La città che sale


di Paola Franchina

Il mercato è in continua trasformazione ed esige da parte del soggetto un iperadattamento costante. L’individuo è travolto dal dinamismo e dalla frenesia caotica del mondo globalizzato. Come nel quadro di Boccioni, La città che sale, tutto è in movimento: la fissità è scardinata da un confuso amalgama di tratteggi cromatici. Le figure non sono chiare e distinte, ma costituite da linee che si aggregano e si disgregano all’interno di uno sconnesso turbinio di colori.

Mancini, nel testo Senso e futuro della politca, rileva che il tempo nella città tende ad essere contratto nella forma del ritmo produttivo. Il soggetto è incentivato a rincorrere affannosamente una società che fugge, inafferrabile. I segmenti operativi e gestionali delle imprese sono soggetti a continua trasformazione, sollecitando gli individui ad una flessibilità costante, a scapito di qualsiasi criterio connesso alla continuità e dignità umane.

Il cambiamento non investe solo la realtà, ma anche le sue rappresentazioni: parole nuove vengono introdotte per denominare trasformazioni del mondo. Si sente l’esigenza di neologismi che possano dare voce a sensibilità differenti: ogni anno vengono accolte dai dizionari parole tratte dagli usi collettivi di una lingua.

Ai lati della carreggiata rimangono tutti coloro che non sono in grado di stare al passo con i tempi. L’elasticità è l’atteggiamento vitale richiesto agli individui e alla collettività per evitare di essere travolti. Da qui, la faccia stranita e un poco perplessa degli anziani nell’udire espressioni giovanili tra le quali l’aggettivo cringe, avente a referenza scene imbarazzanti o comportamenti che suscitano disagio. O, ancora, friendzonare, ovvero, relegare un corteggiatore all’interno della sfera amicale.

I suddetti neologismi sono solo alcune delle parole che fanno da riflesso ai processi di trasformazione del reale. Non si tratta di mere mode passeggere: la storia e l’effettivo, infatti, non sono un elemento accidentale del percorso di riflessione. La Costituzione Pastorale Gaudium et spes offre, in questo senso, linee di orientamento della teologia, esortando a porsi in ascolto dei segni dei tempi.

La categoria segni dei tempi da un punto di vista sociologico o antropologico indica i processi di trasformazione di un periodo storico che diventano identificativi di una fase storica.

I cambiamenti culturali, come mette in evidenza uno dei fondatori della sociologia, Georg Simmel, non sono passeggere estetiche dell’esistenza, ma veri e propri modi di essere.

Da un punto di vista teologico, invece, suggerisce Carlo Molari:

La formula segni dei tempi si riferisce maggiormente all’azione di Dio o alla venuta del Regno nella storia. Per cui non sono gli eventi come tali o le condizioni sociali a costituire i segni dei tempi, bensì il rapporto che essi hanno in ordine al Regno di Dio e quindi le indicazioni dell’azione di Dio nella storia umana che, riconosciuti, possono indicare l’orientamento del cammino della Chiesa.[1]

L’immagine di una Chiesa in ascolto dei segni dei tempi strizza l’occhio al motto: in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale. L’adagio, frutto dell’immaginativa del teologo protestante K. Barth, invita a superare la falsa dicotomia tra verità ed effettivo propria dell’impianto manualistico.

Il credente, dunque, non può rinchiudersi nell’immagine parmenidea del solido cuore della Verità ben rotonda, al riparo dalla molteplicità scomposta dei sensi, ma è chiamato a vivere sul confine: tutto ciò che concerne la storia e le sue trasformazioni è infatti strutturale e richiede una revisione epistemologica.

La riflessione non può essere autoreferenziale, pena il rischio di implodere. La teologia non si può estraniare dalla realtà. Il rischio, avverte Christian Duquoc, è quello di vivere in uno stato di esilio, un’inospitalità, a motivo della perdita della forza comunicativa della riflessione.

Occorre rianimarsi dalla fiacchezza che caratterizza la disamina credente per tornare a produrre processi di acculturazione. Affinché questo sia possibile, si rende auspicabile una inversione di metodo, riscoprendo l’effettivo e l’esperienza quali luoghi essenziali del decisivo.



[1] C. Molari, Concilio Vaticano II e i giovani, su https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=13450:2018-04-12-07-48-00&Itemid=1011