The Rabbi is in


Le noci, i quaderni e i gatti

di Miriam Camerini

Me ne ricordo che sono già sull’aereo.

Che fare? L’unica sarebbe alzarmi in frettissima (impossibile durante il decollo, ovviamente)

Andare in bagno (non mi lasceranno mai), lavarli nel mini-lavandino, infilarmeli tutti uno a uno in bocca al volo (ahahaha, scusate il gioco di parole) masticare e deglutire prima che l’aereo si stacchi dalla pista. Troppo tardi: mentre ci penso stiamo già prendendo quota.

Con EasyJet, poi... ti sparano a vista, quelli, mica come una compagnia “vera”, dove almeno ti dicono: “Mi scusi, signora, il capitano chiede di tenere allacciate le cinture… etc etc”. Qua nei low-cost ti buttano giù dal finestrino se non ti comporti a modo. Hai pagato il volo 16 euro? E ora per favore fai come diciamo noi, grazie.

E quindi? Niente, e quindi sono riuscita a trasgredire anche questo, di precetto: ce ne voleva, eh? Bisogna impegnarsi. Però. L’ho fatto, senza neanche molto pensarci.

Sto trasportando, proprio ora mentre vi scrivo sul tavolino dell’aereo, verso l’Italia, una decina di pomodori cherry che ho nello zaino. Sono stati prodotti, coltivati, seminati, innaffiati, raccolti, cresciuti in terra d’Israele. Che male c’è? Nessuno, in generale, anzi: credo che Israele sia forte nell’esportazione di pomodorini cherry, da anni. Ecco, però appunto da anni, ma non tutti gli anni. Perché? Perché quest’anno è sabbatico, ossia proprio prescritto nella Torah (Levitico 25:1-7) un anno - il settimo - in cui in Israele è proibito coltivare la terra, raccoglierne i frutti, venderli e anche farli uscire dalla Terra. Mettersi in borsa una banana comprata a Beer-Sheva per mangiarla come spuntino durante una gita a Eilat o nel Sinai (entrambe non appartenenti alla Israele biblica) è proibito, per dire, per l’intero anno di “shmità”, che è iniziato appena un mese e mezzo fa. Ciò che cresce a Tel Aviv rimane a Tel Aviv, parafraserebbero alcuni, e in fondo anche Las Vegas è città dal nome composto.

Una luna piena stupenda e dorata splendeva questa sera mentre il treno, agli israeliani sembra ancora una cosa esotica, non la luna, quella la guardano da sempre: il treno intendo, si sentono in Svizzera, o sull’Orient Express... Il treno, dunque, correva rapido da Gerusalemme all’aeroporto. È il plenilunio, la metà del mese.

Sono arrivata poco più di due settimane fa, al capomese di Cheshvan, che a me fa sempre pensare... ai pensieri: Cheshvan. Non sono nemmeno certa (e non posso controllare ora, sempre perché sono in aereo) che si scriva con le stesse lettere (l’ebraico ha molte omofonie) ma il suono è uguale a “chashav”, pensare. È il mese che viene dopo il sole dell’estate, il raccoglimento, la tensione spirituale e il pentimento di Elul (una sorta di “quaresima”) e dopo il mese delle feste, del Capodanno, di Kippur, delle Capanne. È un po’ il gennaio dell’anno lunare: finite le feste, le vetrine, le cene, le luci. Un mese “normale”, senza interruzioni, dove la routine si può esprimere in tutta la sua efficienza. Infatti a me sono sempre piaciuti molto entrambi: Gennaio e Cheshvan, che corrisponde poi a Ottobre-Novembre, a seconda degli anni. Sono i mesi per pensare e per fare, per pensare alle cose da fare, quelle normali, quindi, come direbbe il mio psycho: STRA-ORDINARIE… Non so se avete capito, se volete vi faccio risparmiare 80 euro e ve lo rispiego io, gratis: stra-ordinarie, nel senso di molto ordinarie, che però sono anche le più speciali, a volte... Eh? Geniale.

E allora ecco a che cosa penso, in volo sopra la Grecia, dopo un’estate davvero intensa di incontri e viaggi e scoperte, dopo un inizio autunno di nostalgia e malinconia che mi hanno portata ad altri viaggi ancora pazzi e romantici e avventurosi, di una complicatezza che perfino una navigata navigatrice come me a un certo punto crolla, e infatti sono un po’ crollata, colpita dal nostro morbo preferito, ancorché in forma abbastanza leggera grazie ai vaccini e alla giovane età, forse. Penso che adesso ho un po’ voglia di tornare a casa, che oggi pomeriggio mentre vuotavo il frigo della casa a Gerusalemme ho trovato uno yogurt iniziato e un formaggio che non avrei finito e li ho portati a quella famiglia di gatti che avevo visto l’altra sera nella mia stessa via: una mamma giovane e bellissima e 7 cuccioli uno più tenero dell’altro, tre neri e quattro grigi tigrati, tutti affamati. Mi sono seduta lì al sole sul marciapiede e li ho nutriti uno a uno e sono rimasta a guardare che tutti avessero da mangiare e da bere e ho immaginato anche io di essere lì in quella famiglia, con la mamma che li leccava tutti dopo pranzo per ripulirli dallo yogurt nel vasetto del quale si erano infilati con metà corpo, da tanto che sono piccoli. Li ho invidiati un po’, quei gattini al sole con la mamma che li lavava, e ho guardato il più piccolo di tutti leccarla un po’ anche lui, la mamma, così per fare. Mentre ero lì sono passati: un giovane papà americano (su due zampe, questo) con passeggino e bambino a cui spiegava che io stavo dando da mangiare ai gatti e per quello lui aspettava a passare, per non farli scappare dal marciapiede, e una signora vecchissima, tutta piegata con un carretto per la spesa al seguito, che ha tirato fuori il cellulare e li ha fotografati tutti e sette più la mamma, uno per uno, perché “sua figlia ama molto i gatti”.

