Pasqua
di Dario Culot
Pasqua - Disegno originale per questo numero di Rodafà Sosteno
Quando uno svolazza alto sentendosi un dio, per fargli abbassare le ali basterebbe questo piccolo esperimento pratico: mettersi davanti allo specchio e domandarsi in tutta onestà, soprattutto quando si è in là con gli anni, se la morte gli fa almeno un po’ paura. La risposta onesta non può che essere un sì,[1] e allora basta ricordarsi che Dio non ha nessuna paura della morte, a differenza dell’uomo.
Certo, quando apprendiamo la morte di qualcuno che ci è estraneo e lontano restiamo sereni e calmi, e diciamo anche che ciò che è accaduto è il risultato ineluttabile della natura. Il nostro tran-tran quotidiano resta inalterato. Un milione di persone morte in Birmania a causa di un terremoto ci tocca meno di un nostro foruncolo che ci dà prurito sul naso. Ma quando muore una persona cara, vicina a noi, già non la pensiamo allo stesso modo, e il nostro tran-tran quotidiano resta scosso. Le cose, improvvisamente cambiano.
E quando cominciamo a vedere direttamente in faccia la nostra morte? È evidente che le cose cambiano, che simile situazione colpisce indistintamente tutti, credenti e non credenti. Davanti alla morte si è soli, come davanti a un importante e impegnativo esame. Se non c’è paura c’è quantomeno una profonda inquietudine. E ancor di più fa paura la sofferenza che potrebbe precedere la morte. È anche difficile essere pienamente consolati quando si sa non c’è una via d'uscita e ci si rende conto di essere del tutto incapaci di fare qualcosa per la propria salvezza[2]. Lo stesso senso d’impotenza ci tocca quando non possiamo fare assolutamente niente per un nostro caro.
Poi, visto che la scienza non ha come fine né quello di spaventare né quello di consolare,[3] neanche chi crede ciecamente solo alla scienza trova una soluzione in quei duri momenti, anche se la scienza, con l’illuminismo, era diventata una vera e propria fede. Dopo tutto anche l’illuminismo è erede del cristianesimo, perché quando è sfociato nella rivoluzione francese, ha tratto dal cristianesimo i tre principi: libertà, uguaglianza, fraternità. Anche la scienza è erede del crisitanesimo, perché il passato è ignoranza, il presente è ricerca, il futuro è progresso. Anche il materialismo marxista è erede del cristianesimo perché il passato è ingiustizia, il presente è rivoluzione, il futuro è giustizia sulla terra. Dunque, la trilogia crisitana (dove il passato è male, il presente è redenzione, il futuro salvezza) si è talmente radicata nella cultura occidentale che ogni scenario, anche fuori della religione, è per noi gravido di speranze positive[4].
La nostra mente pensa alla morte, ma il nostro cuore pensa alla vita. Ogni madre dà vita al proprio bambino/a. Ogni madre dà la parola al proprio bambino che non sa ancora parlare per cui non ha parola; e lo può fare perché lei ha esperienza di vita. Ma davanti alla morte nessuno ha parole: solo crediamo di dare parola a quello che il moribondo vorrebbe dirci, o pensiamo di avere le parole giuste per tranquillizzarlo; ad entrambi manca l’esperienza, per cui la cosa è impossibile ad entrambi, e la mancanza di esperienza spiega perché tentiamo di fuggire davanti alla morte, e molti – spesso - non vogliono neanche sentirne parlare. Non abbiamo strumenti, non abbiamo conoscenze davanti alla morte, per cui possiamo solo sperare.
Soprattutto in questi tempi, e soprattutto nella nostra cultura occidentale la morte è traumatica perché nessuno è più preparato a questo passaggio. Ancora quand’ero piccolo si moriva normalmente in casa, e tutto il vicinato, bambini compresi, andavano a vedere (e i bambini anche a toccare) il morto. Oggi si muore normalmente di nascosto, in ospedale o in case di cura, e non c’è più il vicinato che partecipa e sta vicino a chi resta. Un africano ha meno problemi di noi con la morte, perché a differenza di un occidentale non considera sé stesso centro della vita, ma mette al centro la natura intesa nel suo significato più ampio e inclusivo, in cui ogni essere umano si inserisce facendosi coautore di quell’evoluzione universale che è la sola realtà vivente.
