Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Foto Diocesi di Cremona, per gentile concessione


La fede è una, le teologie sono tante



di Dario Culot

Possiamo noi cristiani credere allo stesso Dio pur avendo idee diverse su di Lui?

Di sicuro sì, anche perché ciascuno di noi è diverso dall’altro, ognuno ha le proprie sensibilità, ognuno ha fatto esperienze diverse.

Molti sono ancora convinti che il proprio Dio sia l’unico e vero,[1] perché in passato si credeva che la Rivelazione fosse espressione diretta di Dio, e quindi tutti dovevano avere l’immagine di Dio fornita dal magistero. Oggi sappiamo che non esistono parole divine, capaci di dirci come stanno le cose in modo chiaro e definitivo, perché tutte le parole che utilizziamo sorgono all’interno dell’esperienza storica e sono parole umane che non contengono verità divine, perché sono le modalità con cui l’uomo esprime l’esperienza che compie vivendo[2].

Perciò oggi ogni credente crede all’immagine di Dio che si è formata nella sua testa, in base alla sua esperienza, e non tanto all’insegnamento. Sapendo oggi che la pura trascendenza non è pensabile, qualunque idea di Dio ci siamo fatti, questa immagine o nozione che abbiamo acquisito trascina la trascendenza nell’immanenza, cioè distrugge di per sé la trascendenza. Perciò è evidente che qualunque immagine che noi ci siamo fatti di Dio (anche se fornita da un magistero che si reputa infallibile) non è mai Dio, per cui nessuno dovrebbe entrare in crisi se, nella vita, modifica l'immagine che aveva in precedenza acquisito, anche mettendola radicalmente in discussione, perché così facendo ha modificato per l’appunto solo una sua precedente immagine mentale, che era comunque sempre approssimativa. Quando uno dice: Io so cosa è Dio, si è semplicemente fatto una rappresentazione mentale sua che è immanente, e perciò stesso limitata rispetto al trascendente che è inconoscibile: Dio è sempre al di là dell'ultimo orizzonte cui l'uomo, ogni uomo, può arrivare.

Per far capire che l’immagine di Dio si fonda sull’esperienza, e non sulla dottrina insegnata, il Vangelo riporta l’episodio del nato cieco. Dopo che questi ha riacquistato la vista grazie al “peccatore” Gesù, il quale ha operato in violazione della Legge, i capi religiosi fanno pressione sull’ex cieco affinché dia adesione al dogma del riposo del sabato: «Da’ gloria a Dio! noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore» (Gv 9, 24). Ma anche se il magistero di allora – come quello di oggi - non accettava il dissenso e pretendeva che nessuno potesse andare contro la verità di un suo enunciato dottrinale, il guarito risponde in base alla sua esperienza senza entrare nel campo dottrinale e ribatte «Se sia peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9, 25), cioè: “io di leggi e di teologia non capisco niente, ma so che prima non ci vedevo, mentre adesso ci vedo, per cui, per me, va bene così” (Gv 9, 25). Ogni magistero, anche il nostro, va normalmente avanti con le sue certezze dogmatiche, con la sua verità, certo che essa corrisponda alla realtà effettiva; ma di fatto si disinteressa della realtà: «noi sappiamo» e altro non gli interessa; «noi sappiamo» e siamo stati costituiti da Dio per essere maestri per gli altri. E per difendere il proprio sistema teologico si preferisce by-passare la realtà della guarigione; per glorificare il proprio dio che è interessato solo all’osservanza della Legge e non ci si cura della sofferenza degli uomini. Il cieco guarito, che ha invece sperimentato sulla sua pelle la misericordia di Dio[3], si è fatto una sua idea su Dio e dalla sua esperienza trae le conclusioni: «una cosa io so», infischiandosene del rapporto fra peccato e Legge che sta a cuore al magistero: «Se sia peccatore, non lo so». L’esperienza concreta dell’uomo è più importante di qualunque verità dottrinale fatta scendere dall’alto.

