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Quattro stagioni - Marc Chagall - Chicago - foto tratta da commons.wikimedia.org
Se un vescovo rinfaccia agli Ebrei di aver maltrattato San Paolo
di Stefano Sodaro
È successo esattamente così. È successo nell’areopago contemporaneo, dei nostri giorni, dal quale non conviene star lontani, vale a dire facebook.
Un vescovo cattolico, molto conosciuto, ha scritto l’altro ieri sulla mia bacheca esattamente le seguenti parole: “Credo sarebbe meglio finirla qui che gli Ebrei di oggi ci dicano chi è Paolo quando gli Ebrei di ieri lo hanno lapidato e maltrattato più volte”.
Sulle prime ho stentato a crederci. Mi sembrava incredibile, impossibile. Invece no. Il vescovo, che viene chiamato a tenere esercizi spirituali e ritiri al clero, ha scritto quanto testualmente appena riportato e di cui conservo, ovviamente, lo screenshot.
La cosa è un po’ più seria di quanto potrebbe sembrare. Il commento episcopale faceva il verso ad un mio post in cui affermavo – e lo riaffermo -: “Credo sarebbe meglio finirla qui con il voler dare lezioni cattoliche agli Ebrei su cosa sia La Legge.”
La riflessione ora prescinde dalla piccola vicenda e si amplia a considerare che il tormento per l’ossessione identitaria, affannato a ergersi costantemente sugli altri e le altre assumendo la propria convinzione come unico riferimento veritativo, può generare conseguenze non preventivabili.
Tutti condanniamo le pretese di vita personale e sociale del nuovo Governo di Kabul, ma quasi nessuno guarda ai cascami dell’orgoglio suprematista dell’io dentro la nostra cultura e dentro lo stesso cattolicesimo confessionale.
Sono appena trascorsi giorni non proprio luminosi nei rapporti tra Santa Sede ed Ebraismo e proprio quasi alla vigilia di Rosh Hashanah. Domani sera infatti inizia l’anno del calendario ebraico 5782.
In un documento del 1985, intitolato “Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica”, il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani (già, perché è al suo interno e non all’interno del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso che esiste la Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/it/commissione-per-i-rapporti-religiosi-con-l-ebraismo/commissione-per-i-rapporti-religiosi-con-l-ebraismo-crre.html), afferma, al n. III.1, che «Gesù è ebreo e lo è per sempre». E prosegue: «il suo ministero si è volontariamente limitato «alle pecore perdute nella casa d’Israele» (Mt 15,24). Gesù è pienamente un uomo del suo tempo e del suo ambiente ebraico palestinese del I secolo, di cui ha condiviso gioie e speranze. Ciò sottolinea, come ci è stato rivelato nella Bibbia (Cf RM 1,3-4; Gal 4,4-5), sia la realtà dell’incarnazione che il significato stesso della storia della salvezza.
2. Le relazioni di Gesù con la legge biblica e con le sue interpretazioni più o meno tradizionali sono indubbiamente complesse ed egli ha dimostrato al riguardo una grande libertà (Cf le «antitesi» del discorso della montagna, in MT 5,21-48, tenendo conto delle difficoltà esegetiche; l’atteggiamento di Gesù di fronte all'osservanza rigorosa del sabato: Mc 3,1-6, ecc.).
Non vi è alcun dubbio, tuttavia, che egli voglia sottomettersi alla legge (Cf Gal 4,4), che sia stato circonciso e presentato al tempio, come qualunque altro ebreo del suo tempio (Cf Lc 2,21.22-24), e che sia stato formato all’osservanza della legge. Egli ha raccomandato il rispetto della legge (Cf Mt 5,17-20) e l’obbedienza ad essa (Cf Mt 8,4). Il ritmo della sua vita è scandito, sin dall’infanzia, dai pellegrinaggi in occasione delle grandi feste (Cf Lc 2,41-52; Gv 2,13; 7,10, ecc.). si è rilevata spesso l’importanza, nel Vangelo di Giovanni, del ciclo delle feste ebraiche (Cf 2,13; 5,1; 7.2.10.37; 10,22; 12,1; 13,1; 18,28; 19,42, ecc.).»