Allora, proprio per l’uomo occidentale occorre un allenamento. Occorre essere capaci di stare in piedi da soli, di tollerare l’angoscia della separazione. Occorre essere capaci di un saluto che fa memoria. Come spiegava don Carlo Molari la morte dovrebbe diventare il criterio della nostra vita. Non è importate pensare tanto alla morte. Dobbiamo piuttosto pensare a quello che stiamo facendo ora che siamo vivi, ma in base ai criteri che la morte stessa ci indica, perché solo questi criteri ci consentiranno di vivere veramente, e non di vivacchiare.
E allora i criteri di vita che la morte ci indica, stando a Carlo Molari, si possono riassumere in questo modo:[5]
1) Identità definitiva. “Chi sei?”[6] questa sarà la domanda cruciale che ci verrà posta. Il rabbino Sussja esclamò, in punto di morte: «Nel mondo futuro non mi si chiederà “Perché non sei stato Mosè?”; mi si chiederà invece: “Perché non sei stato Sussja?”»[7]. L’importante è chi siamo diventati attraverso la nostra vita, attraverso le nostre esperienze.
2) Distacco. La morte ci chiederà ovviamente di abbandonare tutto. La morte a noi fa tanta paura perché sarà un momento in cui dovremo fidarci della vita proprio quando ci viene sottratta. Perciò tutta la nostra esistenza deve essere un cammino per imparare a offrire vita, fino al gesto estremo di donarci senza trattenere nulla.
3) Interiorizzazione degli altri nei rapporti. Portare dentro di sé gli altri è una qualità dell’amore. Il bambino è incapace di staccarsi dalla madre, piange se non l’ha sempre vicina. Poi comincia a crescere e quando va a scuola comincia a interiorizzare il genitore: sapendo che lo troverà a casa al suo ritorno; pian piano riesce ad affrontare prima qualche minuto, poi qualche ora di distacco. Il vero adulto, che ha spostato la priorità da sé stesso all’altro, sta bene anche da solo, non costringe l’altro a stargli accanto, perché è riuscito ad interiorizzare l’altro, ad averlo con sé, dentro di sé, anche se l’altro non è presente. Solo se abbiamo interiorizzato bene l’altro non abbiamo più paura di restare soli E comunque da soli dovremo affrontare il passaggio finale.
La morte ci chiederà di essere così maturi e pieni di vita da essere in grado di partire senza trascinare l’altro per mano dietro di noi.
4) Oblatività. Il bambino appena nato inizia il suo percorso succhiando la vita degli altri. Non solo quando si attacca al seno della madre, ma quando non la fa dormire di notte, quando si acquieta solo se viene preso in braccio: spesso schiavizza i genitori. Crescendo, dobbiamo essere in grado di donare noi la vita. E quando arriva la morte, dobbiamo aver imparato così bene, da saper mettere in circolo tutto, da saper donare tutto, anche il nostro corpo.
Dunque, quando stiamo vicini a qualcuno che sta per morire, non dobbiamo cercare parole che non abbiamo; neanche dobbiamo sforzarci di parlare. Piuttosto c’è da cogliere il desiderio dell’altro di essere ascoltato (non necessariamente a parole), rinunciando noi alla pretesa di sapere, e soprattutto di rassicurare.
Noi possiamo solo sperare che dopo la morte biologica la vita continui, ci sia una risurrezione, cioè un nuovo inizio.
Gli ebrei hanno cominciato a pensare alla risurrezione non subito; ma, visto che non erano (e tuttora non siamo) in grado di riparare alle ingiustizie della storia, per coloro che erano morti ingiustamente hanno cominciato a pensare che il loro Dio, essendo giusto, li avrebbe ricompensati con la risurrezione: la risurrezione era vista come un tornare a vivere su questa terra[8].
Noi occidentali, eredi innanzitutto del pensiero razionale greco, dello sdoppiamento fra terra e cielo, fra corpo e anima abbiamo sentito ripetere che con la morte perdiamo il nostro corpo, ma l’anima finirà in cielo (paradiso[9] per una vita eterna idilliaca) o sotto terra (all’inferno per una sofferenza eterna). La cosa, in astratto, non è irragionevole: pensiamo al computer; al corpo che è l’hardware e all’anima che è il software (interiorità del corpo). La corrente, un’energia che viene dall’esterno, è la vita. La corrente, la vita può continuare ad essere comunicata da Dio anche dopo la morte biologica, dopo che l’hardware ha esalato l’ultimo respiro.
