiana, Torino, 2000, 46. Kampen D., Introduzione alla spiritualità luterana, ed. Claudiana, Torino, 2013, 48: Cristo non ha istituito la Santa Cena, affinché il pane fosse esposto e venerato, ma affinché venisse distribuito e mangiato).

[15] Maggi A., in https://www.youtube.com/watch?v=OWML63o2YDY  (conferenza ‘Sperare insieme’, tenuta a Romena nel 2023),

[16] Questo concetto l’hanno capito forse meglio i musulmani di noi cattolici: «Gesù figlio di Maria incontrò un tale e gli chiese: “Cosa stai facendo?” Rispose: “Pratiche religiose.”. Chiese: “Chi si prende cura di te?” Rispose: “Mio fratello”. Disse: “Tuo fratello è più religioso di te”» (Ibn Qutayba) (I detti islamici di Gesù, a cura di Chialà S., ed. Fondazione Valla-Mondadori, 2009, 31 n.94).

[17] Lenaers R., Benché Dio non stia nell’alto dei cieli, Massari, Bolsena (VT), 2012, 222.

[18] Sul come si è verificata l’evoluzione dall’opposizione del culto alla sua restaurazione, si rinvia a Castillo J.M., Simboli di libertà, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 107 ss., con ampli richiami bibliografici.

[19] Lettera a Diogneto, VI, 1.

[20] E ancora oggi, il contatto diretto con Dio non è permesso all’uomo, che deve farlo precedere da un rito. Per questo anche il prete sull’altare si lava la punta delle dita prima della consacrazione.

[21] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, Cittadella, Assisi,1989, 73.

[22] Arias J. Il dio in cui non credo, Cittadella, Assisi, 1997, 127.

[23] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, Cittadella, 2003, 326.

[24] Sotto i 5 portici della piscina di Bethesda dove si insegna la legge (i 5 libri della Torah) c’è solo una moltitudine di persone incapaci di vedere (ciechi), di autonomia (zoppi) e svuotate di vita (inariditi) (Gv 5, 2-3). Ed è qui che i capi religiosi, incuranti della situazione del popolo sofferente, celebrano la loro festa, mascherando con lo splendore della cerimonia la sofferenza della gente (Maggi A., Come leggere il Vangelo e non perdere la fede, Cittadella, Assisi, 2009, 109s.).

[25] Ricordate come papa Francesco, in una delle sue prime prediche, ha invitato anche il clero ad andare in mezzo alla gente, nel gregge, e non a stare nelle chiese monumentali: «siate pastori con l’odore delle pecore» (“Avvenire”, 28.3.2013).

[26]  È la constatazione del cardinale Vanhoye, A. Lettera agli ebrei, ed. PIB, Roma, 1969, 98.

[27] Vannucci G., Pellegrino dell’Assoluto, ed. Cens, Liscate (MI), 1985, 57.

[28] Quindi il peccatore indegno non può partecipare all’eucaristia, ma la stessa è valida anche se presieduta da un sacerdote indegno.

[29] Concilio di Trento, Sessione XXV, 3-4.12.1563, Decreto sul purgatorio, in www.totustuustools.net/Concili.

[30] Il protestantesimo vede il cattolicesimo come una religione debole moralmente, viziata da un perdonismo e da un’inclinazione all’indulgenza, riservando a sé, religione del rigore, un differenziale di spread religioso. Va inoltre fatto notare come il nord Europa luterano veda i Paesi cattolici mediterranei (i cd. Pigs) come colpevoli e peccatori anche nel campo economico per il loro debito pubblico (da cui anche lo spread economico), e tendenzialmente come Paesi non redimibili perché incapaci di emanciparsi dal cattolicesimo, una cultura passata dalla pratica delle indulgenze, del denaro dato alla Chiesa per farsi perdonare i peccati, a un’eccessiva tolleranza in materia di peccati fiscali (Franco M., La crisi dell’impero vaticano, Mondadori, Milano, 2013, 28, 24 e 20).

[31] Lenaers R., Benché Dio non stia nell’alto dei cieli, Massari, Bolsena (VT), 2012, 222.

[32] Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 70.

[33] Invece ancora molti credenti sono convinti di arrivare a Dio separandosi dall’umano, con un taglio deciso e secco. Già gli antichi Padri della Chiesa avevano cominciato a sostenere che: «È necessario spogliare l’anima gnostica dal suo involucro corporeo…elevarla sopra i desideri carnali e purificarla per mezzo della luce» (Clemente Alessandrino, Stromata (cioè Miscellanea), libro V, cap.11, versione inglese in www.newadvent.org/fathers). Ciò significa che lo gnosticismo, pur presto condannato, è entrato ed è rimasto pesantemente nella mentalità della Chiesa.

[34] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 409.

[35] Idem, in particolare 143ss.

[36] Così la psicologa Ambra Cusin, suo contributo nel podcast n.9, intorno al minuto 18.30, https://altreconomia.it/oslo30/

[37] Richiamo l’esempio della ruota fatto alla fine dell’articolo sull’ateismo, al n. 740 del mese scorso, v. al link https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-740-19-novembre-2023/dario-culot-ateismo-ed-eresia.

[38] Il che, di nuovo, fa pensare che avendo messo il timbro della partecipazione alla messa siamo a posto con la Chiesa e con Dio.

[39] Riportato da Tettamanzi D., Il fuoco dell’amore, “Famiglia Cristiana”, n.33/2013, 13.