Ora, chiunque sia mai stato a Gerusalemme sa che di gatti lì ce n’è talmente tanti che non sono proprio una rarità da Safari, di quelle che ti fermi a fotografare per mostrarle ad amici e parenti, ma evidentemente oggi, in quel mio ultimo pomeriggio israeliano, in quel bel sole regalato di fine ottobre, c’era qualche cosa di un po’ magico, per qualche minuto, lì sul marciapiede dei gatti. Mentre loro facevano la pennica del dopo pranzo, io ho notato delle noci che erano cadute da un albero proprio lì, ma che nessuno raccoglie, sempre per il fatto dell’anno sabbatico, e mi sono ricordata che però a me - che non ne sono proprietaria - è permesso prenderne liberamente, pur col vincolo di consumarle in Israele, e allora ne ho portate a casa un po’, quelle che potevo mangiare prima di partire.

Sono stati pochi e brevi, questi miei giorni israeliani: sono arrivata da New York, via Montréal e Parigi, ammalata e inconsapevole, sviata da un test falsamente negativo. Entrando in casa, una casa chiusa da mesi, non ho sentito alcun odore, e lì ho capito che qualcosa non era giusto. L’indomani - ricevendo notizia del mio obbligo di isolamento - dentro di me ho gioito: ero troppo, troppo stanca per far altro che stare da sola qualche giorno. Sono stata accudita e coccolata da alcune amiche e amici via zoom, per messaggio, ma anche con i bei fiori che qualcuno mi ha fatto lasciare fuori dalla porta, con libri, vino, medicine e cibo. Un paio di intrepidi sono anche passati a trovarmi, quando già ero verso la guarigione: siamo stati seduti in cortile a bere birra e fumare sigari, come faceva Che Guevara durante gli attacchi d’asma, e ora non mi dite che da ragazzini non avete letto i Diari della Motocicletta.

Di venti giorni scarsi che avevo a disposizione in Israele, quindi, più di dieci li ho passati in quarantena e in parte anche a letto, ma non è stato male: avevo voglia e bisogno di riposare, parlare con amiche e amici che avevo perso di vista, tornare a organizzare con calma il mio lavoro per i prossimi mesi, stare con me stessa, scrivere, leggere e perfino guardare una serie TV. Sono stati giorni “sabbatici”, e ci volevano.

In aeroporto questa sera sono riuscita anche ad ascoltare la conferenza zoom trasmessa dalla Biblioteca Nazionale di Israele in occasione dell’acquisizione – da parte di questa – di 60 quaderni del misterioso onnisciente vagabondo Chouchani, maestro di Elie Wiesel, di Levinàs e di altri, e – si scopre ora – anche altrE.

“Chouchani, che è morto in Uruguay”, racconta Rina, la moglie di Shalom Rosenberg, professore di Pensiero ebraico all’Università di Gerusalemme, allievo e amico del sapiente clochard, “...Diceva che da un lato del mondo c’è una domanda, e che dall’altro lato del mondo... c’è anche un’altra domanda, che aspetta; Chouchani ha fatto questo tutta la vita: percorreva il mondo per raccogliere domande, ne sentiva l’eco da un capo all’altro della Terra”.

La Terra è protagonista del convegno di Biblia - associazione laica di cultura biblica -, per il quale sto tornando ora in Italia: “Coltivare la terra e mangiarne i frutti”, lo hanno intitolato, e io parteciperò riferendo delle norme ebraiche attorno al coltivare e al mangiare, al prendere e al lasciare, al consumare e allo sprecare, al riposare e far riposare, appunto.

Penso a Chouchani e penso ai gatti e alle noci della mia via e non è casuale che proprio questa sera in cui io me ne vado i quaderni del personaggio cui ho dedicato anni di studi e ricerche, sogni e pensieri, spettacoli e letture trovino finalmente, almeno loro, dopo decenni di esili, una casa. Saranno in Biblioteca, a Gerusalemme, per chiunque voglia salire il colle e tentare di decifrarli, scritti in 7 o 8 lingue, occupati a confrontare il calendario accadico con quello ebraico e con quello cristiano, impegnati a misurare il tempo per ingannare lo spazio, o a percorrere incessantemente il secondo per vincere il primo.



PS: mentre scrivevo, prima che l’aereo finisse di sorvolare la spiaggia di Tel-Aviv, sono in realtà riuscita a finire i pomodorini, anche grazie al mio vicino di posto cui ho spiegato l’urgenza della situazione.

Ero bella felice e sollevata, quando ho aperto lo sportello a fine volo per prendere la mia borsa a mano e ho trovato delle patatine fritte che mi avevano dato col panino alla partenza e non avevo mangiato. Mi arrendo: Cristoforo Colombo li ha portati di qua dall’Atlantico, io per sbaglio stasera ho fatto sorvolare loro il Mediterraneo. Amen.


Foto di Paola Cazzaniga