Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano
I care about you, America
di Stefano Sodaro
Mentre in Italia scende la sera sulla giornata dell’Epifania, “che tutte le feste si porta via”, i telegiornali cominciano a trasmettere – intorno alle 20 del 6 gennaio scorso – immagini da raccapriccio di un assedio al Parlamento degli Stati Uniti d’America con parvenze di violento colpo di Stato.
La prima domanda che può sorgere – e che però in verità non è sorta – è che cosa possa avere a che fare la storia delle istituzioni statunitensi con le nostre vite quotidiane, come se avessimo assistito alla proiezione di un film innocuo, dal momento che le esperienze video, a motivo dell’ancora permanente pandemia, sembrano pressoché le uniche possibili, non consentendo quasi più di distinguere tra finzione scenica e dolorosa o gioiosa realtà.
La discussione si è molto incentrata, nelle ore successive, sul vilipendio dei simboli della democrazia, cui la nostra vita civile sarebbe in qualche modo tributaria. Ed è certamente vero che il disprezzo e lo sfregio del “sacramento del potere” – come si intitola un famoso volume di Paolo Prodi (https://www.mulino.it/isbn/9788815271549) – mettono in crisi quegli assetti di consenso e di riconoscimento politico, prettamente storici, che strutturano gli ambiti di vita in cui ogni giorno operiamo. Sebbene esistano opinioni contrarie, peraltro molto diffuse e molto à la page, che invece rimandano ad un naturalismo quasi biologico della vita politica (come ad esempio le posizioni del filosofo Giovanni Leghissa, che - si può ascoltare al riguardo la sua lezione su Hans Blumenberg riportata al link youtube https://www.youtube.com/watch?v=aQVPdiGDhsM - teorizza la necessità di una lotta dell’Illuminismo contro il mito e descrive i Moderni come costruttori di un sapere sulla Storia che li rende diversi da qualunque credente, che, a dire di Leghissa, interpreta la Storia quale parentesi temporale tra l’opera della creazione e l’opera della gloria, la parusía, l’éschaton [“la fine dei tempi in sostanza”, così spiega testualmente], al contrario della visione di Carl Schmitt, che vedrebbe invece nella modernità “nient’altro che un’eresia cristiana”, frutto di un processo di secolarizzazione. Da ciò deriverebbe, da un lato, la necessità di raccomandare comunque dismissione dell’orrore mitico per il mito, ma, dall’altro, proprio il mito è descritto quale “narrazione che permette di non farsi domande scomode”, a scapito della solitudine, della finitudine antropologica degli individui, fino all’osservazione che «anche nei sistemi democratici vigono quegli “arcana imperii” che permettono di gestire il potere dietro le quinte»).
E tuttavia forse è possibile qualche diversa considerazione, non intricata da mitopoiesi, ed aderente piuttosto alla concretezza effettiva - non solo avente de relato implicazioni politiche - del nostro vivere.
Una retorica ammantata spesso di panni religiosi “puri”, o laicamente religiosi – sembra un ossimoro, ma non lo è, il fenomeno degli “atei devoti” lo attesta -, ha confezionato stereotipi concettuali che hanno comportato sconti assai consistenti sulla complessità, sulla criticità, sulla pluriformità dell’analisi e della comprensione del nostro esistere.
In altri termini: non è lo sciamano urlante con viso dipinto a stelle e strisce e corna in testa il problema su cui interrogarsi, bensì chi in giacca e cravatta – come pure ha sottolineato qualche acuto osservatore – ha alimentato e continua a nutrire una sottocultura molto particolare e precisa, la quale, teorizzandone la convenienza politica, l’efficacia in chiave di potere, ha espunto dalla comune quotidianità di ognuna ed ognuno di noi la fatica della domanda sul senso, molto destabilizzante, per precipitarsi il più in fretta possibile a sfornare riposte pronte all’uso prive di domanda previa, anzi capaci di anticipare qualunque domanda in nome di una presunta “libertà di non pensare”. Non è affatto il mito “la narrazione che permette di non farsi domande scomode”, bensì lo sberleffo nei suoi confronti condotto in nome di un razionalismo del tutto asfittico ed innamorato di se stesso. Un razionalismo inesistente perché incapace di dar parola alla domanda di senso del nostro vivere. Il contrario, dunque, di una razionalità che sia capace di ascoltare cuore pensanti.
