Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano


La verità cristiana



di Dario Culot

In un’interessante conferenza tenuta al Liceo Dante di Trieste il 9.3.2023, dal titolo Socrate, Platone, Gesù, il prof. De Vecchi ha sostanzialmente detto che, per Socrate, la verità si può trovare dialogando insieme, sì che essa viene dall’incontro di cervelli diversi, e spesso proprio il corto circuito scatenato da nuove prospettive e da inediti quesiti e risposte può far imboccare una strada nuova che porta più vicini alla verità, pur non sempre raggiungibile. Quindi, la verità è un qualcosa cui tendere, che s’incontra eventualmente alla fine di un percorso. Invece nel cristianesimo, la verità è una premessa, si trova all’inizio, visto che Gesù dice “Io sono la verità” (Gv 14, 6). Il conferenziere ha poi portato vari esempi a conferma di questa affermazione: Tertulliano (nel De carne Christi) scriveva che la risurrezione va creduta perché è impossibile. Sant’Agostino, nel De Trinitate, pone la Trinità come un dato assodato, una verità da cui partire. Ne consegue che, per questi pilastri del cristianesimo, il credere è sempre superiore al capire.

È vero che a lungo questo è stato l’insegnamento costante della Chiesa, ma non credo che oggi il cristianesimo (tranne le frange più integraliste) pretenda di essere più in possesso della Verità assoluta, e che suo compito sia di riversare questa verità sugli altri che ancora non la conoscono, come ha concluso invece il conferenziere.

Oggi si dà una diversa lettura del cristianesimo, perché ci si è resi conto che neanche Gesù ha mai detto: “io ho la verità” (a differenza dei farisei che avevano la verità nella Legge di Mosè, e dei fondamentalisti cristiani di oggi che sono ancora convinti che la loro Chiesa abbia la Verità, e poi effettivamente partono da questa premessa), ma ha detto: «io sono la verità». Oggi si ribadisce che Dio è Verità, ma si dice anche che Dio è il Trascendente, irraggiungibile e inconoscibile. Il n. 37 del Catechismo conferma che Dio si trova nell’ambito della trascendenza, quindi in un ambito che sta al di là dei nostri limiti di possibile conoscenza, mentre l’umanità intera sta al di qua, nell’ambito dell’immanenza, cioè in quell’area che abbraccia l’intera nostra capacità di conoscenza, oltre la quale ogni accesso ci è precluso. Solo dell’immanente possiamo dire con sicurezza che esiste, perché fa parte dell’ambito della realtà abitata dall’uomo. Dio ha un’esistenza separata dalle cose terrene (trascendenza di Dio). Necessariamente allora anche il cristianesimo, che fa parte dell’immanenza, non può che avere uno sguardo parziale su Dio perché noi uomini siamo limitati e parziali. Ecco allora che, quando si parla del Dio Trascendente, non sappiamo sostanzialmente nulla e riusciamo solo ad accennare alla verità, che tuttavia nella sua totalità non coglieremo mai in questa vita, appartenendo noi a un ambito diverso[1].  Anche se la Verità è una sola, nessun uomo riesce a coglierla tutta intera, e ognuno di noi può al massimo cogliere solo qualche aspetto della Verità.

Perciò, se accettiamo l’idea che l’uomo immanente non potrà mai conoscere il Trascendente, e che solo nel Trascendente c’è la Verità assoluta,[2] dobbiamo continuare la ricerca in piena libertà, anche contro coloro che non lo vogliono fare e soprattutto non vorrebbero farcelo fare. Nessuno ha il diritto esclusivo e assoluto di imporci la sua volontà, cancellando la nostra libertà di pensiero e di coscienza. «Perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12, 57). Inoltre quel “Io sono la verità” (Gv 14, 6) va collegato all’ulteriore frase (Gv 18, 37) secondo cui “chi appartiene alla verità ascolta la mia voce”. La Chiesa ha effettivamente rovesciato tutto: chi ascolta la mia voce (che lei ovviamente sa essere quella di Dio) entra nella verità.

