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Matteo Zuppi nel 2019 - foto tratta da commons.wikimedia.org (fonte: https://www.quirinale.it/elementi/42158)

“Il marito ideale di mia madre, forse di tutte”


di Stefano Sodaro


In un bellissimo articolo, che compare a p. 32 del numero odierno di “Repubblica” ed è intitolato Zuppi, il don Matteo di tutti, Concita De Gregorio scrive testualmente così: «È l’uomo ideale, don Matteo, per fare da allenatore di una squadra di calcio e l’amministratore di condominio, il giudice di pace e il mediatore, il capo di governo e il moderatore di dibattiti, la spalla e il primo attore, la trattativa per il rilascio di un ostaggio. Sarebbe stato – mi disse una volta al funerale di una celebre psicoanalista il figlio di lei, Zuppi celebrante – “il marito ideale di mia madre, forse di tutte”. Non se ne abbia a male, era la verità: essere ascoltati e “visti” è il massimo esercizio di seduzione, o di proselitismo. Un prete di strada alla guida della Cei è una rivoluzione, questa la sintesi.»

In un colpo solo sono così evocati temi assai cari al nostro Rodafà: quel “di tutti” che ci accompagna da qualche tempo – diciamo trasparentemente dall’incontro con la rabbi-in-training Miriam Camerini ed il suo “Shabbat di tutti” – e il cenno ad una nuzialità ben diversa dalla nuclearizzazione della coppia, esclaustrazione familiare che su queste righe viene, non tanto raramente in realtà, descritta come “onnigamìa”, riuscendo però l’eventuale didascalia esplicativa, di qualcosa che s’intuisce ma non si riesce a ben descrivere, a dire molto di meno dello strano termine neologistico.

Il nostro giornale ebbe modo di intervistare piuttosto a lungo il nuovo Presidente della CEI, al tempo – eravamo nei durissimi mesi del primo lockdown, anno 2020 – “solo” Arcivescovo di Bologna, questo il link di quell’incontro: https://www.youtube.com/watch?v=c1331Ue7_38

Tutti i Vescovi italiani riuniti in Assemblea Generale hanno ieri fornito al Papa tre nomi di possibili successori del Card. Gualtiero Bassetti ed il Papa ha fatto la sua scelta, quasi immediatamente, di certo non meravigliando alcun osservatore che facilmente coglie quanto siano prossimi, per sensibilità, tratto, acume e stile ecclesiale il Vescovo di Roma e quello di Bologna.

Qui però ci piacerebbe dare una chiave di lettura un po’ diversa dal semplice plauso generalizzato – ed a nostro avviso più che meritato – alla nomina, da cui si smarca solo l’onnipresente benaltrismo antagonista, di “destra” o di “sinistra”, ultra-tradizionalista od ultra-progressista.

Partiamo dalla storia, anche se recente.

La X Assemblea del Sinodo dei Vescovi, che si svolse dal 30 settembre al 27 ottobre 2001, fu incentrata su “Il Vescovo: Servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo” e nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores gregis[1] di Giovanni Paolo II si legge, al n. 63, con riferimento alla stessa istituzione delle Conferenze Episcopali: Queste assemblee di Vescovi sono oggi, come si esprimevano anche i Padri sinodali, un valido strumento per esprimere e portare a pratica attuazione lo spirito collegiale dei Vescovi. Per questo, le Conferenze episcopali sono da valorizzare ulteriormente in tutte le loro potenzialità. Esse, infatti, «si sono sviluppate notevolmente ed hanno assunto il ruolo di organo preferito dai Vescovi di una nazione o di un determinato territorio per lo scambio di vedute, per la consultazione reciproca e per la collaborazione a vantaggio del bene comune della Chiesa: “esse sono diventate in questi anni una realtà concreta, viva ed efficiente in tutte le parti del mondo”. La loro rilevanza appare dal contributo efficace che recano all'unità tra i Vescovi, e quindi all'unità della Chiesa, rivelandosi uno strumento assai valido per rinsaldare la comunione ecclesiale».