Ma c’è un piccolo “ma”: il Credo che i cristiani recitano alla messa dice che essi credono alla risurrezione dei corpi,[10] non alla vita eterna delle anime[11]. Col cristianesimo, in effetti, la Parola diventa carne, sì che il cristianesimo è una religione carnale. Anche san Paolo afferma che risorgeremo col nostro corpo (1Cor 15, 44). Quindi siamo davanti a una delle tante contraddizioni irrisolte della catechesi: la nostra vita continuerà solo da parte dell’anima mentre il corpo che l’imprigionava su questa terra andrà perduto, oppure no?
La Chiesa ci ha anche insegnato che morte e risurrezione sono la stessa porta vista dai due lati, e aggiunge che attraverso la morte non si va verso la fine, ma verso la pienezza della propria vita, perché così è successo a Gesù,[12] il quale ha detto che occorre fidarsi dell’amore di Dio, perché solo così raggiungeremo quella forma nostra definitiva dopo aver perso la nostra forma attuale. In effetti san Paolo proclama che se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede (1Cor 15, 14).
Ora, a parte il Vangelo apocrifo di Pietro (scritto probabilmente attorno al 150 d.C.), che descrive in maniera fantasiosa e trionfalistica la risurrezione di Gesù, stando ai vangeli canonici nessuno è stato testimone della sua risurrezione, per cui questi testi si limitano a descrivere quanto è accaduto in seguito. La Chiesa, però, dice che tutti possono diventare testimoni del risuscitato. Ma come è possibile essere testimoni di quello che nessuno ha visto? Noi abbiamo sempre il bisogno di spiegare le cose scientificamente, ma Dio non lo si spiega scientificamente. Ora, nessuno ha registrato l’evento della risurrezione, ciò che è realmente accaduto a Gesù, ma noi ancora celebriamo quell’evento che è stato l’inizio di una nuova fase della storia umana.
In realtà, di storico abbiamo solo l’esperienza che hanno fatto gli apostoli. Compito nostro è allora quello di prolungare nel tempo quell’esperienza. In altre parole, come possiamo essere testimoni della risurrezione? Aprendoci all’azione di Dio, diventando ogni giorno capaci di forme nuove di misericordia, fraternità, amore. Solo così noi possiamo testimoniare l’incidenza che l’azione dello Spirito ha avuto sulla prima comunità cristiana: possiamo essere testimoni del Risorto, non della sua risurrezione[13]. Essere oggi testimoni del risorto significa allora testimoniare con la propria vita (non a parole col ragionamento) che il Vangelo di Gesù porta effettivamente a compimento la persona umana[14].
Sicuramente è la convinzione degli apostoli che Gesù sia risorto che, a un certo punto, ha fatto scattare in loro la molla: però, dopo averli ascoltati, molti hanno creduto ma molti non hanno creduto. È chiaro che qui si può solo credere o meno alle parole altrui, perché è evidente che i primi discepoli hanno vissuto un’esperienza particolare e personale, e questa ha cercato un suo linguaggio all’interno di una determinata visione del mondo,[15] usando poi una formula sintetica: risurrezione. È chiaro anche che si crede a una persona non per quello che racconta ma per come vive. Il cardinal Tonini diceva che la gente crede a chi dimostra di credere, non a chi insegna. L’insegnamento deve venire dalla vita, non dai libri di teologia. Perciò anche il prete che parla deve ricordarsi di essere un testimone, non un insegnante, per cui non conta tanto la verità di quel che dice, ma se quel che racconta riflette la sua vita[16]. Certo, le parole hanno un senso, ma noi parliamo anche col corpo, con lo sguardo, e soprattutto col nostro comportamento quotidiano.
Ne consegue che lasciano il tempo che trovano frasi auliche del tipo: «Cristo è morto e risorto: alleluia!». «La risurrezione è l’evento della piena e definitiva figliolanza di Gesù. È l’opera del Padre, che riconosce in Gesù il suo Figlio, anzi che pienamente lo ‘genera’ come Figlio»[17]. Oppure, “siamo giustificati, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi”[18]. Oppure, “occorre tornare ad annunciare con vigore e gioia l’evento della morte e resurrezione di Cristo, cuore del Cristianesimo, fulcro della nostra fede, leva potente delle nostre certezze, vento impetuoso che spazza ogni paura, ogni dubbio”[19]. L’ovvia risposta è: “Ben per te se ci credi e non hai dubbi. Ma che prova mi dai perché possa anch’io credere?”
