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Presentazione dell'Ultima Cena utilizzando modelli in cera nel museo La Storia - Giordania (العربية): عرض تمثيلي للعشاء الأخير باستخدام تماثيل الشمع، في متحف لاستوريا - ال  - fotografia di Mervat Salman tratta da commons.wikimedia.org 




I pranzi di Gesù


di Dario Culot

 

Di fatto, mentre Giovanni Battista fu un asceta del deserto che si alimentava con cavallette e miele selvatico, Gesù fu considerato un «mangione e un beone, amico di pubblicani e di peccatori» (Mt 11, 19). Ora, giacché il mangiare e la convivialità sono esperienze determinanti nella vita di ogni essere umano, proprio per questo Gesù, il Rivelatore di Dio, attraverso i pranzi, ci fa conoscere le dimensioni più profonde dell’insospettabile umanità di Dio. Il giorno in cui il figliol prodigo torna alla casa del padre, secondo quanto ci racconta la conosciuta parabola del Vangelo di Luca, l’unica cosa che fa quel padre è vestirlo per la festa e organizzare un banchetto in grande stile, con vestiti di festa, musica e danza (Lc 15, 22-25). È la cosa più grande e più eloquente che il padre poté fare per rivelare al figlio (in apparenza il più difficile dei figli) chi era quel padre e come era in realtà.

In Luca troviamo una decina di pranzi e ogni volta, con questi pranzi, Gesù sovverte la comunità. Pensiamo al primo e ultimo pranzo:

- a Levi Gesù dice semplicemente “Seguimi!” (Lc 5, 27), come aveva detto agli apostoli, senza prima chiedere alcun pentimento senza fargli cadere dall’alto alcun perdono; il perdono è già dato, in silenzio. Levi “si alzò” - come nella risurrezione, viene usato lo stesso verbo – e così abbandona una situazione di morte per entrare nella vita vera.

È da notare che Gesù chiama al suo seguito non un pio credente, ma un peccatore ufficiale, un ladro di professione che incamerando le tasse chiedeva sempre più del dovuto, e tartassava la gente. I pubblicani, cioè gli esattori delle tasse per conto degli impuri occupanti romani, vivevano a tal punto nell'impurità da essere certi di non potersi salvare. Questo pubblicano lo segue; e allora, se Gesù fosse stato una persona veramente religiosa, veramente pia, a questo peccatore incallito che ha passato tutta la vita nel peccato, avrebbe dovuto dire per prima cosa: “Adesso che hai deciso di seguirmi ti fai qualche settimana di penitenza, ti purifichi, ti penti, digiuni per un po’ (magari nel deserto come Giovanni Battista), preghi, restituisci il maltolto; alla fine di tutto questo ti concedo il perdono del Signore, e finalmente meriterai di entrare a far parte del mio gruppo”. Invece niente di tutto questo! Gesù, come questo si alza e lo segue su semplice invito, va subito a pranzo con lui, il che voleva dire – per i ben pensanti - che il peccatore impuro avrebbe infettato anche Gesù. E invece non hanno capito che accogliere il Signore rende di per sé puri, mentre non bisogna essere puri per accogliere il Signore[1].

- con Zaccheo, Gesù si autoinvita (Lc 19, 5), suscitando ovviamente di nuovo scandalo fra i benpensanti che mormorano perché Gesù andava in casa di un notorio peccatore.

Tutti questi contatti ravvicinati con persone non raccomandabili non erano approvati dai benpensanti di allora come non sono neanche oggi approvati né dall’odierna gerarchia ecclesiastica, né dai coriacei ben pensanti di oggi che si credono unici veri credenti, i quali insistono nel dire che Gesù invita continuamente al pentimento e il suo compito e quello di impressionare gli uomini sulla serietà del giudizio e risvegliare in essi il timore di Dio[2]. Eppure abbiamo appena visto che è esattamente il contrario, e che chi etichetta in via pregiudiziale una persona come peccatore (perché, ad esempio, sessualmente è inaccettabile la sua condotta) e proprio per questo la evita,[3] seguirà perfettamente la legge religiosa, ma va pacificamente contro le indicazioni del vangelo. Per il Signore, il peccatore è al più un ammalato che occorre guarire[4] mentre sarebbe veramente diabolico impedire alla persona ammalata di accogliere il medico. Gesù dice di essere venuto per gli ammalati, non per i sani (Mc 2, 17). Quelli che ancora oggi sono convinti che non si debbano frequentare i peccatori stanno ancora criticando Dio (visto che sono convinti che Gesù è Dio) perché da medico si occupa degli ammalati. Non seguono il vangelo, ma san Paolo, che da buon fariseo continuava a pensare che l’uomo impuro, peccatore, doveva purificarsi prima di esser gradito a Dio, e ammoniva i fratelli: «se qualcuno che ha il nome di fratello è …ladro, con uno del genere non prendete neppure cibo» (1Cor 5, 11): esattamente il contrario di quanto Gesù ha fatto con il ladri pubblicani Levi e Zaccheo.