Questo episodio è sufficiente per spiegare perché, da sempre, si sono avute immagini diverse di Dio anche nella stessa religione. A conferma, andiamo a leggere qualche passo delle Scritture per renderci conto di come - ancora oggi,- ci vengono presentate immagini di Dio diverse fra di loro.

Se ad esempio leggiamo Isaia (Is 11, 1-10), questo profeta immagina un mondo senz’armi, dove il lupo si sdraierà a fianco dell’agnello, dove il bambino non correrà pericolo alcuno neanche se metterà la sua mano nella tana del serpente velenoso. Ma tutto questo nuovo regno scenderà dall’alto, perché sarà Dio a rendere questo mondo un’oasi di pace. Un’immagine quindi di Dio che deve ancora intervenire personalmente nel nostro mondo per mettere le cose a posto. Gli uomini sono semplicemente in attesa di questo intervento divino soprannaturale.

Invece nel Vangelo, Giovanni Battista (Mt 3, 1-12) chiede conversione; cioè ciascuno di noi deve cambiare il suo modo di pensare e soprattutto di agire, perché il regno di Dio verrà solo dopo che noi agiremo positivamente nei confronti degli altri, mentre non arriverà mai se noi non ci adoperiamo per farlo venire[4]. Inoltre il Battista aggiunge un’avvertenza ulteriore: se lui battezza con l’acqua del Giordano, sta per arrivare uno più importante di lui che battezzerà con lo spirito coloro che attivandosi producono buoni frutti, ma brucerà col fuoco coloro che non si saranno convertiti. Il Dio che il Battista si aspetta di vedere è ancora quello classico che distrugge l’empio e il malvagio (Sal 145, 20). La sua non è un’idea originale, ma pesca nei Salmi della Bibbia: anche il salmo 37, 22 della Bibbia preannunciava che tutti gli empi saranno stroncati, e il salmo 68, 3 minacciava che, come la cera si scioglie davanti al fuoco, così periranno gli empi davanti a Dio. Ecco perché il Battista è in perfetta linea con l’insegnamento biblico quando immagina che arriverà Qualcuno per bruciare la pula (Mt 3, 10-12). Anche il libro di Enoch[5] (90, 24-26) parlava di giudizio di condanna con conseguente precipitazione nel luogo di dannazione: un abisso di fuoco e fiamme (l’inferno). Così il Battista atterriva tutti con l’idea che l’atteso Messia avrebbe tagliato con la scure e gettato nel fuoco ogni albero che non dava buoni frutti. Se ascoltiamo il Dies irae di Giuseppe Verdi, ancora oggi sorge vivida in noi questa idea di paura inculcataci per secoli dal nostro magistero, che ha seguito Giovanni Battista e san Paolo assai più del Gesù evangelico.

C'è poi qualcosa di sorprendente in quest’ultimo profeta che, a differenza degli altri, non predica nella città santa di Gerusalemme, ma decide di vivere lontano dal Tempio (a quel tempo riconosciuto come l’unica dimora di Dio in terra), dai suoi sacerdoti, dai suoi culti. Il padre del Battista, Zaccaria, è un sacerdote, ma il figlio Giovanni resta un laico, non segue il padre, ed è una 'voce che grida nel deserto', cioè in un luogo profano e isolato che non può essere facilmente controllato da nessun potere, né da Roma, né da Gerusalemme. Lì nel deserto non arrivano le decisioni prese dall’impero romano, né gli ordini di Erode Antipa: il deserto è il luogo del non-potere[6]. Lì la religione non deve venire a compromessi col potere politico. E nel deserto il Battista predica un battesimo di conversione[7] per il perdono dei peccati (Lc 3, 3). La religione ufficiale insegnava invece che il perdono dei peccati si otteneva solo andando al santissimo Tempio di Gerusalemme, seguendo un preciso rito religioso, proprio come oggi la religione insegna che il perdono dei peccati si ottiene andando in chiesa e confessandosi dal prete, unico in grado di dare l’assoluzione, avendo il Risorto conferito solo agli apostoli (e quindi ai loro successori) il potere di rimettere i peccati[8].