È vero, dunque, quanto detto dal prof. De Vecchi, che la Chiesa ha preteso a lungo di padroneggiare la verità assoluta, per poi imporcela, ma Gesù non ci ha mai assicurato di “avere la verità” da usare come base di partenza, bensì ha detto di “essere nella verità”. Sono due cose ben diverse. Avere la verità significa avere il possesso di una dottrina esclusiva, di un dogma definitivo che sono solo nostri e in base ai quali ci permettiamo di giudicare, disprezzare ed eventualmente condannare tutti quelli che non la pensano come noi. Essere nella verità significa essere inseriti nell’onda d’amore di Dio, un amore di Dio che è una continua comunicazione di vita a favore dell’uomo, sì che più si scopre il volto di Dio-amore e più lo si riesce a comunicare agli altri:[3] mettendosi in sintonia con questa dinamica di amore divino si va verso gli altri, non ci si separa dagli altri; men che meno ci si sente in grado di condannare gli altri.

E per inquadrare meglio la questione, mi sembra fondamentale sottolineare che, per noi occidentali, la verità si pensa; invece il Vangelo dice che si fa. Serve ortoprassi più che ortodossia. Gesù si mette in realtà sempre sul piano dei fatti, mai sul piano della dottrina:[4] Fare la verità, significa fare il bene. E fare il bene significa comunicare vita agli altri. Non interessa quello che l’altro pensa. Non interessa se l’altro è d’accordo con le nostre dottrine o meno. Nulla ci impedisce di volergli bene e di amarlo così com’è. Ecco l’ortoprassi fondata sull’amore praticato, e non l’ortodossia fondata su una verità astratta. Ecco la testimonianza-esempio perché gli altri possano credere. Ecco che Madre Teresa di Calcutta poteva dire:[5]

Fa che ti predichiamo

senza predicare con le parole,

ma con il nostro esempio.

Avere la verità è sempre fonte di dissidi, e anche nella vita della Chiesa le maggiori difficoltà sono sempre nate dalla pretesa di alcuni di avere la verità, di possedere una dottrina che va imposta. No, Gesù non lo ha mai chiesto. Chi ha la verità divide. Chi è nella verità unisce[6].

Gesù non ha mai rivelato presunte verità la cui conoscenza produrrebbe vita; Gesù ha dato con la sua vita un esempio da imitare che, se sperimentato in concreto da noi, si rivela vera vita[7]. Se dunque uno orienta la propria esistenza a favore del bene dell’uomo, ponendo il bene dell’altro come principio assoluto della propria esperienza,[8] si trova ad essere uomo vero (verità), come lui è verità; ossia occorre inserirsi nel dinamismo vitale della Verità di Dio, che è Amore e che desidera comunicare sé stesso a ogni uomo. Secondo Gesù, la verità comunica semplicemente la vita di Dio. Il potere e il denaro (mammona) comunicano solo morte[9]. E Giovanni ha anche chiarito che per ascoltare e comprendere, bisogna già essere liberi, ragionare con la propria testa, essere aperti alla verità e non chiusi nell’obbedienza all’autorità.

Nel codice di santità della religione insegnatoci dal magistero ci sono delle verità assolute che tutti gli uomini devono obbedientemente osservare. Proprio accettando questo principio, molti finiscono per credere che la fede sia un insieme di pensieri, di idee che si sono apprese, che ormai possediamo per sempre, per cui possiamo vivere tranquilli e sicuri. Invece la fede dovrebbe essere un modo di vedere la vita, perché Gesù è venuto a portare un punto di vista differente per vivere e dare un senso alla nostra vita. Purtroppo la nostra fede è rimasta impastoiata in un insieme di riti e gesti inutili, per cui si è convinti che se si crede a tutto quello che è stabilito nel Credo si possiede la fede e si è salvi. Invece la fede non può essere calata dall’alto, dall’autorità del magistero. È più che mai opportuno ricordare cosa disse san Paolo in proposito: «Io non voglio dominare la vostra fede…voglio solo lavorare con voi per la vostra gioia». Come fa la Chiesa a dire che non c’è fede all’infuori della dottrina da lei insegnata? Che al di fuori della Chiesa non c’è salvezza? La Chiesa, dovrebbe limitarsi ad essere il messaggio della presenza salvifica di Gesù nel mondo, senza annettere alla sua gerarchia il ruolo dello Spirito santo, che invece soffia dove vuole (Gv 3, 8), e quindi anche negli strati inferiori della piramide, e non solo sulla sua cima[10]. Nessuno è fuori di Cristo. Gesù ha sempre accolto le persone che avevano altre credenze e osservavano altre pratiche rituali sacre; a volte perfino ponendole come modello di fede o come esempio da imitare[11]. Ma soprattutto mai Gesù ha preteso che queste persone modificassero le loro convinzioni religiose, le loro credenze precedenti o le loro pratiche rituali o cerimoniali: non dovevano accogliere una nuova verità dottrinale. E così che genti di altri Paesi, di altra cultura e religione si sentivano attratte da ciò che Gesù insegnava e faceva. La spiritualità di Gesù era per tutti e poteva essere accettata da qualunque persona, per quanto fosse stata educata in una religione diversa dal giudaismo. La liberazione della vita, che Gesù apporta, opera esattamente allo stesso modo fra i pagani e fra i credenti israeliti: per Gesù non esistono le differenze religiose.

