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Vescovi al Vaticano II - foto tratta da commons.wikimedia.org

Turoldo e quel post-concilio che non c’è più


di Andrea Fossoto


Il 6 febbraio di trent’anni fa moriva a Milano il frate servita David Maria Turoldo.

A Nord la Chiesa italiana restava priva di una voce potente in un clima di rassegnata e scipita omologazione ruiniana.

Il successivo 25 aprile, sempre dell’anno 1992, sarebbe morto, in un incidente stradale, lo scolopio padre Ernesto Balducci. Ed un anno dopo, il 20 aprile 1993, il vescovo di Molfetta Tonino Bello.

In poco più di un anno calò il silenzio – davvero assordante – su tutta la Chiesa d’Italia. Nord, Centro, Sud. Fine della profezia predicata, annunciata – perché di quella praticata probabilmente, grazie a Dio, fine non fu -, fine cioè della “cultura profetica” ecclesiale. Che non tornò più e che neppure ora si vede, ascolta, constata, nella Chiesa Cattolica Italiana dell’anno di grazia 2022. Perché le rondini non fanno primavera – si può pensare al vescovo Derio Olivero di Pinerolo o al cardinale Matteo Zuppi di Bologna -. Mentre quelle tre voci, che quasi improvvisamente cessarono tutte assieme tra il 1992 ed il 1993, erano invece stormo, appartenevano cioè ad un vero e proprio “sistema culturale”, che si ricollegava direttamente al Concilio, senza neppure bisogno di precisare: Vaticano II.

Quel Concilio era – per quella generazione – “il” Concilio per antonomasia, mentre oggi accade spesso di udire un improprio riferimento al “Concilio Vaticano” senza alcuna precisazione del numerale “II”, costruendo così un imbuto di senso della storia della Chiesa, per il quale non passa più niente. Un collo di bottiglia che non fa capire come da un Vaticano I, quello dell’infallibilità e del primato del Papa per capirci, si passò – incredibilmente, sbalorditivamente – ad un Vaticano II, il cui annuncio, quel 25 gennaio 1959, gettò la Curia nel panico più nero. Che c’era più da discutere, niente poco di meno che in un Concilio, quando ormai il Papa era stato definito, per tutti i secoli dei secoli, “Vicario di Cristo”?

A noi oggi – bisognerebbe avere il coraggio di ammetterlo – quella storia, quell’avvicendarsi inaudito di Concili nella Basilica di San Pietro, non dice più nulla. Quella storia si è tutta esaurita, estinta. È morta.

Nessuno, e nessuna, che abbia oggi vent’anni è in grado di spiegare perché il Vaticano II fu un evento unico nella bimillenaria storia cristiana e perché un religioso dei Servi di Santa Maria venuto dal Friuli a Milano, passando per Firenze, ne risultò uno dei testimoni più vigili e meno disposti a qualsiasi compromesso acquietante. E che cosa abbia significato il suo ministero di prete poeta, giornalista, regista, partorito dalla Resistenza contro il nazifascismo.

Gli anni di Giovanni Paolo II sembrano aver fagocitato in avanti e indietro, secondo un’inesistente gradazione di sapori indistinti, l’intera policromia e polisemia delle stagioni conciliari. Con rispetto parlando, tutto ha fatto brodo e tutto ancora lo fa. Va bene tutto. Anche la fondazione dei Legionari di Cristo da parte di Marcial Maciel Degollado.

Si ribadisce, con vigore, ancor oggi: nella Chiesa Cattolica c’è posto per tutti. Appunto: per Degollado e per Turoldo. E che non ce ne sia stato per monsignor Lefebvre ha fatto piangere persino i papi – un papa in particolare - di nostalgia misericordiosa.

Che cosa è accaduto? Perché non sappiamo più manco chi sia David Maria Turoldo, forse nemmeno lo abbiamo sentito nominare?

La risposta non è così difficile: è sparita la comunità, è apparsa trionfante l’individualità, che però non ha potuto reggere il confronto con una complicatezza culturale sofisticatissima, mondiale, universale, ed è rimasta soccombente. Davide stavolta non ha vinto su Golia. Davide rischia persino di essere dimenticato.

