Domande e risposte a Capodanno
di Dario Culot
Mi è stato fatto notare che, in base a quanto scrivo, sembra che non tenga in gran considerazione la preghiera, nella convinzione che non possa cambiare nulla nella realtà esterna. Eppure Gesù ha detto che bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai (Lc 18, 1). Quindi sto dicendo cose che vanno contro l’insegnamento di Gesù.
Non credo. In quella parabola (della vedova che si rivolge con tale insistenza al giudice disonesto, da farlo decidere di accontentarla pur di togliersela di mezzo), non penso si debba accogliere la spiegazione più comune, secondo cui bisogna insistere tanto con Dio, tirarlo in continuazione per la giacchetta, perché solo così, alla fine, esaudisce la nostra preghiera essendo anche Lui stufo delle nostre insistenti preghiere che diventano perfino moleste. Già accostare Dio a un giudice disonesto mi sembra inappropriato, anche se la conclusione è che se un disonesto si smuove davanti all’insistenza molesta, ancor di più lo farà Dio perché è buono.
È vero che Gesù ha detto di pregare sempre, ma in altra occasione ha anche detto che è inutile moltiplicare le parole, perché Dio già sa ciò di cui abbiamo bisogno (Mt 6,8): quindi già sa che avremmo bisogno che la guerra si fermi, o che avremmo bisogno di guarire dalla malattia. E allora, come si conciliano queste due frasi?
So perfettamente che in tanti sono convinti che, insistendo nel pregare, alla fine saranno esauditi: arriverà la pace nel mondo, quella determinata persona per cui si pregano verrà guarita.
Del resto questa idea si trova già nella Bibbia: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido ‘Violenza!’ e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione. Ho davanti a me rapine e violenze e ci sono liti e si muovono contese» (Ab 1,2s.).
Ma dovremmo ricordarci che Dio non interviene direttamente nella storia, per cui mai farà finire con un suo intervento diretto una guerra, mai farà guarire con un suo intervento diretto una persona.
Come aveva ben spiegato don Carlo Molari, in questa parabola della vedova e del giudice, dobbiamo fissarci sulla prima frase (pregare sempre) e sull’ultima (Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?). Cioè la condizione perché la preghiera abbia significato è l’atteggiamento di fede. Nella nostra vita, quando rivolgiamo una preghiera-richiesta a qualcuno, noi siamo abituati a fare queste sollecitazioni per far intervenire un altro in nostro favore. Ma con Dio non funziona così, e mi sembra evidente che se ci rivolgiamo a Lui per sollecitarlo a fare qualcosa che avrebbe potuto fare e non fa, abbiamo una visione antropomorfica di Dio e – quel che è peggio,- una visione mercantilistica del nostro rapporto con Lui (“io ti prego tot di volte, e tu in cambio mi dai quello che chiedo”, cioè do ut des come dicevano i romani).
La preghiera di domanda a Dio serve a noi (non a Lui) per sintonizzarci sulla sua lunghezza d’onda, per diventare noi capaci di accogliere pienamente l’azione divina che fluisce ininterrottamente per tutti (e non solo per coloro che pregano), e poterla poi esprimere concretamente nelle nostre azioni, nei nostri gesti. Dobbiamo essere sempre consapevoli di essere creature, limitate, e quindi siamo noi ad essere bisognosi di vita: la preghiera, perciò, deve renderci capaci di accogliere questa forza di vita che viene dal di fuori di noi (per usare un’immagine comprensibile: che piove incessantemente su tutti noi); deve renderci capaci di diventare quello che ancora non siamo, capaci di ampliare la nostra capacità di accoglienza, e – una volta accolto interamente questo dono di vita che ci viene da Dio,- essere anche capaci di esprimere a nostra volta il dono accolto per donare vita agli altri.
Questo, del resto, è lo scopo dell’eucaristia, che non è fine a sé stessa, non è per la propria santità. Il partecipare all’eucaristia non si conclude con il momento in cui si fa la comunione, ma solo quando questa comunione ci dà energia per farci pane per gli altri[1]. Quindi nell’eucaristia, Gesù si fa pane, cioè vita per gli altri, affinché poi noi facciamo lo stesso con gli altri.
