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Preghiera in Sinagoga nel giorno di Yom Kippur - Maurycy Gottlieb, 1878, Tel Aviv Museum of Art, immagine tratta da commons.wikimedia.org




Shleppen di goles

Ovvero:

trasportare l’esilio





di Miriam Camerini




Poco più di anno fa era l’ultima settimana di febbraio a Milano; io avevo un fidanzato russo che insegna lo yiddish, lingua dell’esilio, in Canada, e pochissime speranze di riuscire a raggiungerlo dove ci eravamo dati amoroso convegno: al concerto che lui doveva tenere allo YIVO, l’Istituto di cultura yiddish fondato a fine ‘800 fra Berlino, Parigi e Vilnius (come per tante altre “cose” ebraiche le origini sono sempre almeno doppie, quando non triple come in questo e altri casi) e trasportato fortunosamente nel Lower East Side di Manhattan giusto un paio di decenni prima della quasi completa fine dell’ebraismo europeo per opera nazifascista. Avevo - insomma - un volo per New York, ma pochissime chance di prenderlo: IL virus era già nell’aria e ahimè nei polmoni e nelle narici di alcuni, che oramai non erano più tanto pochi.

Nel primo libro della Bibbia, la Genesi, al capitolo 12, l’Eterno parla così ad Abramo per la prima volta: “lech lechà” vai a te stesso, o forse vai per te stesso: Abramo sta tranquillo e ben collocato, ricco e conosciuto, in Caldea, nella capitale, in una delle città più importanti di quel tempo, Ur, appena visitata peraltro - anzi: per questa ragione - da Papa Francesco, e Dio gli dice di sradicarsi, uscire, farsi straniero.

Oggi in ebraico il termine per convertirsi, ossia diventare ebreo è: “lehitgayer” cioè farsi straniero… Interessante che per divenire il primo ebreo della storia, per così dire, Abramo debba per prima cosa farsi esule, farsi altro, migrante. L’essere straniero è predetto da Dio alla tribù di Israele: Giacobbe sa per profezia che lui e i suoi figli saranno migranti per fame, come molti - anche oggi – lo sono e nelle stesse regioni: Nord Africa, Medio Oriente, etc. Poi i figli di Giacobbe diventeranno schiavi, per centinaia di anni, secondo il racconto biblico. Quando infine escono dall’Egitto delle piramidi, dalle grandi città che hanno contribuito a costruire, come sempre, sono nuovamente nomadi, profughi, stranieri a tutti. Vagano nel deserto del Sinai per 40 anni, anche se è un deserto piccolo, in realtà, attraversabile in pochi giorni di cammino: è l’Eterno a decidere di rendere lunga la loro erranza, perché non si pentano, non vogliano tornare all’Egitto, seduttore di morte, con le sue tombe famose, con i suoi “pentoloni di carne e di cipolle”, con i suoi molti cavalli.

E stando dentro la Torah, arriviamo al capitolo 14 del libro dei Numeri: qui ci sono le spie, gli esploratori che vengono mandati a vedere la Terra promessa, in avanscoperta, prima di tutto il lento popolo di anziani, donne e bambini. I baldi esploratori però tornano scoraggiati perché la terra pare loro impenetrabile, disperati chiedono a Dio e a Mosè di essere ricondotti in Egitto; ancora una volta: almeno lì avevano da mangiare. A questo punto Dio si arrabbia veramente e dice loro: “Vi accontento: avete chiesto di morire nel deserto, di non entrare nella Terra promessa? Vi farò vagare per tanti anni quanti sono i giorni che avete avuto a disposizione per vedere la Terra e nemmeno uno di voi resterà in vita quando i vostri figli e le vostre figlie conquisteranno la terra.”

E così è: non ce la fa nemmeno Mosè, anzi soprattutto lui, ché il suo esilio è più doloroso di tutti gli altri: lui invoca e prega, argomenta e contratta, ma Mosè non è Abramo, e Sodoma non è Gerusalemme. Mosè muore nel deserto, da cui il detto: “Vedi Moab e poi muori”.