Se però ci soffermiamo sui vangeli, è chiaro fin dall’inizio che Dio non agisce nel culto: lo stesso vangelo ci dice cioè chiaramente che il perdono dei peccati avviene semplicemente convertendosi, modificando la propria esistenza, cambiando la propria vita (metanoia è la parola greca usata), pur restando a vivere nella società. Quando non si vive più per i propri interessi egoistici, centrati esclusivamente su sé stessi, ma si diventa attenti ai bisogni degli altri, questo nuovo atteggiamento è sufficiente per cancellare automaticamente il proprio passato di peccatore, e al contempo si migliora la comunità in cui si vive.

Il deserto, luogo profano, solitario e silenzioso, è anche il luogo della essenzialità, per cui è il luogo migliore per iniziare il cammino di conversione. In effetti, il deserto era ed è il luogo della sobrietà, dello svuotamento del superfluo di cui siamo imbevuti anche nella nostra odierna cultura, dove si può recuperare la dimensione della vita essenziale, dove si può scoprire chi siamo veramente. Per questo il deserto, come la montagna, pur essendo luoghi profani, possono portare a un’esperienza di pienezza e al contatto con Dio, sì da diventare lo spazio privilegiato per ascoltare la voce di Dio.

Il vangelo ci dice poi che :“le genti accorrevano a lui, confessavano i propri peccati e Giovanni li battezzava”. Ma ci dice anche che l’annuncio di Giovanni era: “voce di uno che grida nel deserto”, il che sembra una contraddizione perché oggi dire voce che grida nel deserto è una locuzione che si riferisce a  una persona i cui consigli rimangono inascoltati.  Ma se accorre tanta gente, compresi i sadducei e i farisei (cioè i sacerdoti e le persone pie strettamente osservanti della legge divina), vuol dire che Giovanni non stava predicando a vuoto. Dire allora che Giovanni Battista sta predicando invano non sembra corretto[9]. E allora? Siccome in realtà i vangeli sono sempre attuali, la frase è forse rivolta a noi, uomini di oggi, nel senso che dovremmo noi chiederci: l’annuncio che ci è stato fatto cade per noi a vuoto come in un deserto, oppure ci attiviamo per preparare la venuta del Signore e ci attiviamo per raddrizzare le strade per accoglierlo? L’annuncio è ormai fatto, ma sta solo a noi accoglierlo.

A differenza di Isaia, il Battista presenta un Dio di cui dobbiamo aver timore, e alla cui opera dobbiamo collaborare per non finir male.

Giovanni Battista è in predicatore irruento, teatrale, sovraesposto. Si aspetta un Salvatore violento, e invece, dopo questo profeta irruento arriva un certo Gesù che, - al pari del Battista - invita alla conversione, cioè al cambiamento di vita, ma non presenta più l’immagine di Dio tremendo. Anche Gesù parlerà di fuoco, ma non sarà più il fuoco distruttore[10] di un Dio che punisce (At 1, 5). Sarà il fuoco di un’esistenza nuova, nel momento in cui diventa una forza che allarga la nostra coscienza e la collega a Dio. Gesù è venuto solo a vivificare, per cui vuol dare un’opportunità a tutti, anche all’albero che Giovanni Battista voleva già gettare nel fuoco.

Per Gesù lo Spirito Santo sarà lui simile a un fuoco ma solo perché arde nei cuori dei discepoli (At 2, 3-4),[11] come accade ai due sfiduciati di Emmaus che incontrando il Gesù risorto sentono – a un certo punto -  il loro cuore ardere nel petto (Lc 24, 32); sarà questo un fuoco d’amore che afferra, penetra nei cuori chiedendo ogni giorno scelte di assoluta fedeltà, fino al dono totale di sé[12]. Il dono di sé è il servizio alla vita dell’altro, ed è questo che fa crescere anche la propria vita. Gesù non giudicherà, non condannerà, non castigherà nessuno, non distruggerà nessuno: e se così si comporta Gesù, così si comporta anche il Padre. L’azione di Gesù, cioè, non è mai distruttiva, ma sempre vivificante, a differenza del Dio biblico che tutti abbiamo ben presente per le terribili piaghe d’Egitto. Siamo davanti all’immagine di un Dio amorevole e misericordioso, assai diverso dall’immagine presentataci dal Battista, ancora oggi accolta dal n.1864 del Catechismo. Gesù ci ha offerto l’immagine di un Padre (Abbà) amorevole e misericordioso, che ama incondizionatamente e gratuitamente, in contraddizione con l’immagine di un Dio giudice severo che incute paura, che soppesa glacialmente ogni azione di ogni persona. Ma nella maggior parte dei cristiani fa ancora presa l’immagine di Dio insegnata dal Battista, non quella raccontata da Gesù.

