Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano


Il maialino di Sant’Antonio 



di Cesare Goldoni




Si dice che la notte del 17 gennaio non bisogna andare nelle stalle perché in quella notte gli animali parlano e non sarebbe piacevole sentire i loro commenti sugli uomini, io però ho deciso invece di scrivere per comunicare con voi.

Mi presento sono il maialino di Sant’Antonio, mi conoscete senz’altro, sono raffigurato sempre ai suoi piedi, e pur maleodorante sono suo amico e ne sono proprio orgoglioso. Per questo voglio raccontarvi la sua storia certo come l’ho vissuta io e come l’ho sentita raccontare da uomini, animali e anche demoni.

Antonio era di una famiglia ricca, era cristiano e intorno ai 20 anni si trovò orfano dei genitori e rimase solo con una sorella più giovane, era alla ricerca di un senso per la sua vita. Fu così che un giorno ascoltando il vangelo del giovane ricco in cui Gesù l’invita a donare i suoi beni ai poveri e poi a seguirlo, Antonio decise di prendere sul serio quell’invito (se non l’avete capito è uno tosto) e sistemata la sorella, vendette tutti i suoi averi e iniziò una vita di preghiera e carità. Che bravo direte, eh si, ma fare del bene non è facile, anzi i bisogni delle persone rischiano di soffocarti e così decide di ritirarsi in zone desertiche per pregare e parlare con Dio. È qui che incontra un giorno mia madre, era una bella scrofa e anche brava con una covata numerosa e vispa, non tutti però. Sapete che quando si è in tanti a mangiare sono prima i più forti a servirsi, almeno succede così tra le bestie, e va a finire che il più debole diventa sempre più debole ed è destinato a morire. Vedendo Antonio in preghiera pensando fosse un uomo buono, portò in bocca il maialino più piccolo ormai agli stremi, nella speranza che se ne prendesse cura. Il santo prese quel piccolo essere e lo avvolse nel suo mantello e cominciò a nutrirlo con pane intinto nel latte di capra, vedendo questo la madre soddisfatta si allontanò tranquilla. Ero troppo piccolo per ricordare quei giorni, rammento solo il caldo di quelle mani rugose avvezze alle intemperie e il suono di quel parlare di Antonio con Dio che sembrava una dolce ninna nanna. Col passare del tempo sono cresciuto e sono diventato vivacissimo è per quello che il santo mi ha appeso un campanello al collo per ritrovarmi quando mi allontanavo troppo. È di quel periodo il nostro viaggio all’inferno. Si proprio lì. 

Antonio ci andava spesso e litigava con i diavoli per le anime che volevano mettere all’inferno e spesso riusciva a sottrarle a quel destino, per questo era detestato da Satana. Su quella parte di terra però gli uomini non avevano il fuoco e vivevano isolati e mangiavano il cibo crudo, chiesero ad Antonio di aiutarli. Lui sapeva che all’inferno di fuoco ce n’era tanto e decise di andare a prenderne un po’, fu così che scendemmo insieme, all’ingresso dell’inferno bussò al che i diavoli, visto che era lui, non volevano aprirgli nel timore che facesse fuggire qualche anima, al ch’è il santo li convinse che veniva per fargli un regalo in segno di pace e mi mostrò a loro, ero proprio in forma e i diavoli mi fecero entrare pensando di farsi una gustosa porchetta per cena. Appena dentro mi scatenai come mi aveva suggerito Antonio, e fu un vero inferno :i diavoli mi inseguivano ma inciampavano e ruzzolavano per terra al che le anime dei dannati cominciarono a ridere e questo fece infuriare satana che urlava di prendere quel “demonio di maiale”, ma io mi divertivo troppo e schivando i forconi saltavo sulle code dei diavoli che urlavano sempre più forte, era una situazione infernale, al ch’è venne chiamato dentro Antonio perché si portasse via quella peste ,entrato mentre mi prendeva in braccio appoggiò il bastone (vedete nelle immagini che lo porta sempre con sé) vicino al fuoco, questo prese fuoco e di corsa uscimmo per portare agli uomini il dono sperato. È da allora che la gente si trova intorno al fuoco per stare in compagnia e mangiare in onore del santo, fino ai giorni nostri (vedi le cene di Sant’Antonio).