Poiché membri delle Conferenze episcopali sono solo i Vescovi e tutti quelli che nel diritto sono equiparati ai Vescovi diocesani, anche se non insigniti del carattere episcopale, il fondamento teologico di esse è, a differenza dei Concili particolari, immediatamente la dimensione collegiale della responsabilità del governo episcopale. Solo indirettamente lo è la comunione tra le Chiese.

Essendo, in ogni caso, le Conferenze episcopali un organo permanente che si riunisce periodicamente, la loro funzione sarà efficace se si porrà come ausiliaria rispetto a quella che i singoli Vescovi svolgono per diritto divino nella loro Chiesa. A livello di singola Chiesa, infatti, il Vescovo diocesano pasce nel nome del Signore il gregge a lui affidato come pastore proprio, ordinario e immediato e il suo agire è strettamente personale, non collegiale, anche se animato dallo spirito comunionale. A livello, quindi, di raggruppamenti di Chiese particolari per zone geografiche (nazione, regione, ecc.), i Vescovi ad esse preposti non esercitano congiuntamente la loro cura pastorale con atti collegiali pari a quelli del Collegio episcopale, il quale, come soggetto teologico è indivisibile. Per questo i Vescovi della stessa Conferenza episcopale riuniti in Assemblea esercitano congiuntamente per il bene dei loro fedeli, nei limiti delle competenze loro attribuite dal diritto o da un mandato delle Sede Apostolica, solo alcune delle funzioni che scaturiscono dal loro ministero pastorale (munus pastorale).

Se a tale documento si accosta poi il precedente Motu Proprio Apostolos suos[2], sempre di Giovanni Paolo II, datato 21 maggio 1998, “sulla natura teologica e giuridica delle Conferenze dei Vescovi”, l’impressione è di un requiem per il significato propriamente ecclesiologico del riunirsi dei vescovi (cattolici) di un determinato territorio corrispondente ad uno Stato.

I nn. 10 e 11 di Apostolos suos, infatti, dispongono a chiare lettere: La suprema potestà che il corpo dei Vescovi possiede su tutta la Chiesa non può essere da loro esercitata se non collegialmente, sia in modo solenne radunati nel Concilio ecumenico, sia sparsi per il mondo, purché il Romano Pontefice li chiami a un atto collegiale o almeno approvi o liberamente accetti la loro azione congiunta. In tali azioni collegiali i Vescovi esercitano un potere che è loro proprio per il bene dei loro fedeli e di tutta la Chiesa, e rispettando fedelmente il primato e la preminenza del Romano Pontefice, capo del Collegio episcopale, non vi agiscono tuttavia come suoi vicari o delegati. Vi appare con chiarezza che sono Vescovi della Chiesa cattolica, un bene per tutta la Chiesa, e come tali riconosciuti e rispettati da tutti i fedeli.

10. Una pari azione collegiale non si ha a livello di singole Chiese particolari e dei loro raggruppamenti da parte dei rispettivi Vescovi. A livello di singola Chiesa, il Vescovo diocesano pasce nel nome del Signore il gregge a lui affidato come Pastore proprio, ordinario e immediato ed il suo agire è strettamente personale, non collegiale, anche se animato dallo spirito comunionale. Egli inoltre, pur essendo insignito della pienezza del sacramento dell'Ordine, non vi esercita tuttavia la potestà suprema, la quale appartiene al Romano Pontefice e al Collegio episcopale come elementi propri della Chiesa universale, interiori ad ogni Chiesa particolare, affinché questa sia pienamente Chiesa, cioè presenza particolare della Chiesa universale con tutti i suoi elementi essenziali.

Probabilmente non è improprio scorgere in queste fonti magisteriali l’avvio di quella ingessatura che bloccò la CEI negli anni successivi, riducendo al lumicino – alquanto funereo appunto – le potenzialità profetiche di espressione di un Episcopato in un determinato e preciso contesto storico-sociale e geografico.

Beninteso, quei documenti sono ancora in vigore: nessun papa successivo li ha aboliti od anche solo derogati o innovati.

Ma il pontificato di Francesco – ormai ce ne siamo ben accorti – non passa attraverso le coerenze - spesso sofistiche più che sofisticate, bisogna ammetterlo - del diritto canonico, bensì percorre la “via pastorale”, che oggettivamente confligge con quella rigidità di visione ecclesiale che irrideva all’opzione pastorale quale “pastoralismo” deviante e deviato, quasi un aggiornamento ed una riproposizione della condannata “eresia dell’azione”[3].