La religione si confronta con il potere e lo può assecondare, giustificare, addirittura fondare, ma lo può anche esaminare, passare al setaccio della coscienza, vagliare, porre sotto giudizio e, appunto, criticare sino a contestarlo. In realtà – molto diversamente dalla ricostruzione filosofica di cui sopra – la religione è continua interrogazione, nella consapevolezza dell’inesauribilità del reale.
La folla che, senza apparente contrasto massivo di forze dell’ordine, ha fatto irruzione a Capitol Hill ha drammaticamente, grottescamente, rozzamente esibito l’esito ultimo delle scorciatoie del pensiero.
Spaccare i vetri del Parlamento, sedersi sugli scranni dei rappresentanti eletti dai cittadini, sbandierare le insegne degli Stati secessionisti, affermare che la realtà dev’essere ad ogni costo contraria al dato effettivo, oggettivo, di una vittoria presidenziale di persona diversa da Donald Trump e per questo sgradita non ha a che fare con i miti, ha a che fare con una meticolosa preparazione, razionalissima, di coerenze politico-culturali che consolidino e consacrino per sempre l’analfabetismo critico, emergente dai vari complottismi, negazionismi, anti-emergenzialismi sanitari, suprematismi, razzismi, antisemitismi, islamofobie e omofobie di ogni foggia e misura.
La folla che staziona sulle gradinate del Campidoglio a Washington esibisce i muscoli del narcisismo eretto a sistema di non-pensiero, manifesta il trionfo dell’egoismo assurto a celebrazione perfetta dell’individualismo.
Questo fine settimana segna l’avvio del nuovo anno della Scuola di filosofia di Trieste (https://www.scuolafilosofia.it/), fondata da Pier Aldo Rovatti, dedicato – in questo 2021 –alla figura, alla testimonianza, al pensiero ed alle pratiche di Franco Basaglia.
“La filosofia può curare?”, si chiedeva Rovatti anni fa in una sua pubblicazione (http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/p-aldo-rovatti/la-filosofia-puo-curare-9788860300409-1100.html).
Mai come oggi abbiamo bisogno di quella “cultura della cura” cui ha voluto intitolare il suo messaggio per il 1° gennaio persino il Papa (http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/peace/documents/papa-francesco_20201208_messaggio-54giornatamondiale-pace2021.html).
Dove sono questi luoghi di cura, auspicabilmente diversi dai pur indispensabili ospedali e istituti medici? Chi è abilitato a promuovere una simile “cultura della cura” che contrasti continuamente la deriva dell’abolizione del pensiero?
Ognuna ed ognuno ha i propri percorsi, dentro la propria storia.
Qui, da queste righe, ci permettiamo di segnalare l’esistenza di un’associazione culturale con sede a Trieste – ma che si vorrebbe diffondere, “dissipare”, ovunque se ne avvertano necessità e possibilità – che si chiama Casa Alta e che da pochi giorni dispone di un proprio sito rinnovato e aggiornato: https://sites.google.com/view/associazionecasaalta.
All’art. 3 del suo Statuto si legge che costituisce attività propria di tale associazione, tra le altre:
- proporsi come luogo di incontro e di aggregazione nel nome di interessi culturali assolvendo alla funzione sociale di maturazione e crescita umana e civile, attraverso l’ideale dell’educazione permanente;
- suscitare attenzione e coinvolgimento in programmi di cittadinanza attiva e di sensibilizzazione ed educazione alla cittadinanza globale, nel rispetto della natura apartitica e apolitica dell’Associazione;
- porsi come punto di riferimento per quanti possano trovare, nelle varie sfaccettature ed espressioni della lettura, della scrittura creativa e del confronto culturale aperto, un sollievo al proprio disagio.
È un tentativo, libero e laico, di fare nostra la complessità di ciò che siamo, scongiurando culturalmente, così, ogni altro assalto alle sedi parlamentari dove si realizza la nostra democrazia.
Ci proviamo, ci crediamo.
Buona domenica.
Stefano Sodaro