The Rabbi is in


L’abito bianco e Le Belle Bandiere, Sud e Magia, Casarsa e Matera. Cristo si è fermato a Eboli: posso fare a meno degli armadi e dei mariti, dell’amore invece no


di Miriam Camerini

C’è (anzi, al momento non c’è) un abito che ho cercato per un’ora, oggi: me lo ha dato mia madre, cui lo ha dato la moglie di un cugino, cui lo ha dato la suocera buonanima. Perso non è, dato via certo non l’ho, solo chi sa dove si nasconde nella mia baraonda? Chiaro: tenere gli abiti tutti in un armadio aiuterebbe assai, ma per farlo servirebbe un armadio, e io non ce l’ho.

I miei vestiti - tantissimi - stanno appesi qui a là ovunque: i più fortunati, diciamo, sono quelli che almeno hanno un appendino e quando va benissimo anche una plastica della tintoria di quelle che li ripara dalla polvere.

Altri stanno sul divano, non il divano-letto, che mi serve per dormire, l’altro, quello zoppo della nonna che prima o poi andrà buttato; molti vestiti stanno sul letto, quello su cui tanto non riesco comunque a dormire, alcuni su una poltrona di quelle da cinema che avevo preso per fare il teatro in cantina, ma che poi è rimasta su.

Il posto più comodo resta la grande vasca da bagno turchese laccata con i piedi bianchi di leone smaltato: è vicina al letto; quindi posso tirar fuori i vestiti da lì e piegarli sul letto, quando ci trovo su spazio, ovviamente.

Ma poi, anche una volta che li ho piegati, che ne faccio? Tornano comunque nella vasca, o sul letto, o appesi a qualche libreria, o buttati in una valigia, a gualcirsi di nuovo.

Insomma io oggi sono passata da casa per precisamente un’ora, fra la una e le due, quando sarebbe stato assai più utile, ragionevole e urgente pranzare, visto che poi mi attendevano otto ore di treno, e invece quell’ora l’ho spesa a cercare quest’abito bianco, di cotone e pizzo, lungo ai piedi e con le maniche lunghe, di cui so per certezza che l’ultimo avvistamento risale alla fine di Settembre del 2020, quando abbiamo fatto uno Shabbat di tutti al teatro vicino casa mia, La Corte dei miracoli, sul Naviglio grande.

Vari ospiti importanti erano intervenuti in quella occasione: una coppia di amici dell’Associazione culturale Casa Alta, “delegati” a Milano per prendere contatto ed eventualmente riproporre il formato, l’iniziativa anche a Trieste, casa loro.

C’era poi un giornalista RAI, che aveva realizzato un breve servizio sul mio percorso di studi rabbinici uniti alle mie attività teatrali e di racconto della cultura ebraica.

Era stata una serata speciale, il primo Shabbat di tutti dall’inizio della pandemia, quando avevamo festeggiato la trentesima nostra cena/spettacolo del Sabato proprio alla vigilia della prima chiusura, quando il morbo già infuriava per Milano: era un venerdì e domenica si sarebbe – nello spazio di un pomeriggio – fermato tutto per mesi, chiusa e spenta la città, una luce dopo l’altra, e in seguito l’Italia, l’Europa, il mondo.

Insomma, quel Settembre, passata la primavera della pandemia, finita la prima estate delle caute e forsennate riaperture, si appressava un nuovo autunno caldo, ma ci si godeva anche qualche ultima settimana di nuova normalità. Avevamo, insomma, celebrato un primo e ultimo Shabbat di tutti, l’aria era già freddina, io avevo messo l’abito bianco con i sandali a zeppa ma anche un grande scialle di lana di mia nonna e pure uno spolverino bordeaux di seta lungo: un po’ estate e già un po’ autunno, allegri e tristi, fiduciosi e consci, energici e già stanchi.. così eravamo.

Innumerevoli sono le cose avvenute da allora, i chilometri percorsi, le valigie fatte e disfatte, gli alberghi, le stanze, i vagoni, le cabine, le carrozze, i letti, le camere, le case i divani i letti le tende e le cuccette, i sacchi a pelo i divani letto che io ho abitato da quell’ultimo Shabbat di fine estate, di inizio autunno.

Quell’abito in tutto questo tempo invece che avrà fatto, letto, detto, visto pensato? Credo mia madre lo avesse rammendato: c’era un piccolo strappo che si era fatto nel pizzo delicato. Lo ha forse anche lavato? Stirato? Dove, dove mai lo abbiamo riposto?

Tornerà, ne sono certa, ma ora - qui in treno adesso - mi manca: vorrei per miracolo aprire questa sera lo zaino, quando sarò giù in Lucania, sullo Ionio a Metaponto, e trovarlo lì, ma non si prega per miracoli di questo genere: chiedere e credere nell’azione “retroattiva” è magia, e non è permesso. Sud e magia, certo, scrisse De Martino, ma lì siamo già fuori dalle mie competenze religiose, ci avventuriamo presso altre divinità un poco più infere, come la Madonna nera di Carlo Levi a Viggiano e non vorrei trovarmi fuori zona. Certo quell’abito bianco ben si addice a quei luoghi ed è per questo che tanto a lungo l’ho cercato, ma se ha deciso di non venire avrà le sue ragioni. Io volevo portarlo con me e indossarlo per due serate nel festival lucano dedicato all’ebraismo cui sto andando a prestar l’anima per un’intera settimana, da domani alla prossima domenica.

