Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Libro dei Vangeli armeno realizzato a Isfahan - foto tratta da commons.wikimedia.org




I vangeli fanno paura


di Dario Culot

Davanti a questo Gesù sentiamo (senza renderci conto e forse senza sospettarlo) una resistenza talmente forte, che ci aggrappiamo in continuazione a cose inutili – se serve – pur di cercare e trovare argomenti per proteggerci dal suo Vangelo. Perché i dogmi e relative dottrine, imposti da un’autorità umana, prima sacralizzati da una sedicente rivelazione e poi venerati come dettati dal Divino, ci danno sicurezza, mentre il messaggio del Vangelo, confermato dalla coerente vita di Gesù, ci lascia talmente impreparati e spaesati che cerchiamo disperatamente motivi per fondare e organizzare religioni, riti, cerimonie, poteri sacri, norme vincolanti, verità e dogmi, pur di liberarci dalla tremenda ansia causata dal fatto di vederci da soli, uno di fronte all’altro, nel rapporto col Dio di Gesù, il quale ci chiede di focalizzarci sul rapporto con gli altri[1].

In effetti i vangeli trasmettono soprattutto un messaggio religioso che implica il sovvertimento dei valori.

In una società come quella romana, in cui il diritto di proprietà era garantito al massimo livello, tanto che i beni erano più importanti e più protetti della vita delle persone, è facile immaginare quale scombussolamento poteva portare l’atteggiamento di Gesù davanti al possesso dei beni e alla rinuncia al proprio onore, cioè i due valori fondamentali che definirono il cristianesimo primitivo, l’amore e la rinuncia allo status. Esattamente l’opposto di quanto predicava quella società, perché in definitiva, «Dio stesso realizza l’amore (senza intervento umano) amando i suoi nemici, i peccatori. Realizza l’umiltà avvicinandosi alle persone nella sua limitatezza e rinunciando allo status divino»[2]. Ovvio che i due valori fondamentali del cristianesimo primitivo, valori appresi dalla vita e dagli insegnamenti di Gesù, entravano direttamente in conflitto con i postulati basilari del Diritto e della cultura di Roma del I secolo. Gesù, con i suoi seguaci, stava minando non tanto il dominio imperiale in una lontana e piccola provincia del Medio Oriente, ma qualcosa di molto più fondamentale: i pilastri giuridici e culturali su cui poggiava la stabilità della società, cioè la proprietà dei beni e l’onore dei maggiorenti. E per di più presentava tutto questo come progetto di Dio, e non di un semplice e insolito galileo qual era l’uomo Gesù. La cosa più importante da ricordare è che, di fronte al principio giuridico romano il quale privilegiava il diritto ai propri beni più del diritto alla vita dell’altro, Gesù non smise di insistere che la prima cosa non è mantenere la proprietà dei beni, bensì rispettare gli altri, perfino quando sono nostri aggressori. Visto che Gesù rappresenta poi il modello di rinuncia alla propria condizione sociale (Mc 10, 45), esso emerge dai vangeli sinottici come un’immagine contraria e opposta all’oppressione esercitata dai sovrani del mondo (Mc 10, 41s.)[3]. Se a questo aggiungiamo il ruolo e la dignità che Gesù aveva dato alle donne, si capisce perfettamente che i criteri e i valori del Vangelo erano un pericolo serio per l’Impero. Ma il problema è che essi sono rimasti un pericolo ancora oggi.

Basta vedere come la Chiesa si è allontanata dal Vangelo, perché a sua volta è diventata una struttura di potere fondata su tre pilastri: il potere di Roma sul resto del mondo; il potere dei chierici sui laici; il potere degli uomini sulle donne. Dall’alto di queste colonne è difficile servire e non essere serviti.