Quando all’ultima cena Gesù dice “questo è il mio corpo” dice sostanzialmente che in quel pane c’è lui stesso, come persona, con la sua storia e la sua vita. E fa capire che la sua vita sarà spezzata come quel pane. Gesù dice: “Io lo do a voi perché abbiate parte ad esso”[20] E come Maria ha dato umanità visibile al Figlio di Dio, così viene chiesto di fare a noi: Gesù risorto chiede a noi di diventare la sua corporeità, perché egli possa essere di nuovo visibile, sperimentabile e incontrabile su questa terra.
Se le cose stanno così, possiamo mettere da parte il taccuino su cui abbiamo segnato puntigliosamente le ore di preghiera, le messe sopportate con cristiana rassegnazione e le eventuali giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quello che ci raccontavano. Il Signore ci chiederà se lo avremo riconosciuto, nel povero, nel debole, nell’affamato, nel solo, nell’anziano abbandonato, nel parente scomodo. E il giudizio sarà tutto su ciò che avremo fatto, e soprattutto sul cuore con cui lo avremo fatto (Mt 25, 31ss.)[21].
Ci vien anche detto che il singolo cristiano, da solo, non saprebbe essere il corpo di Cristo[22]. Occorre per questo la comunità, la Chiesa. Personalmente sono dell’idea che se incontriamo singole persone, o anche gruppi, popoli interi che, aprendosi all’azione di Dio, giungono a vivere una modalità nuova di esistenza si può celebrare la risurrezione di Gesù. Altrimenti Pasqua diventa solo il racconto di un fatto avvenuto nel passato, che altri hanno vissuto, ma che oggi non ha altro significato che il ricordo di un momento lontano e ormai passato. Se non incontriamo testimoni viventi di un Gesù che ci vien fatto vedere come vivente (e questo vuol dire assumere il suo Vangelo come criterio di vita, essere convinti che il suo Vangelo è cammino di vita[23] attuale e valido per noi di oggi), non crediamo né alla Pasqua, né alla risurrezione. Gesù è risorto solo se lo sentiamo ancora vivo in mezzo a noi.
Leggiamo il vangelo di Marco (Mc 1, 30): vediamo che la suocera di Pietro, una volta guarita, sorge. Viene usato un verbo che è un chiaro riferimento alla risurrezione, ma contemporaneamente indica il cammino che deve compiere il discepolo: cambiare modo di vivere per mettersi a servizio. Gesù è colui che fa ri-sorgere, rivivere dopo essere guarito; il discepolo è colui che si mette a servizio, dopo essere stato guarito. È la conversione che siamo chiamati ad operare: da una visione della fede “sacrale” ad una quotidiana e laica; da una fede solo di culto liturgico ad una di azione e di servizio.
Il cambiamento (la conversione) nasce dalla consapevolezza di avere qualcosa da donare, per cui la Chiesa vien vista come una comunità di guariti e riconciliati che sanno guarire e riconciliare. Se attorno a noi vedremo questo, riusciremo anche a credere che Gesù è ancora il vivente.
Forse nella nostra Chiesa l’aspetto penitenziale della settimana santa, di una liturgia funebre e tetra, ha prevalso e prevale ancora oggi nell’immaginario collettivo, e ha ancora la meglio sull’aspetto gioioso pasquale che prorompe dalle letture. Ma così siamo come i due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13ss.), i quali riconoscono che c’è stata una risurrezione solo dallo spezzare il pane. In altri termini, ancora oggi Gesù è riconoscibile nel suo corpo quando il suo corpo (che è la comunità) si riunisce per farsi alimento per gli altri. Senza simile esempio comunitario, chi è fuori non crederà mai alla risurrezione.
Sembra invece che la Chiesa venga ancora pensata in termini di istituzione clericale, e il popolo della Chiesa venga conteggiato in base alla partecipazione alle messe, e ai sacramenti ricevuti. Invece non si evangelizza all’interno dell’edificio chiesa, ma solo al di fuori, proprio come sostiene papa Francesco dall’inizio del suo pontificato. Credo che, se la Chiesa non si reinventa, non rivive, non risorge, finirà solo col gestire il lento ma costante declino, dentro al bozzolo della propria liturgia cultuale.