Gesù non ha escluso dai pranzi né i peccatori, né i pubblicani (Mc 2, 15-17; Lc 15, 1-2), per quanto fossero le persone meno presentabili, e ha pranzato pure con i samaritani (Gv 4, 7-9); 4, 41), considerati eretici da scansare. Però non ha escluso neanche i farisei (Lc 7, 33), quantunque si trattasse di farisei importanti (Lc 14, 1). E nemmeno ha proibito a Giuda il traditore di partecipare a una cena di tanta importanza quale è stata la cena di commiato. Gesù ha condiviso la tavola pure con le donne, com’è chiaro nel caso di Marta e Maria (Lc 10, 38-39). Anzi, sappiamo di situazioni in cui Gesù, durante un pranzo, si è lasciato profumare, baciare e toccare da donne (Gv 12, 3), in qualche caso persone di mala fama (Lc 7, 36-39), il che è stato ennesimo motivo di mugugni e di ulteriore scandalo.

È chiaro che Gesù non si è mai sentito legato da norme sociali o religiose che impedissero di condividere la tavola e la felicità con tutte le classi di persone e in tutte le situazioni immaginabili. È anche chiaro che Gesù si è preoccupato e interessato più di salute e alimentazione che di culto, di liturgia, di rituali religiosi o perfino di preghiere. Gesù, però, non ha mai condiviso la tavola (e la vita) né con l’aristocrazia religiosa, né col potere politico. La sua condizione di «ebreo marginale» era completamente incompatibile col simbolo per eccellenza della vita condivisa (la convivialità) fra lui e il personaggi pubblici che, dalla religione o dalla politica, dominavano il popolo semplice e di frequente lo opprimevano. Col che Gesù stava indicando che Dio (il Dio che egli è venuto a rivelare) non si può associare con forme o rappresentazioni di potere e autorità, per quanto si tratti di autorità o poteri religiosi. Il Dio di Gesù non si rispecchia in qualunque forma di dominazione, qualunque essa sia.

Anche dopo risorto Gesù continua a mangiare con i suoi discepoli (Emmaus; Gv 21; At 10, 41): questo dimostra che, se Gesù a partire dalla sua risurrezione si situa nell’ambito della trascendenza, ancora una volta emerge il dato fondamentale secondo il quale il Trascendente lo si trova solo nell’esperienza umana. Non c’è altra forma né possibilità di trovarlo e di stabilire con lui una debita relazione. E questa relazione, secondo la testimonianza della Chiesa nascente, è l’esperienza della convivialità. Il Dio che si è fatto conoscere in Gesù si è umanizzato fino al punto che, perfino da risuscitato, è un Dio che mangia insieme ai suoi[5].

Visto che Gesù ci parla di un Dio della vita, lo dimostra in modo che tutti capiscano: è a tavola che si festeggia la vita. L’eucaristia è perciò il pranzo dei peccatori, per i peccatori: nell’eucaristia Gesù accoglie i rifiutati dalla religione. Infatti la religione imponeva di purificarsi prima di avvicinarsi a Dio. Gesù partecipa al pranzo e si fa pane per gli altri; se gli altri lo accolgono e si fanno pane, sono per ciò solo purificati. Per la religione l’eucaristia resta un premio concesso da Dio per i buoni: i cattivi non devono poter partecipare[6]. Invece Gesù si offre come regalo, a prescindere dal comportamento di chi lo riceve.

Ogni religione impone regole precise sugli alimenti e sul sesso. Come traspare da Lc 5, 33, mangiare e bere, elementi assolutamente vitali, sono visti negativamente dagli osservanti della religione, i quali preferiscono il sacrificio del digiuno. Invece, secondo Gesù, digiunare significa morte, non vita. Gli amici del talamo devono tenere alta la gioia della festa. Il digiunare è un’espressione di lutto incompatibile con la pienezza di vita. Con Gesù non servono manifestazioni esterne per ottenere il perdono. Dunque non c’è nessuna continuità fra il nuovo e il vecchio (il vino nuovo va messo in otri pure nuovi – Mc 2, 22). Il nuovo è sempre imprevedibile, mentre il vecchio dà sicurezza perché già lo si conosce. Però dove tutto si ripete stancamente, muore la vita.

