Foto di Paola Cazzaniga




Lultimo venerdì


di Miriam Camerini



È venerdì e io sono più o meno dove tutto è iniziato, 3 mesi fa: la casa del Rav Hefter, il rabbino per studiare con il quale ho scelto di trascorrere quello che speriamo sia l’ultimo pezzo di pandemia in Israele.

Sono partita da una Parigi piovosa e dolcissima alla metà di Marzo, il novilunio e quindi l’inizio del mese ebraico di Nissan, il primo di primavera. Con tutte le burocratiche traversie che ormai conosciamo, quarantene, test e moduli vari, sono atterrata a Tel Aviv alla fine dello stesso weekend che a Parigi mi aveva cullata nella pioggia, per uscire dall’aeroporto al sole di una domenica di primavera. Un mio cugino con la sua famiglia mi aspettava a El’azar, nei “territori”, fuori Gerusalemme, dove avrei trascorso i 10 giorni di quarantena: avevo accettato il suo invito con riluttanza, perché per me è difficile anche passare una serata in una parte di terra che non ritengo appartenga allo Stato di Israele, e dove in molti e molte oggi abitano “da coloni”. Avevo scelto di starci per superare un pregiudizio, vedere con i miei occhi come si vive “negli insediamenti” e capire, forse, qualche cosa di più.

Mi piaceva il fatto che quella quarantena fosse anche il periodo di preparazione a Pesach, alla Pasqua, alla libertà. Era la primavera, e il Cantico dei Cantici, libro della Pasqua, dell’amore risvegliato “quando lo vuole”.

Ho già raccontato del giorno delle elezioni, l’ultimo della mia quarantena, e del mio voto per un partito di sinistra infilato dentro un’urna piena di voti per la destra.

Sono passati più di due mesi da quel giorno, e pare che stiamo per riuscire ad avere una specie di governo, anche se c’è voluta una specie di guerra assurda in mezzo.

Sono stati 3 mesi pieni di eventi, c’è stata la Pasqua ebraica e quelle cristiane, il terribile incidente di Meron, il Ramadan, gli scontri a Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, mentre io e il mio amico Elhanan ce ne passeggiavamo tranquilli una sera godendo la festosa atmosfera di fine Ramadan, le luci, i profumi, la musica e le knafe, la pita col zaatar e l’olio di oliva, il succo di tamarindo e il caffè col cardamomo. A pochi metri da noi venivano bruciate automobili, picchiati ebrei chassidici e diffusi gas lacrimogeni. Noi però eravamo nel giardino di un hotel da Mille e una notte e fumavamo il narghilè.

Ho studiato, finalmente seduta davvero nel Beit-Midrash, nella scuola che frequento per diventare rabbino, dopo aver finalmente completato il vaccino stando in piedi per ore e ore un paio di pomeriggi al municipio di Gerusalemme, l’unico posto in cui può vaccinarsi anche chi non ha qui la mutua.

Ho lavorato, preparato l’estate e l’autunno, con tutta la voglia di tornare a girare l’Italia e l’Europa facendo i miei spettacoli, i miei concerti, le mie lezioni. Tornare alla vita “di prima”, che però tanto in realtà sappiamo tutti e tutte benissimo che non sarà la vita di prima e forse nemmeno lo vogliamo. Io, per esempio, ardo dal desiderio e dalla speranza di mantenere un po’ di quel silenzio, di quella concentrazione, di quella solitudine. Mi è piaciuto imparare che siamo deboli e fragili e bisognosi gli uni delle altre, mi è piaciuto re-imparare a dormire, a dormire davvero, otto-ore-per-notte come da bambini, come non potevo, non volevo, non riuscivo, non sapevo da decenni.

Oggi ho passeggiato nella città vecchia di Gerusalemme, ancora una volta in quel dedalo di vie che è il suo shuq, mercato villaggio mondo infinito, sempre uguale e ogni giorno diverso. Ho pensato a quanto era vuoto appena poche settimane fa, alla fine del Ramadan e durante i giorni dei missili e degli scontri, bello anche allora, a suo modo, con quel silenzio mai sentito prima. Oggi sembrava che quelle settimane fossero lontanissime, forse mai neppure avvenute e mi sono trovata a pensare che forse è per questo che Gerusalemme è eterna: perché sa guardare perennemente solo avanti, dimenticare senza necessariamente cancellare: tutto resta, ma non ci si pensa più. Uscita dalla città vecchia dalla porta di Damasco, dove appena poche settimane fa avevo separato 4 ragazzini arabi e due soldati israeliani che stavano per azzuffarsi come se fossi una vecchia maestra di scuola elementare, sono passata a salutare una estetista filippina a Gerusalemme est che la scorsa settimana mi ha fatto una delle migliori pedicure che abbia mai avuto: ho solo messo dentro la testa il suo sgabuzzino, oggi, per sapere come va con il covid la sua famiglia a Manila e dirle che la mia unghia incarnita non è mai stata così bene.

Da Gerusalemme est, senza passare altro confine che una linea immaginaria, si passa dal quartiere arabo a quello haredì, ultraortodosso, e così sono andata a godermi i profumi delle challot, il pane dello Shabat appena sfornato. Mi sono anche fatta urlare addosso da dei ragazzini fanatici perché sono entrata in una panetteria (mitica, compare anche in Shtisel) con una maglietta le cui maniche non mi coprivano i seducenti e proibitissimi gomiti, ma non ci ho fatto troppo caso, anzi li ho insultati di rimando.

Mentre cala la sera sul Gush Etzion e mi preparo all’ultimo Shabat in Israele, guardo il deserto e i monti della Giudea, sento il fruscio degli olivi, il richiamo serale degli uccelli al tramonto e aspiro i profumi del cibo del Sabato che mi giungono qui fuori in giardino dalla porta della cucina del rabbino e di sua moglie, mi auguro che la tessitura di ordinario e stra-ordinario che ho imparato e vissuto in questi mesi rimanga con me e con chiunque altro lo desideri come un dono prezioso.




Foto di Paola Cazzaniga