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Lavanda dei piedi - Beato Angelico - Armadio degli argenti, Firenze - immagine tratta da commons.wikimedia.org


Gesù non escluse nessuno

La preferenza di Dio per gli emarginati e gli infra-privilegiati


di Dario Culot




Quando parliamo di Dio stiamo ovviamente usando parole sempre insufficienti per cercar di spiegare qualcosa che s’intravede quando ci si trova sulla soglia della Trascendenza. Ma siccome della Trascendenza non possiamo conoscere quasi nulla, non possiamo descrivere l’essenza divina, per cui di Dio possiamo conoscere solo la sua manifestazione visibile e tangibile; e – appunto come dice Paolo - Dio si è fatto conoscere in forma di servitore nell’uomo Gesù, che ci ha così spiegato qualcosa del Trascendente[1]. Quello che possiamo dire è che, per farsi conoscere, Dio ha rinunciato definitivamente ad ogni grandezza, ad ogni maestà, e soprattutto ad ogni espressione di potere e di ricchezza. Invece noi, abitati da spiriti impuri, ancora dopo duemila anni pensiamo di capire chi è Dio partendo dai concetti di potere e regalità, per cui inneggiamo a un Dio onnipotente e a Cristo Re, stravolgendo il vangelo. Accettiamo cioè più volentieri un Gesù nato in una reggia che in una stalla; un Gesù che esercita un potere regale piuttosto che comportarsi da servitore. Un Dio servitore proprio non ci va giù. Come Pietro che non voleva farsi lavare i piedi da Gesù, avendo ben capito che a quel punto anche a lui veniva richiesto di comportarsi da servo, anche noi preferiamo essere padroni con privilegi e poteri, e riteniamo umiliante il servizio. Invece il Dio di Gesù si incontra solo in ciò che può rappresentare un servo, e quindi siamo anche davanti alla totale rinuncia ad ogni condizione sacra, che di per sé sola porta molti privilegi ma è di fatto incompatibile con lo status di servo. Altro che “eminenza, eccellenza”,[2] termini che chiaramente si ricollegano a un potere che non sa rinunciare a sé stesso. Ed è per questo motivo che si può affermare che il centro del cristianesimo non è il divino (sinonimo di superiorità), ma l’umano (sinonimo di inferiorità). Il Dio di Gesù, prendendo forma umana in Gesù, ci sta dicendo che, più le persone sono umane, più si incontrano con il divino nella loro esistenza; mentre più le persone sono disumane, più si adornano di titoli, più hanno potere sugli altri, e più si allontanano da Dio[3]. Il Verbo si è fatto carne (Gv 1, 14) significa allora che, a un certo punto della storia, Dio (il Verbo) ha assunto una materia e una forma[4] concreta, la consistenza e la forma dei gesti compiuti da Gesù, che hanno incarnato l’amore di Dio per l’umanità[5]. Non solo; se la divinità trascendente inconoscibile si è umanizzata (l’umano-immanente è l’unico ambito alla nostra portata, mentre non possiamo entrare in comunicazione col trascendente) questo significa che, al di fuori di ciò che è umano, non è possibile fare esperienza di Dio, perché dovremmo entrare nella trascendenza. E visto che l’umanità manifestata da Gesù è quella del servo, l’esperienza di Dio si fa relazionandoci con quello che è il più basso livello dell’umanità.

Dio, inaccessibile all’uomo, è stato Lui ad entrare nell’ambito dell’immanenza. Dio si è potuto rivelare all’essere umano attraverso l’incarnazione, umanizzandosi, manifestandosi in un uomo come noi. Dio si è fatto vedere e conoscere umanizzandosi (questa è l’“incarnazione”). Se Dio è il Trascendente, e il trascendente è ciò che l’umano (che vive nell’ambito immanente) non può conoscere, è chiaro che Dio non aveva altro modo per farsi conoscere: l’invisibile trascendente ha rotto lo schermo insuperabile dell’incomunicabilità fra i due ambiti, facendosi immanente in un uomo visibile, nato in povertà (in una mangiatoia) e morto ancor peggio (in croce). Il divino si è manifestato nell’umano, anzi nella forma più bassa dell’umano: il servitore.

