Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

"Tõus" (Ascent; 1983). Made in the Caucasus mountains, Kabardino-Balkar ASSR, Adyr-Su valley, Ullu-Tau range. The photo was exhibited in the Barcelona Olympics cultural program.

Tratto da commons.wimikedia.org.

Violenza, religione, e noi di Rodafà




di Stefano Sodaro

Questo nostro settimanale s’incammina verso il suo numero 600, che uscirà tra sette settimane, domenica 14 marzo 2021. Fin da ora ci permettiamo di rivolgere un appello cordiale a quante lettrici e a quanti lettori vogliano contribuire alla scrittura di tale numero. Il contatto è molto semplice, basta inviare una mail a ilgiornaledirodafa@virgilio.it. Avanzeremo comunque anche noi richieste di intervento che consentano a Rodafà, com’è ormai tradizione per ogni suo centenario, di vedere presenti amiche ed amici che ne condividono, anche dibattendone la tenuta e la perspicacia – ci mancherebbe –, il suo orientamento.

Nel frattempo, parallelamente, l’Associazione culturale “Casa Alta” sta definendo i propri percorsi e le proprie iniziative, verso l’Assemblea di aprile e verso la possibile organizzazione di un convegno ad ottobre, all’insegna di quel “fare memoria” che contrassegnò già il Convegno dell’ottobre 2019 (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/convegno-fare-memoria-l-amore-la-legge).

Le due realtà, “Il giornale di Rodafà” e l’Associazione “Casa Alta” non sono tuttavia esattamente sovrapponibili, perché orientato, il primo, verso direzioni sempre più marcate (verrebbe quasi da dire “volente o nolente”) di riflessione ecclesiale o comunque incline alla condivisione comunitaria, per quanto critica ed attenta, di alcune opzioni di fondo e contraddistinta la seconda, invece, da un’attenzione del tutto laica ai fermenti culturali, in autonomia dagli assetti confessionali e dalle istituzioni religiose. Peraltro il direttore di questo nostro settimanale si trova ad essere anche presidente di “Casa Alta”, con ciò intersecando istanze e provocazioni non sempre di semplicissima gestione. Ma è una sfida che, personalmente, sente di dover accogliere e affrontare.

Nel mentre si dipanano le matasse intricate dei fili che vanno a tessere l’una e l’altra realtà, il giornale e l’associazione, rispettivamente da più di undici anni e da più di due, – prescindendo, almeno nelle intenzioni, da ogni protagonismo, si tratta di realtà fatte di tanti nomi e tante storie -, nel frattempo dunque due grandi questioni sembrano delinearsi all’orizzonte: la questione della violenza e la questione della spiritualità.

Oppure, in altri termini: la questione degli assetti religiosi e la questione del fondamentalismo, dovendoci chiedere se ogni religione, semplicemente in quanto tale, ospiti germi di violenza fondamentalista, oppure se sia quest’ultima, la violenza, a distruggere saperi e pratiche di ogni religione ed ogni fede, dovendo mantenere – per quanto ci riguarda – una netta e provvidenziale distinzione tra fede e religione, pur nella consapevolezza della discussione che già solo tale distinzione è in grado di innescare.

Così, muovendosi tra questi due poli altamente problematici – religione e violenza -, il nostro duplice posizionamento, presso questo settimanale e presso l’associazione “Casa Alta”, sembra assegnare a Rodafà l’indagine sulle ragioni del credere (detto, in verità, assai pretenziosamente) ed a “Casa Alta”, invece, gli interrogativi sull’antropologia del fenomeno religioso, tra cui il nesso violenza/religione.

La faccenda presenta un interrogativo assai inquietante ma ineludibile, che forse si può formulare così: delle religioni non è possibile salvare nulla perché tutte, senza esclusione alcuna, contaminate da logiche – magari anche molto sotterranee e nascoste – di violenza, oppure da simile naufragio è possibile salvare qualcosa, qualcosa di irriducibile ad ogni contaminazione di violenza?

La risposta è aperta e non può essere preconfezionata.

Se dal cimitero delle religioni non albeggia alcuna speranza di interrogazione sul senso della vita, interrogazione che è tutt’uno con il gesto religioso, il fenomeno del credere diventa un oggetto archeologico – in senso molto nobile, beninteso – di studio, un fatto oggettivo e giammai soggettivo, una realtà dentro la quale non correre il rischio di scivolare (anche perché in effetti già morta).

Se, viceversa, dalle morte delle religioni si salva qualcosa, un indefinibile e misteriosissimo qualcosa, il coinvolgimento diventa soggettivo e l’attenzione ad un fenomeno ritenuto esterno a sé diventa inevitabilmente un’attenzione anche al proprio sé e le interrogazioni sulla violenza religiosa sono interrogazioni anche sulla propria capacità personale di violenza, di ognuno, di ognuna, singolarmente considerato e considerata.

Declinando ancora in altri termini, si tratta della medesima dialettica che si pone tra fedeltà alla tradizione e suo tradimento. Ma, messa così, la questione da una parte si complica ulteriormente, epperò dall’altra si semplifica, perché ogni tradizione – non soltanto religiosa – ben sa che la fedeltà ad essa sta nell’essere tradita. Quel “tràdere”, alla latina, che è anche consegna, affidamento, senza poter preservare la presunta purezza di chi compie l’atto di consegnare ed affidare a qualcuno, qualcuna, che necessariamente si presenta con il volto dell’alterità, fosse anche una figlia o un figlio.

Un esempio può essere utile e tuttavia sconcertare.

Il rito romano della liturgia cattolica proclama questa domenica, tra gli altri, il verso 29 del capitolo 7 della Lettera di Paolo ai Corinti, dove si legge testualmente: “il tempo è diventato breve [oppure ha avuto una svolta]; d’ora in poi quelli che hanno moglie sia come se non l’avessero”.

Il Paolo di Tarso codificatore di morale domestica e di norme disciplinari di comportamento personale ci lascia senza fiato: che sta dicendo? Vivere come se non si fosse sposati pur essendolo? Che storia è? Che provocazione intollerabile viene addirittura esortata a divenire pratica concreta?

L’intera oscillazione riflessiva tra religione e violenza è in effetti così riproposta: il matrimonio salva o condanna? È liberazione dalla violenza o è abitazione di essa? Non essere sposati pare per Paolo opzione preferibile a quella dei coniugati: perché mai? Perché – tradotto nel nostro contesto - vengono così forse messe in crisi le coerenze di perfetta accettabilità (neo)borghese? Ma dunque c’è una parola di contestazione (a sua volta pacifica o violenta?) da rivolgere anche al disciplinamento dei rapporti affettivi, sessuali, genitoriali?

Ecco, la via che percorreranno il nostro settimanale e l’Associazione “Casa Alta” nei prossimi mesi non potrà accontentarsi di domande meno impegnative di queste. In qualche modo è la stessa violenza dei tempi di pandemia che stiamo vivendo a costringerci a riflettere. La morte è violenza oppure no? Se non lo è, c’è mica annidato un potenziale necrofilo che ammorba un’intera cultura? La vita merita di essere vissuta o no? La vita è la contrapposizione non violenta alla morte violenta oppure è l’amore il suo opposto? Una vita senza amore che vita è? Ma l’amore che cos’è? Di nuovo: fatto biologico suscettibile di oggettiva analisi esterna o fatto soggettivo che imbrica e coinvolge?

Ci attende, laggiù, la complessità, che profondamente prediligiamo. Simile a mare increspato, simile a vetta innevata.

Buona domenica.