La prima serata è dedicata all’incontro fra due miti, uno salentino e l’altro galiziano/est europeo, ma accomunati da un aspetto che spero emergerà: la possessione come invenzione e sfogo, stratagemma necessario orchestrato da fanciulle date in spose a chi non amano.

La tarantata è una ragazza morsa da un ragno mentre raccoglie tabacco, cioè ora, a Maggio, che deve ballare e muoversi per tre giorni e tre notti: così esprime la voglia e il desiderio, la forza e la repressione del suo giovane corpo e del suo sensibile cuore, contro la casa paterna e lo sposo destinato, l’amore non consultato, il futuro già scritto e non da lei. Le si concedono tre giorni di ballo, le si procurano mandolinisti e violinisti, si suona per lei anche il tamburello, strumento del diavolo e del sesso, per quella mano o quel bastone che battono la pelle tesa, pronta a vibrare. Simile e più cupa ancora è la leggenda del Dybbuk, in yiddish “attaccamento”, adesione sessuale e mistica di un’anima ad un’altra, di una creatura al suo Creatore, anelito più che raggiungimento, desiderio e moto, ricerca e spasmo ben più che congiunzione vera. Nella versione del mito che racconterò io a Matera, quella raccolta da Shlomo An-ski nella Zona di Residenza ebraica della Galizia polacca alla vigilia della Prima guerra mondiale e messa in scena a Mosca al teatro Habima nel 1920, Honon e Leyeh, amanti destinati fin dalla culla, vengono separati da un crudele destino, da famiglie stolte e affamate di denaro, da morti premature di un padre e di un figlio. Honon, l’innamorato, torna fra i vivi e prende dimora nel corpo di Leyeh, possedendola ed abitandola il tempo necessario a darle voce (di uomo) per rifiutare lo sposalizio combinato, già sotto la chuppà, il baldacchino nuziale. Moriranno entrambi, l’anima di Honon e la vergine Leyeh, e culleranno assieme nell’ombra i bambini da loro mai nati. La scena dell’esorcismo è potente e ingenua assieme, con lo shofàr – il corno d’ariete – suonato dai rabbini come il giorno di Capodanno, come nel Giorno del Giudizio. “Ti ordino di uscire!” grida il Rebbe fin dentro il corpo di Leyeh, “Sei scomunicato!”...

E però, mi ha recentemente fatto notare un attore yiddish da me interpellato, qualche somiglianza con il trattamento più “omeopatico” della tarantata c’è: con il dybbuk si tenta prima di tutto di parlare, venire a una mediazione, trattare una resa, capire che cosa desidera. Solo in secondo tempo lo si espelle, e come ultima ratio. C’è qualche cosa in comune con i tre giorni di ballo, con la cappella dei Santi Pietro e Paolo a Galatina, con i carri che vanno a Nardò come ce li ha spiegati Ernesto De Martino, come ce li ha raccontati Salvatore Quasimodo? Sono curiosa di scoprirlo a Matera, in una delle serate che ho inventato per il Lucania Film Festival e che condurrò assieme al Professor Imbriani, antropologo dell’Università del Salento. Tanto Leyeh quanto le tarantate hanno abiti lunghi, semplici e bianchi, con il cotone di pizzo e quello mio distratto e pigro che ha deciso di restare a casa non sa che cosa si perde...

L’altra serata per la quale avrei indossato il mio abito bianco, se si fosse fatto trovare per tempo, è Lo Shabbat di tutti che condurrò - sempre per il festival - a Pisticci, assieme ai miei due fedeli musicisti e amici e qualche ospite venuto da lontano. Sarebbe stato bello riunire quel primo Shabbat di tutti in cui Casa Alta è venuta a “trovarci” a Milano, con questo lucano, in cui altri amici triestini giungeranno di lontano...

Ancora un pensiero, e poi chiudo, che oramai sono già a Roma ed è meglio guardare avanti, va a Pasolini, che ho “incontrato” per la prima volta davvero a Matera, nell’estate del 2014, la prima trascorsa con un uomo che ho amato e un po’ amerò sempre - dal quale purtroppo sono fuggita quando ha iniziato a fare spazio per i miei abiti nel suo armadio e che ho deciso di lasciare il pomeriggio in cui mi ha comprato degli appendini - in una splendida mostra dedicata al poeta di Bologna, di Roma e di Casarsa, e – appunto – anche all’evangelista di Matera, al suo Vangelo secondo Matteo girato proprio in Lucania.

Ho con me anche Levi di Cristo si è fermato a Eboli e De Martino, conosciuti tutti lì quell’estate eterna con quell’amore che non uscirà mai da dentro me del tutto.

Per uno di quei doni che la sorte fa a chi ha valigie al posto di armadi, uomini amati al posto di mariti e solitudine quanta ne può sopportare un umano, lo scorso weekend ho cantato e recitato in uno spettacolo bellissimo, scritto da un caro amico e grande musicista, dedicato proprio alla vita di Pasolini. Le belle bandiere si chiama: lo abbiamo debuttato su un bel palco all’aperto a Fidenza, viaggerà ancora con noi, con o senza abito bianco.


Foto di Paola Cazzaniga