Infatti, fin dal primo momento Gesù non nasce da una dinastia di nobile sangue blu, ma da Giuseppe e Maria, una coppia di umili origini, in un villaggio emarginato. Allora già il semplice annuncio del Natale è che c'è più santità in un bambino nato in una capanna, in una bidonville, in un accampamento di zingari che in tutte le cattedrali della terra. Se il Natale non riesce a inculcarci neanche questo messaggio tutto già perde senso.

E poi, fra il momento iniziale e finale, Gesù ha fatto vedere molte cose (di cui stranamente non c’è traccia nel Credo), manifestando come si comportava Dio. E questo l’ha fatto in maniera così sconcertante, che perfino dei personaggi pii e santi come Giovanni Battista sono rimasti destabilizzati, visto che non ci sono minacce o condanne, ma solo ascolto, misericordia e lotta contro la sofferenza delle persone (Mt 11, 2-6; cfr. Is 26, 19). Con una simile vita Gesù ci ha mostrato visibilmente come si comporta Dio. Ecco perché si può dire che Gesù è l’immagine di Dio (Col 1, 15).

Gesù ha scelto di non utilizzare neanche il nome di «Dio» per designare la divinità, e ha preferito sostituirlo con la parola Padre. Vuol dire che Gesù vedeva Dio, pensava a Dio e aveva un concetto di Dio che differiva in maniera rimarchevole dall’idea che il giudaismo del tempo (e ancora noi oggi) abbiamo di Dio.

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (14,23). Qui viene innanzitutto chiaramente superato il dualismo Dio/uomo insegnatoci dalla religione. Non bisogna alzare le mani al cielo in preghiera (e dire: “O Gesù quanto ti amo!”), ma per testimoniare che Dio è in noi, occorre usarle per essere solidali con il prossimo (osservando la sua parola si dimostra di amarlo).

Poi, il Padre di cui parla Gesù resta delineato in maniera stupefacente nella parabola del figlio perduto (il figliol prodigo) (Lc 15, 11-32). Il Padre, che ci fa conoscere Gesù, non si caratterizza per il potere, per una pretesa di obbedienza, e soprattutto non fa differenze fra le persone. Non chiede che la gente si sottometta a Lui, bensì che rassomigli a Lui. In altre parole, “comportati come si comporta il Dio di Gesù e diventerai vero uomo”. Perché non nasciamo automaticamente come veri uomini o donne; lo diventiamo. È perciò evidente che Gesù ha fatto ben capire che il «Padre» di cui stava parlando, non era il «padre autoritario», che proibisce, censura e traumatizza, bensì il «padre buono» che sta sempre a incoraggiare il figlio ed è accogliente e comprensivo, sia quale che sia la condotta di questo figlio[6].

Bruno Mori,[7] a mio avviso, descrive molto bene questa novità portata da Gesù: quello di Gesù era un messaggio che offriva a tutti la promessa e la possibilità di una miglior realizzazione personale; la prospettiva di un mondo totalmente diverso dal solito; il sogno di una società animata da altri principi, altre priorità, altri valori e dove tutti, d’ora in poi, avrebbero potuto abitare insieme come fratelli nell’uguaglianza, nel rispetto reciproco, nella giustizia; in questa comunità tutti avrebbero trovato il loro posto e il pieno riconoscimento della loro dignità. Era un messaggio che aveva il sapore di una buona notizia, soprattutto per i poveri, gli oppressi e i perduti della terra. Era un messaggio che rivelava un altro Dio, un altro modo di relazionarsi con Lui, un altro modo di essere umani. In questo nuovo mondo sognato da Gesù, l’unica energia che faceva funzionare tutto era esclusivamente quella dell’amore che induce a trattare tutti come fratelli. O come è stato detto da altri, il cristianesimo dovrebbe essere un patto di alleanza di Dio con l’intera comunità degli uomini, fondato sopra un’offerta di amore, unica e irripetibile[8].

Proprio partendo da questa profonda e avvincente esperienza spirituale e personale di Gesù, i suoi discepoli han cominciato a sentire, a pensare e infine a convincersi che tutto questo era troppo nuovo, troppo originale, troppo bello, troppo meraviglioso per venire da un uomo comune. E che forse in quest’uomo il cielo era sceso a toccare la terra, e lo Spirito di Dio abitava in lui e parlava attraverso di lui.