Basta vedere come il ricco mondo occidentale (in teoria cristiano) si rapporta con l’immigrazione. Sia chiaro, l’immigrazione dei poveri, perché i ricchi stranieri sono bene accolti dappertutto. Diceva padre Balducci con quella sua voce tonante: uno che è ma non ha, non conta più nulla per noi. Abbiamo questo vizio strutturale, una deformazione antropologica radicata dentro di noi che ci rende da una parte, presuntuosi. Pensate appunto al nostro atteggiamento di fronte a queste moltitudini di colore che vengono in mezzo a noi, e noi pensiamo che, in fondo, il pezzente dà noia, disturba. Che sia un uomo lo si dice nelle prediche o nei trattati sociologici, ma per noi non lo è. Abbiamo una ripugnanza profonda per l'uomo che non ha. E poi, ancora oggi siamo portati naturalmente a pensare che un avvocato, un primario medico o un cardinale siano più affidabili, solo in virtù del loro status, di un calzolaio, di un minatore o di un falegname. Ma invece, stando al vangelo più antico, Gesù ha vissuto la sua gioventù proprio come semplice falegname (Mc 6, 3), e questo basso status aveva già disturbato le prime comunità: una professione così umile non poteva attagliarsi al Figlio di Dio, tanto che già in Matteo (Mt 13, 55) non si parla più del lavoro che faceva Gesù, ma solo che era figlio di un carpentiere.

I vangeli ci dicono che è possibile in ogni momento convertirsi e partecipare alla condivisione e alla redenzione del mondo. Ma questo ci fa paura. Il tempo passa e noi non ci decidiamo mai a collaborare con quello che ci viene presentato come il progetto di Dio. In realtà, credere veramente si manifesta solo attraverso una conversione, un cambiamento del proprio modo di essere[4], del proprio modo di vivere, perché la fede è un modo di vivere diverso. E allora, se non si aderisce all’offerta che Gesù fa nei vangeli, ai valori insiti nel suo messaggio, se non si collabora in concreto per realizzare un mondo migliore su questa terra (il Regno di Dio, già qui ed ora[5]), ma ci si limita a seguire alcuni riti e ad alcune vaghe ed astratte attestazioni di fede senza alcuna ricaduta nella dura vita quotidiana non si è affatto credenti, proprio come diceva l’abbé Pierre. Dovrebbe ormai essere chiaro che essere credenti (cattolici) non dipende da quello che si crede, da quello che si proclama, ma da quello che si fa agli altri. Non si è credenti perché si partecipa quotidianamente all’adorazione perpetua. Per Gesù credere può essere anche un gesto di “trasgressione”. L’emorroissa infatti “toccando” Gesù trasgredisce un precetto religioso, ma con ciò dimostra la sua fede in Gesù. Nell’episodio della guarigione del lebbroso Gesù si scaglia contro l’insegnamento religioso e dimostrerà seduta stante che lui non fa differenza tra puri e impuri, cioè tra giusti e peccatori. Gesù comunica vita indistintamente a tutti, e dimostra la falsità di una legge religiosa che veniva contrabbandata come volontà di Dio quando in realtà era l’esatto contrario: Gesù stende la mano – comportamento che nella Bibbia assumeva il valore di essere in procinto di distruggere[6] - ma anziché fulminare quell’infetto zozzone che aveva osato accostarsi a lui, il purissimo Santo di Dio, lo tocca e immediatamente lo purifica. E noi? Noi l’avremmo scansato adeguandoci più facilmente alla religione che insegnava che l’impuro infetta il puro. Così facendo ci sentiamo puri e degni di Dio. Gesù dimostra invece che è l’accoglienza di Dio ciò che rende pure le persone.

Sicuramente, coloro che si proclamano cristiani non possono limitarsi a formare una chiesa di fedeli passivi, dediti unicamente all’adempimento dei propri pretesi obblighi verso Dio, in attesa che Costui risolva tutti i problemi del mondo. Il Dio di Gesù si aspetta che ciascuno di noi si sporchi le mani collaborando nella costruzione del Regno[7]. “Ma sai, io sono stanco e ho già tanti problemi per conto mio”. Però Gesù insegna (Mc 6, 31ss.) che, anche se è arrivato il momento dell’agognato riposo, di fronte alle difficoltà degli altri bisogna continuare a spendersi.