NOTE
[1] È stupefacente scoprire come anche persone che noi riteniamo di fede incrollabile (come madre Teresa di Calcutta) fosse tormentata da dubbi, confessasse con angoscia di provare il buio dentro la sua anima, giacché spesso proprio non sentiva Dio parlarle (“La Repubblica” 26.8.2007, 18 s.): altro che diretto telefono rosso con lo Spirito santo che qualcuno pretende di avere.
[2] È però anche vero che a volte, una malattia dolorosa e a esito infausto toglie senso alla voglia di vivere, e la persona sofferente dice: “Fin qui sono arrivato, adesso basta, non intendo andare più avanti.”
[3] Freud S. (in www.filosifoc.net/fredu.htm (Aforismi e pensieri di Freud a cura di Diego Fusato).
[4] Galimberti U., L’etica del viandante, Feltrinelli, Milano, 2023, 16.
[5] Vedasi, con maggior dettaglio, Molari C., Per una spiritualità adulta, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 110ss.
[6] Molari C., Per una spiritualità adulta, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 111.
[7] Riportato in Buber M., Il cammino dell’uomo, ed. Qiqajon, Magnago (BI), 1990, 27 s.
[8]Al tempo di Gesù molti ebrei credevano che quando il Messia sarebbe finalmente arrivato, i corpi dei morti sarebbero tornati in vita qui, sulla Terra. Il regno di Dio, instaurato dal Messia, doveva essere un regno materiale, con alberi, pietre e corpi in carne e ossa. (Harari Y.N., Nexus, Giunti, Firenze-Milano, 2024,492). Anche Gesù aveva promesso che il regno di Dio sarebbe arrivato qui sulla Terra.
[9] Paradiso, parola persiano che vuol dire "giardino" Théron Michel, Piccola enciclopedia delle eresie, ed. il melangolo, Genova, 2006, 21.
[10] In particolare il Simbolo degli Apostoli parla di “resurrezione della carne”, mentre il Credo di Nicea parla più genericamente della “risurrezione dei morti”. Da nessuna parte, però, si parla di vita eterna della sola anima.
[11] Per quel che riguarda l’anima rinvio a quanto già scritto negli articoli ai nn. 749 e 750, del gennaio 2024, di questo giornale. Qui faccio un brevissimo riassunto: Secondo Platone, l’anima serve per conoscere. Per conoscere non possiamo fidarci delle informazioni che arrivano al nostro corpo, perché ogni corpo – oltre ad essere limitato - è diverso dall’altro. Occorre avere a disposizione criteri oggettivi, come sono le misure, o i numeri. Occorrono le idee astratte. La figura responsabile di questi scenari astratti è stata chiamata “anima” (psyché) da Platone. Col cristianesimo, sant’Agostino ha ripreso la parola psyché, ma togliendola dall’ambito della conoscenza l’ha inserita nell’ambito della salvezza: ognuno deve salvare la propria anima. La dottrina ha seguito sant’Agostino.
[12] Il catechismo, citando il concilio di Lione del 1274, afferma di credere nella risurrezione della carne che abbiamo ora. Ma altri cristiani, credendo che l’anima fosse imprigionata nel corpo, credono che con la morte l’anima si libererà finalmente dal corpo. Altri ancora credono che la vita continuerà anche se non sanno dire sotto che forma.
[13] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 269ss.
[14] Idem, 191.
[15] Panikkar R., La pienezza dell'uomo, ed. Jaca Book, Milano, 2000, 47.
[16] Parole del Cardinal Tonini riportate in “Il Piccolo” 29.7.2013, 5.
[17] Coda P., Dio Uno e Trino. Rivelazione, esperienza e teologia del Dio dei cristiani, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1993, 115
[18] Benedetto XVI, La gioia della fede, ed. San Paolo Cinisello Balsamo (MI), 2012, 51.
[19] Idem, 59.
[20] Lohfink G., Gesù di Nazaret, ed. Queriniana, Brescia, 2014, 308.
[21] Curtaz P., Commento al Vangelo secondo Mt 25, 31-46 del 23.11.2023.
[22] Biscontin C., In cammino con i discepoli del Cristo, in "Quale Dio, quale uomo oggi?", ed. Cittadella, Assisi, 2007, 145.
[23] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 191ss.
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