Ormai ho detto più volte che la religione non ha diritto di escludere nessuno perché – se tutti indistintamente sono fratelli - bisogna somigliare a Gesù che non ha escluso nessuno. Si potrebbe obiettare che, quando Gesù ha inviato i suoi discepoli a predicare, ha ordinato loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; piuttosto rivolgetevi alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10, 5-6; cfr. 15, 24). Se Gesù ha dato queste imposizioni di non frequentare i pagani e di non entrare nelle città dei samaritani (Lc 9, 51-56; 10, 30-35; Gv 4), va aggiunto però che è stato il primo a non osservare queste proibizioni.

Ad esempio, tutte le volte che Gesù propone ai discepoli: “andiamo nell’altra riva,” l’altra riva indica la riva destra del lago di Galilea, cioè territorio pagano, ogni volta si scatena una tempesta. Cos’è questa tempesta? La tempesta è il cattivo spirito dei discepoli che non ne vogliono sapere di andare dai pagani. Del resto Pietro stesso, in Atti 10,28, ha ricordato questo precetto razzista, dicendo: “voi sapete che non è lecito per un giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza”[9]. Il ricordo si collega probabilmente al fatto che le prime comunità cristiane facevano fatica ad aprirsi a tutti gli altri (e non è che oggi sia cambiato molto: non viviamo ancora un cristianesimo di appartenenza, di identità; ci sentiamo superiori e ci distinguiamo dai fedeli delle altre religioni, e tutto questo nulla ha a che vedere con un cristianesimo di esperienza).

Fondamentale, per capire questo, è la parabola del buon samaritano (Lc 10, 30-35), il quale viene indicato come modello di credente pur non essendo convertito alla vera religione. E lo stesso Gesù, quando cura i dieci lebbrosi (Lc 17, 11-19), non si limita a curare i giudei osservanti, ma cura anche un eretico samaritano. E se neanche la samaritana al pozzo (Gv 4, 1ss.) avrebbe dovuto far parte delle ‘pecore perdute d’Israele’, come mai Gesù se ne prende cura? E ancora, quando Giacomo e Giovanni invocano i fulmini divini sul villaggio samaritano che li ha respinti, Gesù non solo rigetta simile proposta, ma in più «rimprovera» e riprende severamente quei due discepoli (Lc 9, 55). È chiaro che Gesù non era disposto a tollerare scontri fra genti di diverse credenze religiose, cosa che invece i cattolici odierni tutti d’un pezzo sono ben disposti a sostenere. Dobbiamo dedurre che se Gesù ha sempre accolto le persone che avevano altre credenze e osservavano altre pratiche rituali sacre, a volte indicandole perfino come modello di fede[10] o come esempio da imitare, si può escludere che abbia fatto delle preferenze in base alla religione. Questo è ancor più vero se solo si pensa al fatto che mai Gesù ha preteso che qualche persona modificasse le proprie convinzioni religiose, le sue credenze precedenti o le sue pratiche rituali o cerimoniali. Dovrebbe colpire il fatto che nei vangeli ci sono perfino casi in cui Gesù antepone il comportamento delle persone di altre credenze a quello che era il modo abituale di procedere da parte della gente dell’unica religione rivelata, la religione del popolo che si considerava eletto, del popolo d’Israele.

Ed è stato proprio a causa di questo comportamento aperto e accogliente, dove nessuno si sentiva giudicato, che genti di altri paesi, di altra cultura e religione si sono sentite attratte da ciò che Gesù insegnava e faceva: ecco l’universalità del suo insegnamento. La religione di Gesù era per tutti e poteva essere accettata da tutti, per quanto ogni persona fosse stata educata in una religione diversa dal giudaismo[11]. La liberazione della vita che Gesù ha apportato col suo comportamento, opera esattamente allo stesso modo fra i pagani e fra i credenti israeliti.

Ecco perché si può affermare che per Gesù non esistono le differenze religiose. Siamo lontani mille miglia dal dogma Extra ecclesiam nulla salus (non c’è salvezza al di fuori della nostra religione), con cui la Chiesa cattolica ci ha indottrinato per anni[12].

Se c’è una preferenza, è per i diseredati e gli emarginati. Non solo il suo motto era ‘sono venuto per servire e non per essere servito’ (Mc 10, 45), ma pensiamo già alla nascita di Gesù, che viene annunciata non nei palazzi reali, ma fra i pastori reietti: “Oggi è nato per voi un salvatore, per voi pastori che siete gli ultimi” (Lc 2, 10). Perché Dio viene per gli ultimi, per i perdenti; prende Lui l’iniziativa a va a cercarli, e dopo averli trovati invia da loro gli angeli a illuminarli e riempirli di gioia.

