The Rabbi is in... quel che resta dell’estate


di Miriam Camerini


Questa settimana sono iniziate le mie vacanze, dopo un mese di Yiddish Summer Weimar e un week-end in Lazio, dopo un mese di musica e un week-end di insegnamento e conduzione di preghiere dello Shabbat.

Sono partita per la Turchia senza averci pensato molto; una coppia di amici che vivono a Istanbul mi ha invitata, ho guardato il meteo: volevo solo il caldo e il sole, sono andata.

Staccare non è facile, la testa continua incessantemente a macinare, ne sento quasi il rumore.

Difficile fermarsi davvero, dopo tanti stimoli, emozioni, nozioni, impressioni, incontri. Stare, sostare, non fare. Fare, fare, fare: la lista delle cose che sarebbero ancora da fare è sempre lì, non dorme mai, non fa nemmeno un pisolino al sole, sopraffatta dalla canicola, sedotta dalla siesta, vinta dalla pennica, niente: io cerco di dormire, ma l’imperativo borghese veglia: “lavora!”, dice.

Le mail non conoscono Ferragosto: anche a metà mese, che pure era domenica, me ne sono arrivate. Forse le persone sono particolarmente accanite di lavoro perché non si sentono di viaggiare, scoraggiate dai test, confuse dai certificati, demotivate dalle quarantene, stancate dalle notizie: per noia, per inerzia, per consuetudine quest’anno non vanno in vacanza nemmeno ad agosto.

Un po’ il fatto è anche che molti si sentono come se l’intero anno fosse stato talmente straordinario da non meritarsi un’estate. Io discordo: alcune certezze devono rimanere, proprio perché il mondo è ribaltato, le ferie si fanno, perché - come ci diceva mia nonna, asserendo la necessità dei suoi e volendo i nostri tre mesi a Levanto - “... Guarda che poi l’inverno è lungo!”. Sacrosanto.

Sono arrivata a Istanbul domenica al tramonto: dalla Germania all’Italia alla Turchia qui ci si gioca più di un’ora di luce, in questa stagione, ma la brevità delle giornate è compensata dalla loro luce, dall’aria ancora estiva... Quando il sole c’è fa il suo lavoro, insomma.

Un paio di giorni a Istanbul come fossi tornata a Milano: caffè, parrucchiere, lavatrici, estetista, aperitivo, cena, film. Dopo giorni e giorni “selvaggi” un po’ di urbanità rimette in sesto. A metà settimana sono già pronta per nuove avventure: Lydia, un’amica di mia madre dei tempi di scuola e della facoltà di Medicina a Parma, ebrea turca vissuta un certo tempo in Italia e poi tornata a Istanbul, ha la sua “Levanto”, sulla più grande delle isole dei Principi: Büyükada. Ci ero già stata nel 2018, durante uno dei viaggi più belli della mia vita, da Weimar a Istanbul tutto in treno con Emma, la mia amica francese. In Turchia ci aveva raggiunte Elhanan, mio amico israeliano e giornalista, oltre che rabbino e islamologo - era lì per intervistare un leader di Hamas, tanto per dire - e tutti e tre avevamo trascorso un paio di giorni sull’isola di villeggiatura degli stambulioti, assistendo fra altre cose a un concerto di musica sefardita, ossia giudeo-spagnola nella sinagoga locale. Cantava anche la nipotina di Lydia, all’epoca bambina con occhi azzurri e aureola bionda da angelo quanto la voce. Quest’anno è ragazza: celebrerà infatti il suo bat-mitzvah, ossia la “maggiorità religiosa” in Svizzera, dove vive. Cogliamo l’occasione per studiare un poco assieme la sua parashà, il brano della Genesi che leggerà in autunno, quel Lech-lechà, “vai verso te stesso” che dà inizio alla storia dei monoteismi e forse a quella di ogni essere vivente: lasciare la casa, l’infanzia, la famiglia, il paese natìo...

Diventare stranieri, farsi altri per trovare sé stessi. Cantiamo assieme brani della liturgia dello Shabat, quel Lechà dodì “andiamo amato” (il verbo è sempre lo stesso: andare, camminare verso) che dà inizio allo Shabat, accogliendo “la sposa”, la sosta. Lo cantiamo nella melodia sefardita che io ho sentito una volta su un taxi alla radio in Israele e che invece lei sa da casa sua, questa casa che pare uscita da La Lingua salvata di Canetti, in cui si parlano francese, turco, inglese, ebraico, italiano e giudeo-spagnolo... Tutto mescolato. La nonna si commuove, per un momento mi pare di vedere la mia, di nonna, nella felicità della matriarca che in estate riunisce tutte le figlie e le nipoti nella comoda vecchia casa di vacanza: lì si ha il tempo di parlare mentre si cucina, a fine estate si prepara già la salsa di pomodoro per l’inverno, si lavano le scarpe da tennis (mie) tornate da viaggi all’altro capo del mondo coperte di fango, si sta assieme, si dorme a lungo, si fa colazione col pane di ieri abbrustolito, il caffè e il latte, si guarda che cosa danno all’unico cinema questa sera: se è all’aperto meglio portare un cardigan, oramai siamo a fine agosto, la sera tira vento.

Facciamo scorta d’estate e d’amore, perché poi l’inverno è lungo.

Foto di Paola Cazzaniga