È indubbio che Gesù ha abituato i propri ascoltatori a capire che sulla sua bocca la parola “Dio”, e in particolare quella di “Padre”, significa “Abbà, cioè papà[13]. Gesù si pone in un rapporto di intimità con Dio superando le concezioni giudaiche. Egli ha libero accesso a Dio, specialmente nel suo parlare profetico e nella sua preghiera. E c’è anche da sottolineare che neanche col passare dei secoli il termine Abbà è stato tradotto, così restando come un’eco di quell’esperienza personalissima vissuta da Gesù[14]. Si può anche ben capire lo sconquasso portato da Gesù in una società dove non si osava neanche pronunciare il nome di Dio, e improvvisamente arriva un giovane laico, neanche un sacerdote e neanche scriba erudito, che comincia a parlare di Dio chiamandolo Abbà (Papà), quando noi, dopo duemila anni, neanche osiamo rivolgerci ai nostri vescovi e cardinali chiamandoli Abbà, perché continuiamo a baciar loro l’anello e a incensarli con i titoli altisonanti di “eccellenza, eminenza”[15].

Lo stesso Giovanni Battista, dal carcere, turbato da questa immagine di Dio così diversa da quella che lui aveva predicato (nessuna ascia pronta a recidere l’albero che non dà frutti; nessuna violenta vendetta divina; nessun fuoco a divorare i peccatori), manda a un certo punto una richiesta urgente a Gesù perché non era più così sicuro che fosse lui il vero Messia, visto il suo modo di comportarsi: ma come! aveva predetto l’ira funesta di Dio conseguenza al rifiuto della proposta di vita (Gv 3, 36), aveva predetto un battesimo in Spirito per coloro che avrebbero accolto il Messia, ma un battesimo in fuoco distruttore per coloro che lo avessero respinto (Lc 3, 16); aveva profetizzato un Messia con la scure in mano (ogni albero che non porta frutto lo taglia e lo brucia - Mt 3, 10-12; Lc 3, 9), e invece questo Gesù, quando incontra i peccatori, non solo non li distrugge con il fuoco della sua ira, ma va in giro dicendo che anche se l’albero non dà frutto deve essere zappettato e concimato (Lc 13, 8), e poi aspettare con fiduciosa speranza. La risposta di Gesù termina con «beato colui che non si sarà scandalizzato di me» (Lc. 7, 23).

Si può dire che è solo da dopo il concilio Vaticano II che si insiste sull’immagine di un Dio Padre amorevole, ma sono ancora molti presbiteri che continuano a predicare il Dio di Giovanni Battista.

Per spiegarci come si comporta Dio, è fondamentale la parabola del buon samaritano (secondo Gesù, Dio si comporta come lui). Questo significa anche che, se si ha un’immagine di Dio che fa paura, la si deve buttar via, perché dovremmo guardare solo al Dio di Gesù che risulta dai vangeli.