Ecco allora che, più incontriamo difficoltà (che spesso sono dentro di noi e non esterne e a noi), più dovremmo pregare senza stancarci, ma solo per essere noi alla fine capaci di fare ciò che la vita ci chiede di fare: farci pane di vita per gli altri. Nient’altro ci viene chiesto, come si vede nel giudizio finale (Mt 25,31ss.).
In quest’ottica – mi sembra - va spiegata la domanda finale di Gesù sulla fede. Non è che Dio premia chi dice di aver fede perché crede magari ai dogmi e alle dottrine insegnate dal magistero. Semplicemente chi ha fede riesce ad accogliere l’azione di Dio in maniera più profonda di chi non ha fede. E come so se ho fede? Basta porsi alcune domande: “Di chi mi fido? A chi affido la mia vita? A quale forza mi apro?”.
Questo è l’atteggiamento che condiziona l’efficacia della preghiera e si realizza solo pregando sempre, sempre.
L’azione di Dio non interferisce nella storia come sarebbe se intervenisse direttamente a correggere le nostre traiettorie sbagliate. L’azione di Dio offre possibilità a tutti, dona forza di vita a tutti, ma non si sostituisce mai alla nostra azione. Ci offre la possibilità di decidere, di fare, ma la decisione e il conseguente agire devono essere nostri. E di fronte alla possibilità offerta, spetta a noi decidere e poi agire come Gandhi o come Hitler.
Certamente finché siamo indifferenti, finché non prendiamo decisioni, finché non agiamo, non c’è neanche sviluppo nella nostra vita spirituale. Ma è anche difficile arrivare a decisioni coerenti se non c’è riflessione, se non c’è preghiera.
A ogni messa si recita la preghiera “il Gloria”, ma che senso ha dire: “ti glorifichiamo” e “ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”? Perché dobbiamo ringraziare Dio della sua gloria? Fa parte della sua natura. Che c’entriamo noi con la sua gloria innata e immensa che non dipende da noi e non torna a noi neanche di riflesso? Poi visto che non gli rendiamo grazie per la sua misericordia, perché dobbiamo farlo proprio per la sua gloria? Per di più nel “Gloria” si recita per ben due volte: “tu che togli i peccati del mondo”, ma, se li ha tolti, perché continuiamo a peccare?
Ricordo di aver già risposto a questa domanda in passato. Forse non sono stato sufficientemente chiaro, per cui mi ripeto. Le parole che usiamo, che in passato venivano capite o forse accettate senza essere capite, dovrebbero essere aggiornate per essere capite e accettate oggi. Gloria, oggi è sinonimo di fama, lustro, onore, immortalità.
Quando nella Bibbia troviamo scritto gloria (in ebraico troviamo kavod – ad esempio, Es 40, 34; 1Re 8, 11), essa viene descritta normalmente come una nube che impedisce la vista ed occupa spazio. Quindi il termine sembra indicare la presenza visibile di un Dio normalmente invisibile, la manifestazione visibile dell’azione di Dio.
Oggi, però, noi potremmo dire che l’azione di Dio diventa gloria, cioè manifestazione di novità, solo se da parte nostra c’è sintonia, consapevolezza, accoglienza, altrimenti non si vede nulla, non accade nulla. L’azione di Dio non si esprime nella storia finché non diventa convinzione e quindi azione di noi esseri umani, come detto nella risposta precedente. Perciò l’azione di Dio su noi creature non aggiunge nessun tocco divino, semplicemente offre possibilità, senza aggiungere nulla alle creature. Sono le creature che, avendo a un certo punto raggiunto un certo livello di maturità, fioriscano dal di dentro, e proprio questo è azione creatrice.
Per fare un esempio concreto: Dio non scolpisce il Mosè di Michelangelo perché il Mosè è di Michelangelo; ma affinché Michelangelo possa realizzare quel capolavoro deve essere creato in modo da essere poi capace di realizzarlo. Così agisce Dio, il quale fa che le cose a un certo punto si facciano, dando semplicemente l’energia, la forza per cui gli eventi della creazione possano accadere, anche se ci vuole tanto tempo, anche se servono secoli di evoluzione: nella preistoria nessun uomo aveva ancora in sé la maturazione per realizzare le opere che ha realizzato Michelangelo nel 1500. Dio non si pone sullo stesso piano dell’agire della creatura, non opera qualcosa che la creatura non ha ancora operato, non corregge qualcosa che la creatura ha fatto, ma rende solo possibile alla creatura di agire, e noi vediamo solo questa causa secondaria: l’azione della creatura. Ecco perché accade spesso in questo mondo che qualcosa avvenga contro quello che Dio vorrebbe, perché le creature non sono state in grado di accogliere tutta la forza di vita che la creazione conteneva e offriva loro.