È così che l’ebreo errante, l’Assuero eterno di tanta mitologia letteraria cristiana, medievale, antisemita e tedesca, il maledetto che vaga perché colpevole, per castigo divino, per mostrare, prima ancora che espiare, la propria colpa, ecco: anche quello – casomai ve lo steste chiedendo – lo abbiamo inventato noi.

Siegmund e Woody si fregano le mani davanti a tanto auto-sabotaggio, ma in fondo entrambi ci hanno fatto le loro fortune, chi sul lettino e chi sullo schermo, e quindi poi ci si guadagna un po’ anche tutti noi.

Certo, l’esilio è anche una delle più grandi ricchezze della cultura ebraica: dalla cacciata dall’Eden in avanti, la cacciata è anche nascita, vita, opportunità e scoperta di vita: che cosa farebbero tutto il giorno Eva e Adamo in paradiso, senza il bisogno, il lavoro, la fatica, lo sforzo, ma anche la fantasia, la libertà, il bisogno di scegliere e inventare? Quella cacciata, la prima della storia, è quella che fa partire La Storia.

Dall’esilio babilonese del 586 a.C. ad opera di Nabucodonosor (e vedete? Ci abbiamo guadagnato anche il Va’ pensiero) con la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme, alla distruzione del secondo, nel 70 d.C. – questa volta grazie a Tito, chiamato infatti nelle fonti rabbiniche “l’asino del Messia” (titolo di un bellissimo libro di Wlodek Goldkorn, Feltrinelli 2019), perché senza distruzione non c’è redenzione e il Messia nasce lo stesso giorno in cui viene distrutto il Tempio. (TB Sanhedrin).

Il costitutivo ebraico è l’essere in ogni luogo e in ogni luogo restare quello che si ha, anche grazie all’amore per i libri, per lo studio, per i precetti: il Talmud, il libro dell’esilio, della diaspora è una patria mobile – come l’ha definito D. Boyarin, ebraista nostro contemporaneo – colossale e però mobile guida al sacro, al rapporto con la divinità, espresso in precetti e in racconti, narrativa e normativa, sempre intrecciati ed espressi in una lingua che non è più l’ebraico della Bibbia ma l’aramaico dei primi secoli dopo Cristo, lingua di Babilonia, quindi della diaspora per eccellenza, appunto: la prima.

Le lingue degli ebrei, da allora e per sempre, sono molte. Lo yiddish, e così torniamo all’inizio, è celebrato e amato grazie ai tanti scrittori - dai fratelli Singer de La Famiglia Karnowski, a Sholem Aleykhem di Tewie il lattivendolo - che ne hanno raccontato l’intreccio: l’alfabeto ebraico, la grammatica tedesca, i vocaboli slavi: tutto si tiene.

C’è però anche il ladino, la lingua degli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492 e dall’intera penisola iberica poco più tardi, sparsi sulle coste del Nord Africa, in Asia Minore, nei Balcani e in Grecia: La Lingua salvata di Canetti ne è - già dal titolo - l’inno più sublime, il ritratto più amoroso.

Il titolo di questo mio piccolo viaggio cita invece una canzone assai nota del repertorio yiddish: Oyfn pripitchik, in cui un maestro assicura ai suoi giovani alunni che le lettere, solo le lettere li seguiranno ovunque, quando dovranno portarsi a spalle l’esilio, il goles, la diaspora: da esse trarranno conforto e gioia.

E parlando di amore, eccomi a dirvi la fine del racconto che ho iniziato lassù, in cima alla pagina: il volo l’ho preso, passando per Firenze dove dovevo parlare di Esther, una delle mie donne bibliche preferite, proseguendo per Bologna, ospite di amici miei, allora da poco in coppia, imbarcandomi a Madrid come nulla fosse, pregando l’Eterno a JFK (aeroporto di NY) che mi lasciassero entrare, ma in fondo ormai essendone certa, perché, come mi aveva ricordato un veneziano pochi giorni prima della mia partenza: “amor vincit omnia”.