Inoltre nei pranzi di Gesù ci viene rivelato qualcosa di più su Dio: Gesù non si è sottomesso alle norme religiose sul mangiare e sull’alimentazione: norme sul digiuno (Mc 2, 18-22 par), sulle purificazioni rituali prima di mangiare (Mc 7, 1-7), sugli alimenti puri e impuri (Mc 7, 17-23). Ovvio che con tale comportamento Gesù ha suscitato continuo motivo di scandalo fra gli osservanti. Invece Gesù voleva far capire che la prima cosa non è il ritualismo religioso, bensì l’esperienza umana che si esprime nella convivialità. Orbene, questo sottintende che il Dio che Gesù ci rivela non è legato principalmente alla religione, ma innanzitutto all’umanità; non al sacro, bensì al profano e laico; non ai bei riti liturgici dove tutti si genuflettono compunti, ma alle allegre mangiate e bevute in compagnia. Gesù, il Rivelatore di Dio, nei suoi pranzi ci fa conoscere le dimensioni più profonde dell’insospettabile umanizzazione e, pertanto, dell’umanità di Dio[7].

Negli aeroporti esiste di norma un meeting point, un punto d’incontro segnalato dove si possono incontrare quelli che arrivano da luoghi diversi o coloro che non si conoscono precedentemente. È il luogo o lo spazio umano dove s’incontrano le persone. Orbene, il «punto d’incontro» degli esseri umani con Dio è il Dio-umanizzato. Non è il Dio sconosciuto delle religioni, che con tanta frequenza, al posto dell’amore, ha provocato odio e violenza. Il Dio, che è punto d’incontro, è quello che si definisce come amore. «Dio è amore» (1Gv 4, 8). Questa è l’unica definizione di Dio che si trova nel Nuovo Testamento, tenendo presente che questo testo della prima Lettera di Giovanni si riferisce all’amore che abbiamo (e dobbiamo avere) gli uni verso gli altri.  Infatti stiamo parlando dell’amore fra gli uomini (1Gv 4, 7). Ed è in questo amore – e solo in questo amore – dove incontriamo …l’Enigma? il Mistero? No. Ciò che incontriamo è solo un’inesplicabile forza che ci umanizza fino al punto estremo di poter amare il nemico, quello che ci perseguita e ci odia, quello che ci maledice e desidera la nostra disgrazia. Però, com’è logico, se si tratta di amare chi mi odia, con molta maggior ragione devo prima amare, rispettare e stimare chi non la pensa come me, chi considero inferiore a me, chi mi sembra indesiderabile qualunque sia il motivo. E, naturalmente, amare così è mettere al primo posto delle mie preferenze gli ultimi di questo mondo, coloro che soffrono e mancano di tutto, cominciando dai poveri di sempre, dalle persone particolarmente vulnerabili. Amare così è ribellarsi contro questo sistema ingiusto della società, dei poteri e della politica che ha affondato nella miseria milioni di persone, mentre una minoranza nuota nell’abbondanza della follia. Non è vero che Gesù ci vuole tutti poveri; chiede sobrietà, e sobrietà vuol dire rifiutare l’inutile, il superfluo finché c’è gente che sta peggio di noi.

Amare a questi livelli è qualcosa che supera ciò che scaturisce dalla condizione umana. Per questo, in siffatto amore è dove sta Dio. Di modo che questo amore è Dio. Il problema è che noi tendiamo ad amare il potere e il denaro, trattenuti solo per noi. Tutto questo, ci dice però il Vangelo, è idolatria. Idolatria cosciente o incosciente, ma pur sempre reale e vera adorazione di dèi che nulla hanno a che vedere col Dio e Padre rivelatoci da Gesù[8].