Eppure sembra non esserci nulla da fare. Nella vita cattolica ecclesiale feriale e festiva le difficoltà di accogliere la realtà vivente del Popolo d’Israele nella sua valenza propriamente teologica sono ricorrenti e sembrano essere state dimenticate le parole del Vaticano II, che, in Nostra Aetate, ammonisce: «la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: « ai quali appartiene l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine.»
Le cronache di ieri riportano, purtroppo, un gravissimo episodio di violenza in pieno centro a Trieste, con una sparatoria che ha causato feriti di cui alcuni gravi.
Si parla di scontri tra fazioni rivali, in cui la dimensione identitaria risulta centrale e sorta di combustibile che alimenta l’incendio.
Ieri sera Rai 3 ha trasmesso un film capolavoro, L’insulto, di Ziad Doueiri (https://it.wikipedia.org/wiki/L%27insulto), ambientato nella Beirut di qualche anno fa.
Domenica prossima terrò una relazione ad Assisi, in occasione del Convegno organizzato dalla Rete di Cooperazione Educativa per i 100 anni dalla nascita di Paulo Freire (https://retedicooperazioneeducativa.org/2021/07/02/paulo-freire-educare-alla-partecipazione-praticare-la-liberta-sabato-11-domenica-12-settembre-assisi-la-cittadella/). Cercherò di parlare dei rapporti tra la teologia della liberazione e la figura intellettuale e testimoniale di Freire.
Il grande pedagogista brasiliano fu un giorno intrattenuto con questa considerazione: «Elza, la tua prima moglie, disse una volta: «Si ama più volte in modi diversi».» Freire rispose: Ricordo la sera in cui me lo disse e per quale motivo. Fu per me una scoperta. Ampliò la mia possibilità di comprensione e mi sfidò ad una comprensione più critica. Noi, come esseri umani, ci amiamo e così riusciamo a comprendere le potenzialità dell’amore, senza però disamorarci di tutti coloro che abbiamo amato prima. Questo era il senso che lei dava alla frase. Non sempre tutti sono d’accordo o dissentono contemporaneamente. Non ho dubbi sul fatto che molti hanno disapprovato e si sono stupiti venendo a sapere che mi sono risposato. Non mi sono risposato perché m’aveva detto questo, ma attraverso il mio secondo matrimonio comprovo ciò che lei mi aveva detto. Fu quando perdetti Elza, con molto dolore e sofferenza, che compresi come soltanto quando si ama molto si può amare di nuovo. Quando si ama con timore una volta, non ci si riprova di nuovo. Oggi sono sicuro che se Elza ed io non avessimo vissuto un rapporto così profondo, non avrei amato per la seconda volta.» (in E. Passetti, Conversazioni con Paulo Freire, il viandante dell’ovvio, elèuthera, 1996, pp. 44-45).
È il sapere critico, oggi molto in crisi, a preservarci dal baratro delle autosufficienze identitarie di qualunque tipo, religiose, ideologiche, politiche, filosofiche, etiche.
Quel sapere critico che ha una matrice ebraica molto più che ellenistica, perché comporta il coraggio e la fatica di errare, di “uscire da”, di fidarsi di una parola lieve come il vento, di affidarsi all’inutilità indifesa della preghiera.
Oggi, 5 settembre, ricorrono i 60 anni dalla morte di Sorella Maria dell’Eremo di Campello (https://www.monasterodibose.it/ospitalita/scout/tracce-di-cammino/826-uomini-e-donne-di-pace/4124-sorella-maria-di-campello) ed è mancato ieri Giovanni Avena, colui che “rifondò” Adista, come scrive Valerio Gigante in https://www.adista.it/articolo/66605 e come ricorda Giovanni Ferrò, in https://www.adista.it/articolo/66606.
Mentre si affievoliscono, fin quasi a diventare del tutto silenti, le voci di chi ha additato e percorso una strada diversa dentro la storia della Chiesa italiana, resta la nostalgia di un futuro che è affidato ai nostri sogni e che nessuna fierezza di “non essere come gli altri” riuscirà a far svanire.
Buona domenica.