La parabola del buon samaritano (Lc 10, 30) dimostra che più uno vuol essere santo, più uno vuole mantenere il suo stato di purezza per conservare il suo contatto con Dio, più è ateo, come lo è il sacerdote che, essendosi purificato nel Tempio, sa di trovarsi in grazia, per cui – secondo la religione insegnatagli e che insegna, - in lui dovrebbe essere impressa la bellezza del divino archetipo[16]. Il sacerdote che scende in stato di purità da Gerusalemme, vuole mantenersi puro per Dio e perciò non rischia di farsi contaminare dall’impurità dell’uomo sanguinante a terra. Magari questo sacerdote, come il levita che sopraggiunge di lì a poco, saranno stati anche soddisfatti di quello che avevano fatto, erano contenti di loro stessi, erano convinti di essere in stato di grazia, di essere veri credenti vicini a Dio perché si erano elevati verso il cielo tramite la purificazione. Magari arrivavano a cavallo canticchiando i grandi salmi che avevano appena recitato nel Tempio, dove si erano smacchiati di ogni impurità e resi graditi a Dio. Erano così bianchi, che più bianchi non si può. Ma loro sono passati oltre. Il samaritano, dei tre il più lontano da Dio secondo la religione, quello che doveva avere l’anima nera per i peccati, si ferma, si sporca, perde il suo tempo e il suo denaro per aiutare un uomo sconosciuto, e fa tutto questo gratuitamente, senza alcun secondo fine. È lui, senza saperlo, ad essere in stato di grazia, non il sacerdote, non il levita, giacché grazia significa amore gratuito e fedele[17]. Parafrasando sant’Agostino[18] si può dire che il ferito, vedendo la carità del samaritano, ha visto il volto di Dio, perché Dio invisibile diventa visibile e presente solo attraverso i nostri gesti. Invece il sacerdote ed il levita, pii e puri, col loro comportamento tutto teso al soprannaturale, ad onorare la legge di Dio, che vogliono essere santi perché Dio è Santo, hanno messo in luce un’immagine sinistra di Dio. Tutti percepiscono che il sacerdote, la persona religiosa che si crede credente, in realtà sta togliendo la vita. Tutti si rendono conto che un impuro peccatore, il quale non pensa affatto di essere credente, assomiglia invece a Dio perché in lui tutti possono vedere la presenza di un Padre che ridona la vita, la garantisce, la cura. Essere da Dio, allora, dipende non dall’osservanza della Legge, ma dal bene che si fa agli altri[19].

A rinforzare questa tesi, c’è anche il racconto della parabola del figliol prodigo (Dio si comporta come il padre misericordioso), e noi – che ci riteniamo giusti perché abbiamo sempre obbedito al magistero e alle leggi divine,- ci troviamo improvvisamente ad essere paragonati al fratello maggiore che si arrabbia di brutto perché il papà (Dio) organizza una festa per quell’individuo che ha buttato via la sua vita[20]. Non vogliamo sederci vicino a quell’impuro peccatore. E non ci rendiamo conto che il vangelo ci sta dicendo che se alle nostre tavole, se nei nostri altari non c’è posto per gli ultimi, per i peccatori impuri, Gesù non si siede in mezzo a noi, anche se continuiamo a credere di essere gli unici suoi invitati.

Se la religione, cambiando finalmente registro e adeguandosi al Dio che ci presenta Gesù, ci facesse entrare in testa il concetto che Dio è veramente amore gratuito e null’altro, che quindi Dio ama allo stesso modo i buoni e i cattivi, i peccatori e i non peccatori, i meritevoli e i non meritevoli, i puri e gl’impuri, i bianchi e i neri, gli adulteri ed i monogami, l’eterosessuale e l’omosessuale, padre Pio e il terrorista che si fa esplodere nell’aeroporto ammazzando decine di altre persone (Dio fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti: Mt 5, 45), e gratuitamente offre a tutti redenzione e libertà,[21] quale sarebbe la reazione di tante persone pie e religiose di oggi? Si ripeterebbe quello che è avvenuto duemila anni fa.

Per prima cosa queste persone si meraviglierebbero. Esattamente lo stesso che è capitato alla casta sacerdotale quando Gesù entrò per la prima volta a predicare nel Tempio (Gv 7, 15): si meravigliarono. Non è strano che, quando si cerca di far vedere che Dio è amore gratuito ci si meravigli? Dovrebbe essere la cosa più ovvia sentir dire che Dio è amore, che Dio perdona tutti, che Dio vuol bene a tutti. No, per la religione non è mai stato così: si meravigliarono.