E alla fine dei tempi cosa succederà? Lo trovate scritto di nuovo nel vangelo: il Signore ci chiederà se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell’affamato, nello straniero, nell’anziano abbandonato, nel parente scomodo. Non ci chiederà se siamo andati a messa, anche se ancora oggi la pratica regolare religiosa, non più diffusa come in passato, viene invece presa come unico indice per affermare che la società è ormai secolarizzata. Il giudizio sarà tutto su ciò che avremo fatto agli altri, e sul cuore con cui lo avremo fatto (Mt 25, 31ss.)[13].

Per far capire che i preferiti sono coloro che si trovano ai margini della società, nei vangeli c’è un capovolgimento della scala dei valori cui siamo abituati: gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi (Mc 10, 31); chi vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti (Mc 9, 35); se sei invitato non metterti al primo posto, ma all’ultimo (Lc 14, 8ss.); Dio rovescerà i potenti dai troni (Lc 1, 51ss.).  Ricordiamoci poi che i piccoli, i microi dei vangeli (come Mt 18, 6; Mc 9, 42) non sono tanto i bambini, quanto gli ultimi, coloro che si trovano dalla parte opposta di ogni grandezza, appunto gli infra-privilegiati[14].

Capite bene che questo Gesù è stato presto ammazzato perché teneva una «condotta deviata», cioè un comportamento che rompeva con i valori dominanti del suo tempo, e chi è al potere e domina non può accettare questo capovolgimento, a meno che non si converta.

Ma allora cosa unisce tutti gli uomini se Gesù – immagine di Dio - alla fine preferisce gli ultimi? Siamo tutti uniti dall’unica cosa nella quale tutti siamo uguali: la nostra «umanità». Per questo, quello che conta veramente è che ogni giorno diventiamo più profondamente umani, perché il primo che «si è umanizzato» è stato Dio stesso nell’incarnarsi, cioè nell’«umanizzarsi». Dio, nell’incarnarsi nell’uomo Gesù di Nazareth, si è fuso e confuso con l’umano fino al punto da essere presente e identificato con tutto ciò che è veramente umano, col sensibile, con quello che vediamo, sentiamo, avvertiamo in modo palpabile e tocchiamo (1Gv 1, 1). Per questo, Dio sta in chi ha fame, in chi ha sete, nell’ammalato[15] e nello straniero, nel prigioniero, nell’infelice e nell’escluso (Mt 25, 34-40)[16]. Ed è vero cristiano solo chi si dà da fare per migliore le condizioni di quanti stanno peggio di lui.

Non facendo differenze in astratto[17] Gesù riconosce anche che ci sono tanti modi per credere, e non gl’importa se non tutti chiamavano l’Assoluto con lo stesso nome[18]. Dio si identifica dunque con gli uomini tutti, non con la Chiesa e il suo sacro magistero, e pensare di amare Dio senza amare l’uomo che incrociamo sulla nostra strada è vano. Di più: se non si pensa all’uomo, si pensa a Dio sicuramente sbagliando. Noi non abbiamo conosciuto Dio, ma senza saperlo lo abbiamo incontrato in quel tipo di persone, le più emarginate, per cui non possiamo allontanarle e guardarle da lontano con indifferenza. La fede cristiana ha il suo centro nell'Incarnazione. Dio si è fatto uomo e questo Dio manifestatosi nell’uomo Gesù sposa totalmente la causa dell'Uomo, cioè sta sempre con l'Uomo, ogni uomo. La stessa Verità è la persona umana, e dobbiamo cercarla lì. Un Dio che si è fatto uomo chiederà poi conto agli uomini solo del loro comportamento verso i propri simili (come appunto visto in Mt 25); non chiederà invece se abbiamo creduto a dogmi, dottrine o altre verità insegnate dal magistero, o se abbiamo seguito nella nostra vita il diritto naturale di cui tanto ci parla il magistero.