Il gigante della banalità e del luogo comune, del già detto e del già fatto, ha scagliato lui sassi appuntiti con la sua fionda e ha consentito di assicurare livelli di vita, anche personali, non solo collettivi (anzi di essi assai poco importa), cui non saremmo più in grado ormai di rinunciare. Semplifichiamo: benessere al posto di profezia, sicurezza al posto di incertezza, sazietà al posto di fame e penuria, come naturale conseguenza dell’io al posto del “noi”.

Ma nessun io regge da solo davanti alla scena del mondo. Lo sapeva Turoldo, lo sapeva Balducci, lo sapeva Tonino Bello. Ci illudiamo noi.

Il direttore di questo settimanale online – recuperandola da Charles Fourier – ha ritenuto, un po’ troppo spesso forse, di poter riproporre, come se nulla fosse, ancora ai nostri giorni, questi, adesso, non negli Anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, l’assurda parola di “onnigamia”, attorno alla quale per appunto Fourier (che però, ma non si arrabbi il direttore, non era Sodaro) costruì un sistema coerente di comprensione del mondo, improponibile attualmente.

Oggi non c’è più alcuna gamìa che attragga e seduca, né alcun “omne/omnia” che convinca. Siamo tutti da soli e da sole. Ben inscatolati nei nostri appartamenti. I monasteri sono abbandonati, gli spazi comunitari restano deserti. Situazione tremendamente peggiorata in regime d’emergenza sanitaria che ha dovuto raccomandare di rarefare il più possibile ogni contatto sociale. Figuriamoci. Come facciamo in simili condizioni a fare memoria di padre Turoldo?

La vita di David fu all’insegna di un’uscita, dolorosa, con sforzo immane – e non sappiamo neppure quanto riuscita, compiuta -, dall’individualismo morale e dottrinale dentro cui la persona singola era stata rinchiusa ad opera del cattolicesimo ottocentesco (perpetuatosi sino a Pio XII) verso un luminoso afflato comunitario, che però, riguardato e ripensato oggi, ha rischiato di stritolare l’irripetibilità dei singoli volti, delle singole storie, dei singoli nomi e cognomi.

E per questo padre Turoldo era uomo di preghiera. E per questo non era un agitatore politico, anche se si mise a cantare “Bandiera Rossa” dentro il Duomo di Milano. E per questo sbatteva i pugni sulla scrivania del Card. Ottaviani che gli parlava d’eresia.

Dunque che possiamo fare dopo trent’anni dalla morte del frate di Coderno, frazione di Sedegliano, provincia di Udine?

Una cosa possiamo fare.

Una cosa folle e perciò tanto necessaria, una cosa non meno assurda dell’onnigamia del direttore: possiamo immaginare di fondare una vera e propria Comunità. Con chi ci sta. Con pervicacia, credendoci ancora. Per tornare ai giorni del rischio. Per tornare a sperare. Comunità senza ruoli che nessuno più capirebbe. Comunità libera e viva, fuori da ogni schema, sovversiva, da teologia indecente, per nulla raccomandabile secondo le etiche vincenti e le logiche correnti.

In ascolto della voce, cavernosa, impetuosa, dolcissima, di Turoldo, che cantava:

«Senti che è di troppo

il sapore di una pesca

in questa povertà

di case diroccate;

senti che non ti è lecito

provare questo dolciore

d’anima emigrata

dalla strada ferita

della tua umanità.

Sposata hai

una pena

di non sentire mai

dolcezza alcuna

che non sia di tutti;

ed ora ti tenta

questo profumo

di pesche e di arancí,

ed ora ti seduce

questo languore di tigli,

ed ora vorresti

andartene in pace

in quest’orlo di città

in queste ghirlande

di bimbi, a dimenticare.

E invece è tuo soltanto

il grido della città

disfatta sotto il sole,

e tu solo

puoi rianimare i corpi

abbattuti ai piedi

delle piante

nell’afosità dell’estate.

Ah tu non puoi

concederti a queste

momentanee paci.

Tu sei la possibilità

di una viva

solitudine;

e il tuo sacerdozio

è un’oasi

ove essi hanno il diritto

d’approdare

dalle loro fatiche.»