In realtà noi continuiamo a fare orecchi da mercante davanti al Vangelo, mentre con più facilità ci limitiamo a dare il nostro assenso mentale a un insieme di verità insegnateci dal Catechismo. Infatti quest’adesione ci porta a star bene nelle strutture che abbiamo, in strutture patriarcali e pazienza se le donne, grandi protagoniste del vangelo di Gesù, trovano posto solo in alcuni rari documenti della Chiesa immediatamente archiviati, mantenendole così in una condizione priva di ogni potere che spetta interamente ai maschi. Non ci tocca il fatto che questi documenti ufficiali continuino a chiedere obbedienza e sottomissione all’autorità, anche se l’Apocalisse – che pur fa parte del canone,- propende, a differenza di Paolo, per l’opposizione all’autorità che esercita il potere[8].

Poi, le relazioni umane che siamo invitati a coltivare dovrebbero essere generose; devono tendere ad aiutare gli altri, devono continuamente spingerci a perdonare gli altri. Ricordate cosa aveva detto Gesù? Se non credete a quello che dico, credete nelle mie opere, nel mio modo di vivere. Nella misura in cui seguiamo il modo di vivere di Gesù quando ci relazioniamo con gli altri, lì possiamo incontrare Dio. È opportuno ricordare che nel vangelo di Giovanni, al posto dell’eucaristia c’è la lavanda dei piedi e il comandamento nuovo: mettetevi al servizio degli altri e amatevi come io vi ho amato. E in questo comandamento Dio non c’è più: sparisce. Quindi Dio non lo incontriamo direttamente nel culto, ma nelle relazioni con gli altri. Tant’è che, come ha detto se ben ricordo Bonhoeffer, il termine cristianesimo può riassumersi in impegno per gli altri.

Guardando alla nostra società, sembra che la strada sia ancora lunga per riuscire a umanizzare la religione, la teologia, la Chiesa. Perché, lo si ripete, Dio lo incontriamo nelle relazioni con gli altri, non nel cercar di sollevarci verso il cielo, non nel rinchiuderci nel nostro bozzolo lodando e pregando Dio.

Riusciremo, in questo mese agosto, a fare almeno un piccolo passo in questa direzione indicata dai vangeli?



NOTE


[1] Castillo J.M., Teología popular, II, Desclée De Brouwer, Bilbao, 2013, 116.

[2] Theissen G., La religión de los primeros cristianos, Sígueme, Salamanca 2002, 105.

[3] Theissen G., El movimiento de Jesús, Sígueme, Salamanca, 2005, 310.

[4] Così lo stesso papa Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 80.

[5] La fede in Dio diventa un fantasma se l'uomo – anziché percepire che Dio è visibile nella realtà del suo qui ed ora – si consola pensando che Dio è da qualche altra parte e che la sua presenza si farà vedere in futuro (Bultmann R., Gesù, ed. Querinaiana. Brescia, 1975, 229).

[6] Es 14, 26-28: «Jahvé disse a Mosè: stendi la mano sul mare: le acque ritorneranno sugli Egiziani…Mosè stese la mano sul mare, e il mare ritornò al suo livello consueto…Jahvè li precipitò così nel mezzo del mare…non ne scampò neppure uno»; vedasi anche Es 3, 20 per le piaghe d’Egitto.

[7] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 287.

[8] In netto contrasto con Paolo che vede l’autorità terrena positivamente come stabilita da Dio, anche l’ultimo testo canonico, l’Apocalisse (in particolare Ap 17, ma anche 19, 20), vede l’autorità terrena negativamente: la bestia è il simbolo del potere tout court, all’epoca incarnato da Roma (la prostituta); ma anche questa grande città che ora domina su tutti i re, sarebbe stata presto sostituita dai dieci re, perché la bestia si serve ora di un’istituzione ora di un’altra, rivendicando sempre per sé il potere.