E allora, l’unico criterio di verità che si trova nei vangeli per stabilire se noi siamo in sintonia con Gesù o meno, non va ricercato nelle parole, neanche nelle dottrine, e men che meno nelle attestazioni di ortodossia e di fedeltà a dei principi dogmatici insegnati dalla Chiesa, ma solo nelle opere (Gv 14, 10), perché tutte le opere di Gesù sono una comunicazione incessante di vita, affinché quanti lo accolgono trasmettano vita agli altri. È interessante notare come Gesù non si perda mai a discutere sul piano della verità dottrinale, ma sempre e solo su quello dei fatti: quando vogliono lapidarlo chiede: «per quali opere mi lapidate?» (Gv 10, 32), e non ‘per quali verità che ho rivelato mi lapidate?’ oppure ‘per quale dottrina ortodossa che non ho osservato mi lapidate?’ Per Gesù non è la dottrina, ma il comportamento ciò che dimostra che si è figli di Dio[12]. I figli di Dio comunicano vita, i figli del diavolo la tolgono, anche quando sono perfetti osservanti dell’ortodossia. Gesù rampogna i farisei dicendo che vogliono fare i desideri del diavolo che è loro padre (Gv 8, 44), e allo stesso modo prende posizione contro l’intransigente ortodossia della Chiesa cattolica di Efeso (Ap 2, 4-5). Perciò, bisogna guardare a quello che fa la persona, non a quello che crede. In altre parole si può dire che dovunque si fa crescere vita, sia nella propria che negli altri, lì abita la verità, anche se lì non c’è la Chiesa. Dove invece non c’è comunicazione di vita non c’è verità, anche se siamo in una cattedrale, perché la verità non è altro che lo splendore della vita[13]. È stato ben detto, allora, che lo specchio del nostro comportamento etico non è neanche la propria coscienza, ma il volto di coloro che vivono attorno a noi. Quando questo volto esprime pace, speranza, gioia e felicità, perché il nostro comportamento genera tutto questo (in una parola: genera vita), allora è evidente che il nostro comportamento è eticamente corretto[14] e noi siamo nella verità. Perciò seguendo lo stile di vita di Gesù, tutte le persone possono aprirsi allo stesso potenziale divino che ha pervaso la figura di Gesù,[15] e quando una qualsiasi persona porta gioia di vivere, vita, amore ad un’altra persona, diventa anche lei Parola di Dio incarnata.

Ho scritto in altri articoli che per Gesù non c’è altro assoluto che il bene concreto dell’uomo[16]. Se al bene dell’uomo si cerca di sovrapporre una verità, fosse pure la verità oggettiva divina (i famosi valori non negoziabili), una verità assoluta, c’è il rischio che, o prima o poi, questa verità si ritorca contro il bene dell’uomo. E allora per Gesù non c’è nessun valore non negoziabile, non c’è nessuna verità assoluta che valga più del bene concreto dell’uomo. Questo rende evidente la contraddizione insuperabile fra amore e legge (fosse pure ammantata di divinità). Gesù, nel suo messaggio universale, non ha dato né ricette, né regole precise, ma si è limitato a dare delle linee guida, lasciando poi ampia libertà nell’interpretare e nell’attuare il suo messaggio di amore (gli otri nuovi che dobbiamo costruire). Anzi, nel Vangelo appare chiaramente che la capacità di amare è soprattutto legata alla disobbedienza, alla trasgressione, perché “il buono” resta paradossalmente prigioniero delle regole proprie dell’ortodossia, mentre “il cattivo” è assai più libero di fare scelte coraggiose[17]. Ecco perché non è solo una battuta dire che i peccatori sono più interessanti delle persone pie e religiose. Ecco perché Gesù ha potuto dire che i pubblicani e le prostitute (cioè i peccatori per antonomasia, secondo i ‘buoni’) ci precederanno nel regno di Dio (Mt 21, 31). Il teologo protestante Albert Schweitzer aveva perfettamente colto il punto, quando ha smesso di continuare nelle sue ricerche dottrinali, dicendo che tutto lo studio non portava a nessun risultato, e che l’unica cosa da fare con i vangeli era metterli in pratica: solo allora diventano libri sacri. Lui è andato in Africa per vivere i vangeli, convinto che l’unica cosa importante, quando ce ne saremo andati, saranno le tracce d’amore che abbiamo lasciato, solo questo resterà di noi. È un invito a non stare fermi, un invito all’ortoprassi, e non a scervellarsi sulla ricerca della Verità.

