Foto

di Miriam Camerini

Sei coppie: 12 persone, di cui tre donne in attesa sedute al centro, quindi quasi 15 persone.

Le donne hanno abiti lunghi e caldi, gli uomini sono barbuti, portano gli occhiali e golf di lana spessa.

Sono tutti abbastanza giovani, fra i 30 e i 40 anni, il salotto in cui sono ritratti sembra accogliente, con divani turchesi. Sorridono. Mio padre è un po’ nascosto dietro una tenda, in un gesto tipico suo, anche se è il festeggiato: quella sera compie 37 anni e io sto per nascere: mancano solo due settimane, ma loro non lo sanno, perché nascerò all’ottavo mese.

Mia madre è raggiante nel suo vestito color corallo (così almeno mi pare nella foto): sorride più di tutti gli altri, con la sua prima pancia, dopo aver organizzato una bella cena per festeggiare l’uomo di cui è innamorata.

Siamo nella prima metà di Febbraio e Gerusalemme – come sa chiunque vi abbia trascorso un inverno e/o abbia letto Amos Oz – è gelida: gli appartamenti sono mal riscaldati, gli infissi non isolano, il vento non cessa mai, la pioggia cade per giorni; chiunque pensi al caldo Medioriente a Gerusalemme deve ricredersi, almeno da Dicembre a Marzo.

Sembrano molto felici, al calduccio nelle loro capigliature anni ’80.

Le altre due signore in attesa le conosco, oggi abitano ancora a Gerusalemme, al contrario della mia, di mamma, che se ne è venuta a Milano, assieme al festeggiato di quella sera, poco più di un anno dopo di quella foto e quella serata.

Ogni tanto immagino come sarebbe stata la mia vita se fossero rimasti lì, i miei genitori, a Gerusalemme, in Israele. Come sarebbe stata la loro, di vita? Come sarebbe stata quella di mia sorella, che invece che nascere a Milano sarebbe “israeliana” anche lei, come me?

Difficile sempre immaginare vite diverse, giocare con possibili alternative: siamo così abituati all’unica realtà che conosciamo.

La festa di Sukkot, delle “capanne”, che inizia domani sera e dura ben una settimana, è - nel calendario ebraico - forse quella che maggiormente ci permette di immaginare una vita diversa: per sette giorni mangiamo, se possibile dormiamo, e comunque trascorriamo tutto il tempo possibile in capanne di frasche costruite sui balconi, le terrazze, nei giardini e nei cortili delle case e delle sinagoghe e delle scuole.

Dopo le prime feste autunnali dedicate alla scansione e alla misurazione del tempo, il Capodanno, il giorno di Kippur, con la sua qualità di “rinascita”, di nuovo inizio, ecco invece una ricorrenza che celebra lo spazio, che si svolge in uno spazio, anzi: che ne crea e definisce uno apposito. Costruire e abitare la sukkà, ossia la capanna, è uno dei precetti della festa che si chiama appunto Sukkot, plurale di “capanne”.

L’altro precetto – ancora più strano - è quello di acquistare e scuotere un lulav, ossia un mazzo di varie specie di piante, prescritte dalla Bibbia: un ramo di palma, due di salice, tre di mirto e un cedro perfetto, il più bello che possiamo trovare. Il lulav va scosso nei quattro punti cardinali, in alto e in basso: ancora una volta, una pratica legata allo spazio, che crea e definisce un luogo.

Cambiare luogo, spostarci all’aperto, prendere in considerazione tutte le direzioni, uscire di casa, guardare le stelle - che devono restare visibili attraverso il tetto, la temporanea copertura di frasche della sukkà - e la luna, che dopo tanta attesa domani sarà finalmente piena (Sukkot è una delle feste ebraiche del plenilunio), tutto questo ci insegna a essere diversi, a considerare modi e luoghi, tempi e stili diversi di vivere. Iniziare l’anno valutando alternative, cambiando posto: questo il mio augurio per oggi.

Foto di Paola Cazzaniga