Il Vescovo di Roma vede nel Vescovo di Bologna – alcuni lo hanno già notato - un “pastore francescano”, capace di guidare i Vescovi non a scapito della loro insopprimibile (dogmatica) identità singolare, ma molto più semplicemente lungo le strade della vicinanza alle nostre vite, di qualunque contenuto esse siano, drammatiche, liete, tragiche, disperate, credenti, laiche, dubbiose, odianti o amorose, laboriose o prive di qualunque sostentamento.

La morale sessuale ed il culto da assicurare ad ogni costo sono state un po’ le (quasi uniche) ossessioni della CEI di questi ultimi anni, dalla bocciatura “etica” del disegno di legge Zan al muro frontale eretto davanti alle disposizioni governative limitative degli accessi nelle chiese per ragioni di imprescindibile emergenza sanitaria. Ora speriamo che da lì ci si muova per aprire mente e spirito a ben altre esigenze, dettate dall’amore e non da astrazioni rispetto all’esistenza concreta di ogni persona, che è – per restare negli esempi – effettivamente vilipesa per il suo orientamento sessuale o malamente educata ad anteporre gli obblighi di culto anche alla vita degli altri (lo sbandieramento dei rosari e l’invocazione nello stesso tempo del blocco dei barconi nel Mediterraneo non sono racconti distopici, purtroppo).

Come scrive Concita De Gregorio, citata all’inizio, «avere una faccia come quella [di Zuppi] è un dono: è un volto che ride anche da serio, che pazienta e accoglie da fermo.».

Siamo, ahinoi, disabituati a volti normali di preti, vescovi e cardinali che siano persone normali. Cioè che siano capaci di celebrare quella liturgia del quotidiano che tanto ci sta a cuore e che può inventare mille forme e mille colori per festeggiare il matrimonio “di tutte” con la simpatia di un mai visto prima Presidente della CEI, nell’attesa di un matrimonio pure “di tutti” – uomini maschi – con una futura presidente di vescove.

Fantateologia? Chimere da cattolici irriducibili al pessimismo?

Chissà. Vedremo.

Auguri, Eminenza.



NOTE

[1]https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_20031016_pastores-gregis.html

[2]https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/motu_proprio/documents/hf_jp-ii_motu-proprio_22071998_apostolos-suos.html

[3] Cfr. Pio XII, Menti nostrae, Esortazione al Clero del mondo cattolico sulla santità della vita sacerdotale, 23 settembre 1950 (https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/apost_exhortations/documents/hf_p-xii_exh_19500923_menti-nostrae.html): Guardarsi dall’eresia dell’azione

Per queste ragioni, mentre diamo la dovuta lode a quanti, nel faticoso assetto di questo dopoguerra, spinti dall’amore verso Dio e dalla carità verso il prossimo, sotto la guida e seguendo l’esempio dei loro Vescovi, hanno consacrato tutte le loro forze a sollievo di tante miserie, non possiamo astenerci dall’esprimere la Nostra preoccupazione, e la Nostra ansietà per coloro i quali, per le speciali circostanze del momento, si sono ingolfati nel vortice dell’attività esteriore, così da negligere il principale dovere del Sacerdote, che è la santificazione propria. Abbiamo già detto in pubblico documento che devono essere richiamati a più retto sentire quanti presumono che si possa salvare il mondo attraverso quella che è stata giustamente chiamata “l’eresia dell’azione”: di quell'azione, che non ha le sue fondamenta nell'aiuto della grazia, e non si serve costantemente dei mezzi necessari al conseguimento della santità, dataci da Cristo. Allo stesso modo abbiamo però stimolato alle opere di ministero coloro che, chiusi in se stessi e quasi diffidenti della efficacia del divino aiuto, non si adoperano, secondo le proprie possibilità, a far penetrare lo spirito cristiano nella vita quotidiana, in tutte quelle forme che sono richieste dai nostri tempi.






Edizione Speciale - 25 maggio 2022