Arturo Paoli e il suo libro “Camminando s’apre cammino”
di Angelo Maddalena
Arturo Paoli - foto del 2013, tratta da commons.wikimedia.org
«Non mi piace Gaudy, il Sacro Cuore che è alla tua parete. Quegli occhi languidi sono orribili, non sono da uomo sano. Gesù mi piace pensarlo al pozzo con la samaritana, in casa di Lazzaro mentre parla con Maria, lì è veramente segno di liberazione».
Gaudy è una donna venezuelana, amica di fratel Arturo Paoli, il quale ha scritto questo libro come un colloquio o un discorso rivolto a Gaudy in quanto donna del Venezuela, dove fratel Arturo abitava in quegli anni in cui ha scritto queste pagine (la prima edizione è del 1977, come ci ricorda Carlo Molari nell’introduzione, poi ristampato nel 1994 e ancora dieci anni dopo, in questa nuova edizione del 2013 quello che era il titolo è diventato il sottotitolo).
«Mi chiedi, Gaudy, se il segno più chiaro della liberazione non dovrebbe essere il matrimonio» (Gaudy ha due figli e un uomo che l’ha usata e poi si è allontanato da lei).
«Il celibato non lo capisci molto», dice ancora Arturo in questo dialogo incalzante che si svolge nella cucina della casa di Gaudy. «Ricordi? Quando ritornai dal Brasile, avevo con me le lettere dei prigionieri politici. Le leggemmo una notte insieme alla relazione di un padre italiano che aveva potuto visitarli, tu avevi le lacrime agli occhi e le tue compagne ridevano di te». Ho dovuto (e voluto!) aspettare venti anni per trovare in un sacerdote, in un religioso, un inno alla forza della lotta e in particolare alla forza dei detenuti politici: la prima volta, quella che segnò inesorabilmente il mio percorso artistico, esistenziale e politico, era stato Giorgio, un mio compaesano e amico nato dieci anni prima di me, che mi aveva detto più o meno le stesse parole che Arturo Paoli dice a Gaudy e che ripete altre volte, per esempio in un altro suo libro dal titolo Svegliate Dio!.
Non stupisce, quindi, sapere che Arturo è stato perseguitato in Brasile durante la dittatura militare e poi, fuggito in Argentina, è stato minacciato dal governo di quegli anni ed ha dovuto spostarsi in Venezuela.
«Per me il celibato è come un impegno di guerrillero», dice ancora Arturo a Gaudy, e anche in questo caso, ho dovuto aspettare di compiere cinquant’anni per respirare aria nuova e sentire parole di vita, da parte di un sacerdote, che affronta in questo libro alcune domande e approfondisce argomenti che di solito i sacerdoti non affrontano (per lo meno quelli che ho conosciuto io fino ai miei trent’anni, nel mio paese, fino a quando non è arrivato un parroco “giovane” che era ed è sulla linea di Arturo Paoli, per sommi capi). Arturo affronta quegli argomenti in modo liberante: il sesso, il matrimonio, il celibato, e lo fa in modo da dare senso al sentirsi e dirsi cristiani, un senso vivificante.
Da teologo della liberazione, appunto, quale è stato, a tal proposito c’è una domanda che gli fa Silvia Pettiti, nell’appendice dal titolo Conversando con Arturo Paoli: Silvia prende spunto dalla rivalutazione della teologia da parte del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il teologo Muller, e Arturo risponde così: «Il centro della teologia della liberazione è quello di cercare l’intesa, l’armonia, la pace, facendo progredire chi è più indietro». Se la comunità cristiana oggi è sfibrata e sfinita, almeno in Occidente, ciò è dovuto a tanti fattori, non ultimo l’operato di Giovanni Paolo II che ha contribuito alla distruzione delle comunità cristiane di base per sostituirle con “comunità” di spiritualisti senza nessun contatto con la realtà e con l’esperienza del quotidiano, tutta questa criminalizzazione dei movimenti cristiani di base è stata avallata anche perché fatta passare con “lotta al comunismo”.
Tornando al tema del celibato come scelta di chi è consacrato (e ci torna spesso nell’andar delle pagine) Arturo, a pag. 32, fa notare: «Non ho mai capito come si possano chiamare casti quanti vivono circondati da ogni comodità, usando tutti i prodotti “leciti” della società dei consumi (…) Che cos’è mai castità in un quadro di vita osceno? Una delle due: o castità in questo caso è repressione sessuale, o uno che si dice casto mente e ha delle compensazioni clandestine».
Nella stessa pagina c’è un’altra perla di lucidità: «Un clero che condanna così radicalmente l’aborto ma non la guerra o la pena di morte, non può che avere una visione patriarcale della società. La donna non avrebbe mai perso questa disparità di giudizio».
Forse dalle frasi riportate non si intuisce la portata rivoluzionaria di Arturo Paoli, ma per evitare di mitizzare o di etichettare le sue parole occorre farle rientrare in una visione e in una prassi che tende a liberare la relazione umana. All’inizio della conversazione con Silvia Pettiti riportata in appendice, Arturo dichiara: «Il fine del cristianesimo è che la gente viva consapevolmente, nell’amicizia, nell’aiuto reciproco: “siamo fratelli” non dev’essere soltanto una frase, ma una realtà».
Se qualcuno fosse tentato di pensare a uno stile facile di vivere da fratelli, consideri non solo la storia di Arturo, perseguitato e minacciato di morte da vari Stati del Sud America dove ha operato, appunto per testimoniare questa fratellanza che consiste nel “far progredire chi è più indietro”, ma anche quello che ha scritto e detto in altre occasioni e altri suoi libri, e cioè che il passo del Vangelo in cui si parla di amare il nemico, comporta la possibilità di avere dei nemici, ciò proviene, ci ricorda Arturo, dal fatto di schierarsi, di scegliere da che parte stare.
Ho da poco incontrato un altro piccolo fratello, Mario Albano, della generazione di Arturo anche se più giovane, probabilmente hanno condiviso spesso un pasto e un letto in alcune fraternità dei piccoli fratelli in Italia o all’estero. Non è un caso che sembrano ripetere le stesse parole: “vivere da fratelli tra i fratelli”.
Albano approfondisce accusando la perdita di autonomia di molti ordini monacali storici come i francescani, i gesuiti, gli agostiniani che, secondo lui, avrebbero perso la retta via “perché hanno iniziato a imitare i preti diocesani”.
Volendo scendere nel concreto degli ultimi decenni, vediamo come la difficoltà di vivere da fratelli è molto diffusa anche tra molti preti che non solo non abitano nelle canoniche insieme ad altri preti (negli ultimi anni, fortunatamente, alcune canoniche vengono adibite a centri di accoglienza per profughi), ma a volte non ci abitano neanche da soli, soprattutto nel sud Italia. L’aspetto più interessante e poco conosciuto di questo abbandono delle canoniche e anche di eremi e monasteri abbandonati, è che si sono sviluppate, negli ultimi decenni, comunità di famiglie che abitano in alcune di queste canoniche abbandonate ma anche laici con progetti di vita eremitica che propongono attività di ricerca spirituale e culturale (personalmente sono uno di questi e negli ultimi anni ho sperimentato aperture di varchi ma anche tante difficoltà di andare fino in fondo).
Di queste opportunità in prospettiva ha parlato anche un articolo di Luigino Bruni su Avvenire, a dicembre del 2024. Anche queste ricerche, forse, rientrano in quel percorso di liberazione della relazione umana, oltre che di spazi mentali e fisici per una prassi che apra orizzonti nuovi e incoraggianti?