Dunque, noi cattolici non dobbiamo neanche lontanamente pensare di partire avendo già in tasca la Verità (assoluta perché rivelata divinamente e insegnata dall’infallibile magistero, unico in grado di far rimanere il popolo nella verità[18]), perché se ci mettiamo su questo piano “io ho la verità”, tu ne hai un’altra, quello laggiù ne ha una terza ancora, non riusciremo mai ad andare d’accordo[19]. Chi pretende di avere già la verità in realtà non fa che dividere ed è causa di questa divisione, perché separa le persone tra ortodossi ed eretici, tra coloro che gli danno ragione (amici) e coloro che gli danno torto (nemici). La divisione lacera l’uomo e lacera la convivenza sociale. Ritengo che colga perfettamente nel segno l’affermazione del teologo americano Paul Knitter:[20]«non c’è dubbio che una teologia, per quanto “vera” appaia e per quanto risulti “ortodossa”, se poi, al momento della verità, quel che produce è divisioni tra la gente e tra i gruppi umani, sottomissione umiliante degli uni agli altri, aggressioni a coloro che non la pensano come me o umiliazioni per coloro che sono considerati avversari e, soprattutto, quel che genera è indifferenza di fronte a tanta sofferenza e tanta miseria come vediamo dappertutto, una simile teologia (con tutta la sua “verità” e la sua “fedeltà”) non è se non l’espressione della menzogna e dell’inganno, l’ “errore” insediato nella più stretta “ortodossia”».

In fondo, anche la Comunità di sant’Egidio aveva ben percepito il grave peccato della divisione, quando aveva ricordato che tutte le religioni potevano essere acqua per spegnere la guerra, o benzina per alimentare quel fuoco[21]. Quanti fra i cattolici tutti d’un pezzo usano ancora abbondantemente benzina? Quanti fra gli islamici integralisti fanno lo stesso?

Non a caso è veramente difficile essere cristiani, non a caso Gesù aveva parlato solo di un piccolo gregge (Lc 12, 32), e non di comunità immense. Se uno non si dà da fare, se non partecipa all’esistenza degli altri, se non è aperto agli altri, se non è sensibile agli altri, può mancare di peccati formali, eppure già vive in una situazione di peccato. Il peccato allora non consiste nei piccoli peccati che noi elenchiamo minuziosamente nei nostri catechismi, nelle nostre morali: il peccato è la divisione, la separazione, è la chiusura in noi stessi, è il dire: “io sono nella verità e tu sei nell’errore,”[22] “io sono nel giusto e tu no,” giacché nello stesso momento in cui io instauro una relazione asimmetrica, in fondo già condanno l’altro perché non è come me[23]. Peccato è credere di avere il monopolio della verità e della giustizia. Il peccato – ha detto un grande personaggio spirituale [24]- è soprattutto voler giudicare[25].


NOTE

[1] Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia, 163s. Chiaro che, se perfino un papa conservatore come Benedetto XVI ha detto questo, è impossibile sostenere che il cristianesimo parte da una Verità Assoluta perché rivelata.

[2]La nostra verità è sempre parziale. Nel nostro zaino portiamo solo un piccolo frammento di un tutto ben più grande di noi e che non conosciamo. Quando assolutizziamo, assolutizziamo dei frammenti.

[3] Maggi A., La follia di Dio, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 184.