Poi, passato l’attimo di sorpresa, si scandalizzerebbero. Com’è che l’idea di un amore gratuito scandalizza? Perché tutta la tradizione religiosa ha da sempre presentato un Dio il cui amore si ottiene per i meriti, con tanta fatica e sacrifici, e quest’idea fa parte ormai del nostro DNA essendo stata accolta e insegnata anche a noi.

Eppure, a ben pensarci, è talmente innato in noi l’intuire che Dio è amore, che nessuno può essere felice nell’opprimere il prossimo, nel prevaricare i più deboli, nell’arricchirsi e nel tiranneggiare gli inferiori: si può forse godere in quel momento, ma non si può essere felici. Non si può pensare di imitare Dio con azioni del genere, del tutto contrarie al suo essere. Come è stato invece osservato all’inizio del cristianesimo, chi si fa carico prendendo su di sé il peso del prossimo[22] e in ciò in cui è superiore cerca di beneficare altri meno fortunati; chi dà ai bisognosi ciò che ha ricevuto da Dio diventa lui stesso come un dio per i beneficati, essendo egli stesso vero imitatore di Dio[23].

In definitiva, quale che sia il significato che ognuno attribuisce al termine Dio, credere a una certa immagine o non credere a quell’immagine è di per sé abbastanza indifferente. È come viviamo la vita ciò che importa, ricordandoci che Gesù ha detto «Misericordia io voglio, non sacrifici» (Mt 12, 7). Perciò non conta tanto quello che ci succede nella vita, ma come reagiamo a quello che ci succede.

 

 

 

 

 

 

NOTE

[1] Invece io non posso condividere l’idea di chi, ‘forgiato dall’idea che il mio Dio non è il Dio degli altri,’ è convinto che quest’apertura della Chiesa di papa Francesco sia manifesta apostasia (Langone C., Andiamo a messa, nonostante il Vaticano, “Il Giornale” 13.11.2020, 24).

[2] Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 130. Vedi, in punto Rivelazione, anche quanto detto alla risposta sub 1.

[3] È stato fatto notare come una creazione senza male manifesterebbe la bontà e la sapienza di Dio, ma non manifesterebbe pienamente la sua misericordia (Congar Y., Il problema del male, in “Dio, l’uomo e l’universo,” a cura di de Bivout de la Saudée. Ed. Marietti, Genova, 1952, 574).

[4] Sia chiaro: non è chiesto a nessuno di cambiare il mondo. Quello che viene chiesto a ciascuno di noi è seminare qualcosa di buono nel nostro ambiente, a cominciare dalla famiglia, nel posto di lavoro, magari nel nostro quartiere, magari allargando il cerchio e occupandoci di politica.

[5] Il Libro di Enoch è un testo apocrifo di origine giudaica che ci è pervenuto in 3 distinti testi, nessuno dei quali accolti negli attuali canoni biblici ebraico o cristiano (con l’eccezione della Bibbia della Chiesa Copta).

[6] Naturalmente il luogo del non-potere non è solo il deserto: pensiamo a don Milani, mandato d’ufficio a Barbiana, un luogo allora neanche indicato sulle carte geografiche, per togliersi dai piedi un prete disturbante. Ma mentre il Battista aveva scelto da solo il deserto, nel caso di don Milani era stato l’arcivescovo di Firenze a sceglierlo per il proprio presbitero.

[7]  Le vecchie traduzioni portano: “un battesimo di penitenza” ma la traduzione era errata, perché il vocabolo greco metanoia significa cambiar vita e non fare penitenza; però la traduzione errata ha dato luogo a un teologia che ancora oggi molti seguono, in cui la penitenza è essenziale. Visto che siamo tutti peccatori, era consequenziale allineare peccato-pentimento- penitenza.

[8] Benedetto XVI, La gioia della fede, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2012, 93.

[9] Mateos J. e Camacho F., Il Vangelo di Matteo, Cittadella, Assisi, 1995, 41.