Le giornate passavano tra preghiera e lavoro, prega e lavora l’abbiamo inventato noi - ditelo ai monaci benedettini -, costruivamo cesti con salici e io allungavo i rametti, o corde intrecciando erbe resistenti ,su cui mi sdraiavo per mantenere la forma, che poi vendevamo per avere qualche soldo per le nostre necessità ,ma finiva che li davamo a qualche disperato e noi restavamo  ricchi del loro sorriso e ciò ,e poco altro ci bastava.

Molte persone venivano per parlare, avere consigli o pregare con Antonio, ma anche tanti animali domestici e selvatici si avvicinavano per avere una carezza e un sorriso, (da qui la sua protezione speciale) io ero un po’ geloso ma lui con uno sguardo mi rassicurava sulla nostra forte amicizia.

La vita era dura nel deserto: fame sete, freddo e caldo, ma ciò che rattristava di più Antonio era, diceva lui, il silenzio di Dio, questa era la vera tentazione. Perché non è detto che pregare si senta la risposta sempre dall’Alto, anzi a volte quel silenzio fa vacillare la fede. Quando lo vedevo così triste mi avvicinavo e standogli vicino gli raccontavo le cose belle che avevamo intorno, anche in un luogo così inospitale: il sorgere del sole e il primo caldo sulle nostre membra infreddolite dalla  notte, il volo di un uccello, la corsa di una lucertola, il canto del vento fra le rocce o il crescere di una piantina nella fenditura della roccia e tutto questo ci diceva di un Dio che usa il creato per comunicare con noi, allora mi stringeva forte e diceva che ero un “angelo di maiale”.

Alla notizia di lotte feroci nella città vicina Antonio partì per pacificare quella gente e c’ero anch’io. Girando nelle piazze invitava la gente a non comporsi peggio delle bestie e guardare negli occhi il proprio avversario e scoprire in quello sguardo un fratello e con altre esortazioni pose fine alle contese, curando poi feriti e malati del posto con erbe speciali di cui solo lui conosceva l’efficacia.

Il tempo passava e dopo più di cento anni ci siamo finalmente addormentati nelle braccia del Padre, ancora vicini e fummo sepolti nella stessa tomba. Fu per questo che diversi anni dopo quando trasportarono in Francia le ossa di Sant’Antonio per onorarlo in una chiesa importante si accorsero che tra le preziose reliquie c’era un osso di maiale, era il mio e i frati decisero di lasciarlo perché fosse vicino per sempre all’ amico che ormai famoso e venerato, aveva ricevuto il nome di santo e con tanto di aureola. In più i monaci che si ispiravano Sant’Antonio, detti appunto “antoniani”, erano rinomati medici che curavano le malattie del luogo e in particolare quelle della pelle come l’“herpes zoster”, che bruciava come un fuoco per chi ne fosse affetto, da qui il nome di fuoco di Sant’Antonio, che curavano con grasso di maiale misto ad altre erbe. C’era perciò la necessità di allevare suini per questo scopo, che vivevano liberi per i paesi, nutrendosi di ciò che la gente gli dava perché erano un bene comune e per distinguerli da altri portavano un campanellino al collo ed erano chiamati “i porcellini di Sant’Antonio”.

Quanta strada insieme, adesso quando mi guarderete in chiesa o in un’immagine ricordatevi di questa storia bestiale” e sappiate che insieme a Sant’Antonio ripetiamo per l’eternità: LAUDATO SII, MIO SIGNORE per tutte le creature. (Grazie, San Francesco!