[4] Maggi A., Cercavano di ucciderlo, in wwww.studibiblici.it/conferenze.

[5]Il Vangelo con Madre Teresa di Calcutta, in http://asuaimmagine.blog.rai.it/category/contenuti_speciali/Newsletter/post/21.9.2012.

[6]Maggi A., Colui che viene a me io non lo caccerò fuori, conferenza tenuta a Cuneo il 10 novembre 2013, in www.studibiblici.it/Scritti/conferenze.

[7] Mateos J., L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 1991,133 nota 3.

[8] Maggi A., Il mandante, ed. Cittadella, Assisi, 2009, 57 s.

[9] Maggi A., La follia di Dio, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 184.

[10] Schillebeeckx E., Per amore del Vangelo, ed. Cittadella, Assisi, 1993, 264.

[11] Pensiamo al centurione romano, straniero e pagano (Mt 8, 10; Lc 7, 9); oppure alla guarigione della figlia della donna straniera (Mt 15, 21-28; Mc 7, 24-30).

[12] Maggi A., La follia di Dio, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 105.

[13] Mateos J., L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 19991, 134 e 138.

[14] Castillo J.M., Fuori dalle righe, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 62.

[15]  Spong J.S., Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo, Massari, Bolsena, (VT), 2010,218-220.

[16] Mateos J., L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 19991, 138 ss.

[17] Maggi A. e Thellung A., La conversione dei buoni, ed. Cittadella, Assisi, 2005, 48.

[18] Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 104.

[19] Già i protestanti osservano come sostenere che solo nella Chiesa cattolica si trovi Cristo, e non altrove, è letteralmente contrario a quanto afferma il Vangelo (Mt 18, 20): dove due o più si radunano in nome di Gesù, lì in mezzo si trova Gesù.

[20] Riportata da Castillo J.M., Fuori dalle righe, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 119.

[21] Ricordato nel messaggio del 2004  del cardinal Tettamanzi, Le religioni e cultura, il coraggio di un nuovo umanesimo, in www.internetica.it/religioni_e_cultura.

[22] Del resto fa proprio parte della nostra cultura contrapporre identità a diversità, altruismo a utilitarismo, e quindi inquadrare il mondo esterno sempre in modo disgiunto, nel senso che “se vinco io perdi tu, e viceversa.” Ce ne vuole per arrivare a capire che oggi, vincendo uno, sarà probabilmente catastrofe per tutti.

[23] Chimirri G., Libertà dell’ateo e libertà del cristiano, Fede&Cultura, Verona, 2007, 29.

[24] Curiosamente, l’arcivescovo di Firenze Florit aveva avuto sotto di sé quelli che furono probabilmente i più grandi testimoni del cristianesimo del XX secolo (don Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Giovanni Vannucci e padre Turoldo), e li ha tutti combattuti ed emarginati, perché erano degli apripista.

[25] Mt 7, 1. A dire il vero anche il papa emerito ci ricorda che Gesù ci ingiunge di non ergerci a depositari del giudizio del mondo, ma di rispettare il mistero della dignità dell’uomo anche quando ci troviamo a dover giudicare gli altri (Ratzinger J, Dio e il mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 260): ma neanche l’autorità ecclesiastica, poi, applica questo principio che pur proclama. Basti pensare al grido di omicidio del cardinale Saraiva Martins per la morte di Eluana Englaro (“La Repubblica”, 10.2.2009, 11) o del cardinale Barragan (“Il Piccolo”, 28.2.2009, 3). Essi hanno esplicitato le idee ecclesiastiche in modo un po’ diverso da quanto lo stesso papa riconosce si dovrebbe fare: “Noi cerchiamo di convincere gli altri di cose che paiono essenziali, ma ciò deve avvenire nel rispetto, senza imposizioni” (Politi M. La Chiesa del no, Mondadori, Milano, 2009, 92 e 336). A questo punto, come ci si può poi stupire se una mano ignota ha scritto sul muro della clinica dove è morta l’Englaro “Peppino Boia”, riferendosi al di lei padre? (“La Salute di Repubblica”, n.611/2009, 3). Troppo spesso l’istituzione ecclesiastica propone un insegnamento che di per sé giudica, impone e quindi divide, non rispetta e quindi non riconcilia. E affermando che il suo insegnamento è verità, in realtà allontana dal Vangelo.