[10] In effetti, a ben pensarci, un fuoco che castiga e distrugge non serve a niente e a nessuno. Un fuoco che fa cuocere il nostro cibo, che ci riscalda, è fratello-foco. Un uomo che si realizza distruggendo gli altri, anche se obbedisce ai legittimi pastori del suo credo, non serve a niente. Un uomo che si realizza per accendere il suo prossimo e comunicargli più vita, anche se disobbedisce al magistero, è un Uomo.

[11] Ravasi G., Il fuoco di Gesù, “Famiglia Cristiana”, n.10/2013, 121.

[12] Tettamanzi D., Il fuoco dell’amore, “Famiglia Cristiana”, n.33/2013, 13.

[13] Giovanni Paolo II, udienza generale del 1.7.1978, §6 in particolare. Ora se Gesù prega Dio chiamandolo papà si sente realmente suo Figlio (Boff L., Trinità e società, Cittadella, Assisi, 1992, 43). È vero, ma se questo dimostra sicuramente intimità non dimostra ancora la sua natura divina. Del resto anche noi preghiamo Dio come Padre Nostro, ma non per questo ci sentiamo di natura divina.

[14] Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, Borla, Roma, 2009, 348.

[15] Non ricordo chi abbia detto (credo sia stato Drewermann) che una Chiesa che distribuisce titoli onorifici a piccoli uomini malati, che fanno finta di essere umili, ma intimamente godono del riconoscimento mondano per il quale erano disposti a dare anche la vita, sono gli impiegati di una chiesa mondana che offusca il volto di Cristo e lo rende inavvicinabile. Molti capi usano il potere della carica per riempire il vuoto che hanno dentro di sé.

Sul perché, invece, non si poteva neanche pronunciare il nome di Dio vedi l’interessante incontro organizzato dalla Scuola della Cattedrale di Milano in https://www.calsuiana.it/gallery/video/#!videoGallery/0/ sul libro di Thomas Römer (docente di Antico Testamento all’Università di Losanna), L’invenzione di Dio, edito da Claudiana nel 2021. In estrema sintesi, il nome di Yhwh non ha un significato perché non è una parola, ma è sostanzialmente un’icona, un disegno che rimanda ad altro. Una consolidata ipotesi è che rimandi al geroglifico di Athon (costituito da un sole nascente sopra l’oceano, la terra e la piuma che segna la leggerezza della perfetta giustizia). Athon non è il sole, ma sta dietro al sole, irradia la sua luce sulla creazione con i suoi raggi, cioè la sua forza di vita si distribuisce su tutta la creazione. Dunque, questo Dio unico e invisibile, sta dietro al sole, alla vita e – nelle raffigurazioni egizie più tarde, - anche dietro l’incarnazione dei faraoni, ma non può essere direttamente rappresentato. Il Dio ebraico Adonai  è stato tratto dall’egiziano Athon, e nel libro si spiega storicamente questo collegamento. Nella Bibbia ci sono chiare tracce di un passaggio degli Ebrei dal politeismo al monoteismo.

[16] Olgiati F., Il sillabario del Cristianesimo, ed. Vita e Pensiero,  Milano, 1956, 74. Archetipo è il primo esemplare assoluto e autonomo. Nella definizione dell’Olgiati, archetipo sta per Dio.

[17] Verità e grazia (termini riportati in Gv 1, 14) significano appunto amore fedele (Ravasi G., La ricchezza del dono di Dio, “Famiglia Cristiana”, n.26/2013, 113).

[18] Sant’Agostino, De Trinitate, VIII, 8, 12, in www.documentacatholicaomnia.eu. (sotto Augustinus).

[19] Maggi A., Cos’è il  peccato, incontro in Assisi 2013, in www.studibiblici.it/multimedia/audioconferenze.

[20] Gallazzi S, Cap 14 e 15 il tavolo al quale ci sediamo o no: in https://www.youtube.com/watch?v=zkNl2EX0iMk&feature=youtu.be

[21] Schillebeeckx E., Per amore del Vangelo, Cittadella, Assisi, 1993, 188.

[22] Come diceva Gandhi, nessun uomo è inutile se allevia il peso di qualcun altro.                                                                       

[23] Lettera a Diogneto, X, 5-6.