The Rabbi is in


Springtime, parte 1: Via dall’Ungheria


di Miriam Camerini

Poco più di due settimane a Budapest e una giornata a Vienna: sono arrivata con un certo ottimismo, vestiti e scarpe pesanti come se dovessi andare poi sul confine, nella neve, o pensando che alcuni indumenti li avrei poi lasciati lì, a chi ne avesse bisogno: qualcosa in effetti ho poi sì lasciata, un golf che mi sono letteralmente tolta di dosso in stazione, uno dei primi giorni, poi un paio di scarpe... ma la verità è che in queste settimane ho guardato la massa delle “cose” crescere e moltiplicarsi, salire la pila fino a debordare, simbolo che non necessita di alcuna decodificazione per spiegare quanto opulenti siamo, quanto ciarpame abbiamo, quanti vestiti, scarpe, merendine, saponi e giocattoli produciamo e possediamo, quanto non vediamo l’ora che qualcuno ci dia una buona ragione per sbarazzarcene.

Così che possiamo presto acquistarne di nuovi, ovvio.

Alle stazioni ferroviarie, nei centri comunitari, negli alberghi adibiti a luoghi di smistamento e transito: dappertutto oggetti, giocattoli, pennarelli, libri, vestiti, scarpe, spazzolini da denti e merendine, succhi di frutta e cibo per gatti, ovunque, per gatti e per cani, onnipresente, come se ogni singola persona uscisse dall’Ucraina con un animale al seguito.

Ma cerchiamo di andare con un poco di ordine.

Il primo giorno mi è stato chiesto di caricare del cibo, ma sono arrivata che il lavoro era già fatto, poi è entrato lo Shabbat e fino a lunedì non se ne è parlato più, salvo prendere un treno il sabato sera da Budapest per andare a una festa a Vienna e trovarlo pieno fino all’ultimo centimetro quadrato di famiglie in fuga verso Zurigo e Monaco.

Un bambino ha perso un mazzo di carte mentre correva per salire sul treno: mi sono chinata a raccoglierlo, ma non ho potuto restituirglielo perché era già sparito, tirato per mano dalla madre. L’ho tenuto io, cacciato nella tasca dello zaino, ne ho fatto una sorta di porta-fortuna simbolico: la sorte in tasca è uno dei temi della storia di Purim, la festa ebraica che ho celebrato lì in quegli strani giorni con la bella e grande comunità di Budapest: Purim significa proprio sorti e l’intera vicenda che a Purim ricordiamo, come narrata nel Rotolo di Ester, ci svela e mostra in balìa della sorte, ad essa ci abbandona, lasciandocene governare, capendo e mostrandoci che forse è poi questo l’unico modo per condurre il gioco: immaginare, fingere di subirlo, per poi piano iniziare a giocarlo dall’interno, prendere responsabilità.

Poco prima di venire in Ungheria, a Venezia, avevo incontrato un amico, uno studioso che ha appena concluso un progetto, il risultato “tangibile” del quale è stato la creazione di un mazzo di carte ispirato ai personaggi e al racconto della Megillat Ester. Io, peraltro, sto viaggiando con il mio rotolo bello ingombrante e delicato nello zaino, da esso ho letto per me e per il mio amico ungherese e con esso - come ho già raccontato - hanno giocato i bambini profughi nell’hotel il giorno di Purim. Ne ho poi parlato a Ferrara, alla Biblioteca Ariostea, appena tornata in Italia, in dialogo con Giusi Quarenghi, biblista, amica, poetessa e scrittrice di favolosi libri per bambine e bambini, che ha da poco pubblicato un bellissimo suo libro dedicato a Ester.

Ma torniamo a quel treno che da Budapest nella notte viaggiava verso Vienna, dove si sarebbe diviso in due, carico all’inverosimile di profughi che dovevano decidere in quale sezione mettersi: quella che si sarebbe poi diretta a Monaco, oppure a Zurigo? Mentre scrivo proprio da Zurigo, seduta, settimane più tardi, al tavolino di un locale a me caro nella via principale, il più antico ristorante vegetariano d’Europa, penso all’Europa e a quelle persone, ai loro animali domestici e ai loro bambini, a quel mazzo di carte caduto sui binari che ancora porto in borsa, a quella decisione da prendere salendo sul treno, se andare a Monaco o a Zurigo, in Germania o in Svizzera.. in corsa verso un destino ignoto, tutto da fare, tutto da giocare, con negli occhi la distruzione, nelle orecchie il suo rumore, il suo silenzio. Avevo cercato di parlare con alcune di loro, quelle donne in viaggio con bambini e anziani, i mariti e i fratelli lasciati a casa a combattere. Bambini in pigiama che dormivano sul treno, in braccio alle madri che tentavano di tenere una parvenza di routine, quel quotidiano e famigliare che ogni bambino porta con sé nelle piccole cose che tiene in mano, un giocattolo, uno spazzolino da denti piccolo e rosa.

Su quel treno io invece andavo scandalosamente alla festa di compleanno di un amico israeliano, direttore d’orchestra a Vienna, nella casa in cui abitò l’ebreo Erich Wolfgang Korngold, compositore dell’Opera tardo romantica La Città morta, fuggito da Vienna per scampare alla Shoah e approdato a Hollywood, dove morì, in un altro secolo e in nuovo mondo, celebrato compositore di colonne sonore per il grande Cinema...

Su quel treno io pensavo a quanto imprevedibile è sempre la sorte di chi deve fuggire, a quanto da quel mazzo di carte può pescare una carta alta o bassa, rossa o nera, un due di picche o una regina di cuori, un asso o un jolly. Chissà dove sono ora quelle persone arrivate qui a Zurigo, nella stessa bella città in cui io sono ora, dove stanno pranzando? Dove dormono, ora che piove? Di che cosa hanno bisogno? Un paio di settimane fa mia sorella ha accompagnato sua figlia, mia nipote di 6 anni, a regalare un suo monopattino a una bambina ucraina: mi hanno raccontato che non sapevano che lingua parlare, ma che la bambina non le lasciava più la mano. Mia nipote ne parla ancora.


Foto di Paola Cazzaniga