Non è vero, allora che – come lamentano i tradizionalisti - i valori morali, fondati sulla legge divina, oggi sono sostituiti da disvalori culturali, incapaci di chiamare il peccato col proprio nome. Stando al Vangelo, è ferendo l’uomo che offendiamo Dio e pecchiamo[19]. Se si persegue il bene dell’Uomo si resta all’interno del cristianesimo, perché con l’unico comandamento lasciatoci Gesù non vuole mai distruggere la vita, ma sempre mantenerla, fortificarla, guarirla. Il cristianesimo è esigente. Non chiede atti eroici, ma è tremendamente esigente nell’amore, che di per sé è esigente, molto più difficile da praticare rispetto al seguire il rito e il culto. E come si sa, non è possibile amare seguendo gli stretti binari di una legge; l’amore è creativo e ognuno ama a modo proprio.

Per il resto, il Dio di Gesù si nasconde, ci lascia liberi, smuove le nostre coscienze: non è un feroce condizionatore delle coscienze, ma un servitore delle coscienze e ognuno ha la responsabilità di costruire la sua; dopodiché chiede a noi di schierarci, ci invita alla scelta, che è sempre concreta. Calza a proposito questo breve racconto dei padri del deserto: un giorno l’anziano monaco chiese al suo discepolo: “Quando ti accorgi che non è più notte?” Il giovane, alquanto perplesso, rispose: “Quando guardando fuori dalla finestra riesco a riconoscere il profilo delle case...”. Ma il monaco parlava di ben altro e sentenziò: “Solo quando passandoti accanto una persona a te ignota la riconosci come fratello/sorella, allora non è più notte”.




NOTE

[1] Ci hanno insegnato che Dio si può conoscere solo attraverso Gesù, perché Dio lo possiamo conoscere ed incontrare solo nell’umano. Poi, però, la stessa istituzione ecclesiastica ha fatto coriandoli di questo principio. Prendiamo il Catechismo. Da dove comincia? Forse da Gesù che si è speso per gli uomini, soprattutto per gli emarginati ed esclusi? NO. Comincia da Dio che evidentemente è più importante e soprattutto è potente, anzi onnipotente. Correttamente è stato fatto allora notare che il Dio che ha in testa la maggior parte di coloro che credono o che non credono “si comprende a partire dal potere, dalla grandezza, dalla maestà, dalla forza che impressiona, dall’autorità che si impone e comanda, dalla minaccia che intimorisce e fa paura”. Pensiamo al Salmo 47, 2-8: “Acclamate Dio con grida di gioia, perché terribile è il Signore… Dio siede sul suo trono santo”. Indubbiamente questa spiegazione sta bene agli uomini a cui sta a cuore il potere, l’autorità (Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, Cittadella, Assisi, 2008, 42), come è andata bene a Costantino. Ma il Dio che si è fatto conoscere in Gesù si comprende a partire dal servizio.

[2] Certo che i troni creano distanza ed incutono sogge­zione; è per questo che la «deposizione dei potenti dai troni», così come canta la Madonna del Magnificat (Lc 1, 52), è un atto liberatorio che solo un Dio detronizzato può compiere.

Ma è anche significativo il fatto che, ai tempi della teologia della liberazione, l’episcopato argentino, che parteggiava per i generali, censurò perfino il Vangelo: dal Magnificat venne materialmente tolta la frase che Dio ha rovesciato i potenti dai loro troni (Maggi A., Non ancora madonna, ed Cittadella, Assisi, 2004, 54, che richiama il “Corriere della sera” del 3.4.1987).

[3] Cfr. note precedenti.

[4] Aristotele sosteneva che quando una cosa ha materia e forma esiste nella realtà. Per san Tommaso, forma (che limita la materia) e materia esprimono invece l’essenza (il che-cosa-è; ciò che fa sì che una cosa sia quella e non un’altra) ma non dicono ancora se nella realtà quell'essenza esiste (es. l'araba fenice, il marziano esistono?). Per esistere, l’essenza deve essere in atto: un blocco di marmo è marmo in atto e statua in potenza; quando avrà la forma di statua sarà statua in atto. Tutte le cose sono composte di potenza e atto, per cui sono imperfette, perché possono modificarsi. L’essenza è potenza rispetto all'atto di essere. Quando l’essenza riceve l’atto di essere si ha l’ente, ossia quel particolare essere esistente nella realtà. L’ente è essere in atto, l’esistente nella realtà, quindi il ciò-che-è. Tutto ciò che esiste è essenza che esiste nella realtà, essere in atto (Fontana S., Filosofia per tutti, Fede&Cultura, Verona, 2016, 49s.). Solo Dio è atto puro, e quindi perfezione. Il Logos è parola divina (Gn 1, 1-3) che, detta, crea: quindi è potenza ed atto pieno e perfetto. Perciò anche il Logos è Dio.