Nell’ultimo capitolo di Giovanni c’è un pasto particolarmente significativo: c’è questo gruppetto di sette (fra apostoli e discepoli) – rappresentativo della prima chiesa in assoluto che segue Cristo. Questa comunità che rappresenta tutta la Chiesa non è fatta di soli apostoli, e cerca prima di pescare da sola, su iniziativa di Pietro. Non riesce a pescare nulla; poi fa una pesca ricca dopo essere stata rimandata in acqua dal Risorto[9]. Dopo la pesca Gesù, che ha già preparato il fuoco, invita tutti con un: “Venite a mangiare:” Gesù non lascia mai soli i suoi. L’evangelista ci sta dando un’indicazione dell’eucaristia diversa da quella degli altri evangelisti, ma prendere il pane e distribuirlo indistintamente a tutti richiama chiaramente l’eucaristia perché vengono usate le stesse parole adoperate dagli altri evangelisti per l’ultima cena. Di più: mentre nella traduzione italiana si mantiene il passato remoto (“Gesù prese il pane e lo diede loro”) per mantenere la giusta consecutio temporum, ma così dando l’impressione di un fatto storico ormai passato che non ci riguarda direttamente, il testo greco passa inopinatamente dal passato remoto (Gesù disse loro: “Venite a mangiare”) al tempo presente (“prende il pane e lo dà”). Di nuovo, non si tratta di un grossolano errore grammaticale da parte di uno scrittore poco istruito, come si pensava una volta: non ci sono errori di questo tipo nei vangeli. L’evangelista fa presente che ogni volta che Gesù si incontra con la sua comunità rinnova gli stessi gesti; ogni volta, quindi ieri come oggi, in ogni tempo, in ogni comunità, quando Gesù si manifesta, si fa pane e si comunica come alimento di vita. Questo è il significato dell’eucaristia: un amore ricevuto da Dio, che viene accolto e si trasforma in amore comunicato per gli altri, perché quanti lo accolgono e lo assimilano, siano poi capaci di farsi a loro volta pane, alimento di vita per gli altri, diventando tutti figli dello stesso Dio[10]. Chi mangia il pane senza condividerlo, tenendolo solo per sé stesso, non ha capito il senso dell’eucaristia. E anche in questo episodio viene rimarcata la stessa distanza dal centro del cerchio (Gesù) fra apostoli e discepoli; non c’è una gerarchia piramidale: più in alto gli apostoli, sotto gli altri discepoli. Non c’è nessun primato, neanche per Pietro che è lì presente con gli altri. Però il mangiare insieme che sia il Gesù terreno sia il Gesù risorto continua a praticare, dimostra che la convivialità è elemento fondamentale del cristianesimo.


NOTE

[1] Maggi A., La follia di Dio, ed. Cittadella, Assisi, 34.

[2]Theological Dictionary of the New Testament, a cura di Kittel G. e Friedrich G., ed. Edrdmans Publishing Company, Grand Rapids (USA), 1993, Vol.III, 936. 

[3] Come il fariseo Simone, che inquadra subito la donna che entra in casa sua e va dritta da Gesù (Lc 7, 36ss.).

[4] Maggi A., Versetti pericolosi, ed. Fazi, Roma, 2011, 52.

[5] Il richiamo al cibo significa che tutti abbiano da mangiare, e che si mangi condividendo, non da soli. Casati A., I giorni della tenerezza, Fraternità di Romena Pratovecchio (AR), 2013, 71s. scrive: “nella terza manifestazione del Signore, risorto, sulla riva del lago, ci s’immagina che se si manifesta sarà per dire cose importanti, come quando da noi appare la Madonna; e invece per lui la cosa che sembra importante è mangiare e far festa. La dottrina ufficiale, sconcertata per questa materialità, inventa l’interpretazione che questa fosse solo una scusa per attirare l’attenzione; ma allora perché accendere il fuoco sulla spiaggia e curarlo per poi arrostire il pesce? La nostra è una spiritualità listata a lutto. Gesù preferisce accompagnare le persone verso la felicità, per questo ci propone il Regno di Dio come una festa, un banchetto, senza distinguere fra corpo e spirito”. Gesù non è spirituale nel senso che intendiamo noi: ricordiamo che lo vedevano come un mangione ed ubriacone.

[6] Come si è visto la prima settimana di giugno col caso Biden.

[7] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 263.

[8] Idem, 294.

[9] Pietro prende l’iniziativa non in un’ottica comunitaria e di servizio, ma in un’ottica egoistica e personale: «io vado a pescare». Gli altri gli vanno dietro, ma seguono Pietro invece di seguire Gesù, e quando si segue Pietro il risultato è il fallimento totale. Parlando della vite e dei tralci Gesù aveva detto: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5). Infatti uscirono in barca ma quella notte non pescarono nulla. La notte, poi, non è soltanto la parte buia del giorno; la notte è l’assenza di luce, la mancanza di Gesù senza il quale non si può operare (Gv 9, 4). Ed è interessante appunto notare come nei vangeli questi pescatori, pur professionisti, non riescano mai a prendere un solo pesce senza l’aiuto di Gesù. Siccome non è pensabile che dei professionisti non sappiano pescare, la mancata pesca deve essere sempre intesa in senso teologico, e non in senso storico. Ma questo significa anche che, pur aspirando Pietro ad essere sempre il capo della comunità e a farsi seguire dagli altri, in realtà non ha ricevuto nessun incarico in tal senso; per di più se lo si segue si va al fallimento. 

[10] Maggi A., Commento al Vangelo di Giovanni, 14.4.2013, in https://www.studibiblici.it/VideoOmelie/trascrizioni/Commento%20al%20Vangelo%20di%20P.%20Alberto%20Maggi%20-%2014%20apr%202013.pdf.