Allora, glorificare Dio nella preghiera, vuol dire riconoscere che l’azione di Dio è finalmente riuscita a esprimersi nella storia e prendere forma umana inedita attraverso di noi. I traguardi che Dio si aspettava l’uomo raggiungesse sono diventati finalmente effettivi quando la sua azione si fa gloria nella nostra vita, cioè quando i nostri gesti sono manifestazione della sua presenza. Perciò servono comunità che vivano consapevolmente il rapporto con Dio così da diventare gloria, cioè manifestazione dell’umanità che fiorisce quando vive il rapporto con Dio. Se invece non ci sono gruppi che vivono un’esperienza di fede in Dio, nessuna novità emergerà nella storia, e non ci sarà alcuna gloria di Dio da esaltare.
Perciò, recitando il Gloria affermiamo che è la gloria di Dio che deve emergere fra di noi, cioè è la sua azione che deve emergere, e quando ciò avviene, di questo siamo testimoni felici, facendo appunto risplendere l’azione di Dio, non la nostra. Altrimenti – come per i farisei nel Vangelo di Giovanni - ci scambiamo gloria gli uni gli altri (Gv 5, 44)[2].
Vediamo un altro esempio pratico: quando i pastori – cioè quei malfattori destinati alla perdizione che vivevano di sotterfugi, sempre e solo insieme alle bestie, e quindi bestie fra le bestie - vengono avvicinati dall’angelo che annuncia la nascita di Gesù, anziché venir inceneriti come tutti si aspettavano avrebbe fatto il Messia, vengono avvolti dall’amore di Dio e dalla Buona Notizia che per essi è nato un Salvatore (Lc 2, 9s.). Poi questi pastori, dopo essere andati a trovare il bambinello, tornano al loro accampamento e continuano a fare quello che facevano prima (compresi i ladrocini), senza aver fatto né confessioni, né penitenze; quindi, secondo la religione, permangono nel peccato e nell’impurità, sempre in attesa della tremenda vendetta di Dio. Per loro dovrebbero aprirsi solo le porte dell’inferno. Invece, nel tornare ai loro greggi, i pastori glorificano e lodano Dio (Lc 2, 20); ma lodare Dio era compito esclusivo degli angeli più vicini a Dio, per cui i pastori, impuri peccatori destinati all’inferno, fanno qui le veci degli angeli dimostrando che Dio non si è minimamente interessato ai loro peccati, né li ha sollecitati a cambiare mestiere. Poi, anche qui, glorificare Dio (che non è sinonimo di lodare Dio) significa che la novità della Buona Notizia è stata accolta da questi individui che per la religione ufficiale erano esclusi dalla salvezza, e questa novità può cominciare a esprimersi nella storia umana: per essi, non solo per le persone pie e religiose, è nato un Salvatore.
Altro esempio ancora. Secondo Gesù, per ottenere da Dio il perdono delle proprie colpe (dei propri peccati) basta perdonare le colpe altrui (Mc 11, 25; Lc 6, 37). Ricordate l’episodio del paralitico? Il clero è convinto che perdonando i peccati, senza neanche nominare il nome di Dio, Gesù stia bestemmiando. Invece la folla presente all'episodio, non fatta di fondamentalisti, comprende benissimo che questa capacità non è una facoltà esclusiva di Gesù ma è estendibile a tutti gli uomini, sì che «rende gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini» (Mt 9, 8). A tutti gli uomini, non solo a Gesù! A tutti gli uomini, non solo al clero! Con queste parole viene sottolineata dall’evangelista la corresponsabilità di tutti i seguaci di Gesù nell’opera di salvezza, che evidentemente non è compito esclusivo di Gesù, degli apostoli e dei loro successori, ma anche di tutti coloro che lo vogliono seguire.