[5] Galantino N., L’amore di Dio abita in mezzo a noi, “Famiglia Cristiana”, n.51/2015, 95.

[6] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 92ss.:

[7] Mori B., Per un cristianesimo senza religione, Gabrielli editore, San Pietro in Cariano (VR), 2022, 65.

[8] Prini P., Il cristiano e il potere. Essere per il futuro, ed. Stadium, Roma, 1993, 10.

[9] Maggi A., Non potete servire Dio e mammona, XIX settimana biblica, Montefano 2015.

[10] Pensiamo alla donna siro-fenicia (Mt 15, 28) o al centurione romano (Lc 7, 9).

[11] Come si può pensare di evangelizzare se la Chiesa non è più credibile a causa delle sue posizioni di chiusura nei confronti delle donne, degli omosessuali, della partecipazione dei laici e del controllo del potere clericale?

[12] Oggi il Consiglio Ecumenico delle Chiese (in cui la Chiesa cattolica partecipa solo come membro osservante) afferma un nuovo paradigma dell’ecumenismo: lavorare insieme per la giustizia, la redistribuzione delle ricchezze, l’uguaglianza tra uomo e donna, la salvaguardia del creato. Questi temi assorbono l’impegno ecumenico, e la ricerca di comunione e unità passa in secondo piano. Si è addirittura arrivati a teorizzare che l’ecumenismo sia accettazione delle diverse Chiese, perché diversi sono stati i cristianesimi; ecumenismo inteso come un lavorare insieme al servizio dell’umanità, senza più cercare l’unità della fede sempre imperfetta ma confessata in una Chiesa di Chiese. In questo modo l’ecumenismo è entrato in uno stato comatoso o in un inverno, anche se continuano gesti e incontri all’insegna della gentilezza, dichiarazioni di fraterno amore, accompagnati però sempre dall’affermazione che l’unità delle Chiese verrà quando lo Spirito lo vorrà! E così più nessuno attende l'unità dei cristiani (Bianchi E., Tre appunti per un confronto sul Sinodo, “Vita Pastorale”, febbraio 2023).

[13] Non condivido, né capisco, perciò l’idea di chi vede nell’invito alla fratellanza un dissolvimento del vero cristianesimo e invita ancora a risfoderare la spada contro i falsi profeti della fratellanza universale.

[14] Castillo J.M., I poveri e la teologia, Cittadella, Assisi, 2002, 222.

[15] Gv 6,2: “…una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi”. Se Gesù si occupa e si preoccupa degli "infermi", ossia di coloro che in qualche modo sono deboli, quelli che rischiano più di altri di essere lasciati indietro, vuol dire che anche Dio fa così. 

[16]Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB. Bologna, 2019, 321.

[17] Pensate a come siamo distanti dall’induismo che ha fissato varie classi sociali all’interno della comunità (i bramini, i soldati, i commercianti, i paria, ecc.).

[18]  Come scrive papa Francesco nell’Introduzione al libro di Tello Rafael (Popolo e cultura, Messaggero, Padova, 2020), è il popolo di Dio che va visto come soggetto della Storia della salvezza e come «luogo privilegiato» di manifestazione del cuore di Dio, mentre c’è il rischio per la Chiesa di rimanere lontana dallo stesso popolo, lontana dalle amorevoli dinamiche di Dio. L’amore di Dio si rivolge con priorità alle sue creature più deboli, alle persone semplici e disagiate. Per questo il teologo Tello, piuttosto che appoggiarsi sulla cultura illuminista moderna o sulle sottigliezze accademiche o ecclesiastiche, preferisce guardare e fare attenzione prioritariamente alla cultura del popolo.

Dunque non posso condividere l’idea di chi, ‘forgiato dall’idea che il mio Dio non è il Dio degli altri,’ è convinto che quest’apertura della Chiesa di papa Francesco sia manifesta apostasia (Langone C., Andiamo a messa, nonostante il Vaticano, “Il Giornale” 13.11.2020, 24).

[19] Scquizzato P., Dalla cenere la vita, Paoline, Milano 2019, 41.