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I tre Oli santi - Battistero nella chiesa cattolica romana di San Giovanni Evangelista a Rochester, Minnesota, Stati Uniti - foto tratta da commons.wikimedia.org

Tradimento e Giovedì Santo



di Stefano Sodaro


Quando si parla di liturgia, molto spesso, ben che vada, sembra ci si riferisca a “burocrazia” od invece, nella peggiore delle ipotesi, a forme quasi magiche, stilizzate, para-simboliche, di ritualismo fine a se stesso, una specie di esorcismo della fatica di vivere.

Invece in questo Giovedì Santo del Rito Romano – giornata come divisa in due giustapposte, con la mattina che ancora appartiene alla Feria V della Settimana Santa e la sera che invece è parte del Triduo Pasquale – la liturgia trabocca, tutto al contrario di burocrazia e ritualismo, di “segni”.

Ed avere a che fare con la dimensione del segno è molto più quotidiano, immediato e comune di quanto si potrebbe immaginare.

Segno è il profumo del mattino, il vestito che indossiamo. Segno è il sorriso o il pianto. Segno la lingua che adopriamo. Segno il modo di scrivere e colloquiare, di parlare e cantare, di dipingere e poetare.

Ma, in particolare, segno è il tradimento. Ed un bacio diventa segno di tradimento.

Eppure, per una volta, potremmo provare a metterci dalla parte di Giuda, come invitano acutamente a fare Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri, nell’agile volumetto, uscito per Castelvecchi, dal titolo Yehudah/Giuda. Il traditore fedele.

La potenza del segno è proprio questa: il potenziale rivelativo della contraddizione.

All’ultima pagina, p. 40, del libro appena citato, si legge: «Come Yehudah, il figlio del patriarca Yaakov, ha consegnato Yosef alle nazioni, vendendolo per venti sicli al fine di salvare la vita di suo fratello, e questo gli permise così di diventare vicerè di Egitto e compiere una prima opera di salvezza sia nei confronti della sua stirpe che nei confronti degli Egiziani, così anche Yehudah, il figlio di Shimon, ha consegnato Yeshua alle nazioni, in quello che apparentemente è stato un fallimento, ma in realtà ha portato salvezza alle genti. Il Messia è venuto, e non verrà; il Messia verrà, e non è venuto; il Messia sta venendo: presto, ai nostri giorni!»

La morte è tradimento della vita? Sì, ma vale anche il contrario. La vita tradisce la morte, la rende componente di se stessa. Non esiste morte se non c’è vita.

I nostri gesti molte volte non hanno la valenza del segno, cioè, per quanto paradossale possa sembrare l’affermazione, si affannano ansiosamente in ricerca di coerenza, di linearità, di stracelebrata “trasparenza”, schiettezza, franchezza, schiena dritta e pane al pane e vino al vino, mentre è l’incertezza, la debolezza, l’esitazione, il fallimento apparente, appunto, che ci salvano, che ci riscattano, che danno il senso della nostra fragilità e tuttavia anche della nostra – com’è che si dice ormai? – “resilienza”.

E l’amore che cosa tradisce? Un altro amore? No. Non esiste concorrenza in amore. Che amore sarebbe quello che non si può condividere? Il possesso ne è radicale negazione.

Perché l’amore non è segno, l’amore è significato, senso, contenuto e non contenitore.

“Segni d’amore” sono la specifica, precisa, esatta, quasi tecnica, accezione liturgica del Giovedì Santo.

Canta l’inno previsto per la processione degli Olii che sono consacrati dal Vescovo in ogni chiesa cattedrale nella “Messa del Crisma” che solitamente si celebra nella mattina del Giovedì Santo: Ut novetur sexus omnis unctione chrismatis. Libera traduzione rodafiana: “che l’unzione crismale rinnovi ogni identità sessuale”. Più amore, scandalosamente appassionato, di così…

Più significativo di così...

Laddove il tradimento tradisce se stesso e diviene semplice confessione di fede e di vita, senza sconti.