In conclusione, nella preghiera del Gloria, noi rendiamo grazie a Dio, per averci dato la possibilità di comunicare agli altri la sua forza di vita, nella piena consapevolezza che non siamo noi a offrire vita, ma è l’azione di Dio che in noi diventa offerta di vita per i fratelli; che non sono gli altri a offrirci il bene, ma che è l’azione di Dio in loro che diventa in noi dono che fa crescere.
E altrettanto ovviamente la gloria di Dio si rende manifesta in una persona o in una comunità non quando si recita il Gloria, ma quando si nota che lì è veramente aumentata la capacità d’amare. Perciò recitare a messa il Gloria, se poi non lo facciamo seguire dalla nostra azione, vuol dire ripetere pappagallescamente parole antiche, ma vuote, inefficaci e insufficienti per il futuro che richiede sempre novità.
Quindi compito dei cristiani sarebbe quello di costituire nelle città gli spazi della gloria di Dio, dove cioè lo scambio di vita avviene nel suo nome, dove si cresce come figli di Dio. atteggiamento di offerta e di accoglienza. E ovviamente lo si deve fare non solo in chiesa, ma ogni giorno incontrando le persone: incontrando gli extracomunitari, incontrando i pellegrini, incontrando le persone che percorrono le stesse nostre strade: facendoci prossimi a questi, come diceva Gesù. Solo questo rende la nostra città una comunità accogliente[3].
Va anche ricordato che con Gesù tutte le forme religiose meramente rituali sono finite, e il nuovo rapporto con Dio deve essere all’insegna di un amore che, ricevuto, si prolunga all’esterno. Questa è la gloria e questo è il culto che Dio vuole. Non serve più andare né a Garizim né a Gerusalemme (aveva detto Gesù alla Samaritana – Gv 4, 19-24); né – trasferendo l’insegnamento ad oggi - occorre rendergli culto in qualche chiesa o in qualche altro luogo sacro pensando così di glorificarlo: basta espandere il suo amore rendendolo efficace, manifestandolo anche agli altri[4]. Così lo glorifichiamo. Dunque, il Dio di Gesù è diverso da come i sacerdoti lo presentavano (e spesso ancora ce lo presentano: non per niente il Vangelo è sempre attuale).
Infine, quanto al togliere i peccati del mondo, il passo evangelico dice: «Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29). Si usa il singolare, non il plurale, per cui la nostra liturgia ha stravolto il significato evangelico. Non sono i peccati di tutti gli uomini che l’agnello di Dio deve espiare, ma il Figlio di Dio estirpa il peccato del mondo, cioè quella cappa di buio che impedisce nella comunità la comunicazione tra Dio e gli uomini. E come toglie questo peccato? Battezzando in Spirito Santo (Mc 1, 8), cioè effondendo il suo stesso spirito vitale, la sua forza, in chi lo segue. Gesù ha voluto spazzare via quell’ostacolo religioso oppressivo dimostrando che ognuno di noi, più diventa umano, più diventa divino, senza che si debba cercare la più difficile via della santità e dell’ascensione al cielo. L’incarnazione non è allora solo l’evento chiave della nuova alleanza con Dio, ma è anche chiave dei valori in cui siamo chiamati ad attuare la logica del Regno:[5] al seguace di Gesù è chiesto di mettere in pratica l’insegnamento del Maestro per linee orizzontali (umane, materiali), su questa terra; non per linee verticali (separandosi dall’umanità peccatrice, cercando di spiritualizzarsi), cercando di scalare il cielo acquisendo tanti meriti presso Dio. Al contrario, più si cerca di separarsi dall’umano per salire, più ci si disumanizza, e più si resta lontani da Dio.
NOTE
[1] Maggi A., Dio e la felicità dell’uomo, relazione tenuta a Rovigo, 2007, in www.studibiblici.it.
[2] Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 23s. – 26s.: “Oh come siamo bravi ad aver fatto questo”.
[3] Molari C., omelia su Gv 2, 13-22.
[4] Pèrez Marquez R., Esperienze di fede nei vangeli, relazione tenuta a Rovigo – 24 novembre 2012.
[5] Sebastiani L., Amore: rischio, fragilità, illusione?, in Paura di amare, Cittadella, Assisi, 2002, 42.
Volume di Dario Culot che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/