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Viaggio in Italia


di Stefano Agnelli


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7. La nomade senza pace



Durante uno dei primi esami universitari risposi in modo errato ad una domanda sulla celebre raccolta “Il porto sepolto” di Ungaretti, sostenendo che il Nomade – personificazione dello stesso poeta – trova finalmente la pace dell’Oasi. Niente di più sbagliato: un nomade che si rispetti non trova mai la quiete.

Questo pensiero mi attraversa subitaneo ogni volta che, percorrendo in auto la strada verso la casa dei miei genitori, incontro una donna anziana che trascina di buon passo un trolley rosso con la mano sinistra, mentre con l’altra regge uno shopper in plastica semivuoto. Non fa altro tutto il giorno.

Poi, quando cala la sera, abbandona la strada asfaltata per tornare a casa. Nessuno sa dove abiti.

Ogni volta che mi reco a casa dai miei, in campagna, la incontro, sempre nei punti più diversi del suo abituale tragitto, vera e propria “Nomade senza quiete”.

Difficile dire perché lo faccia, forse una forma di grave irrequietudine dovuta ad una malattia psichiatrica, forse un inimmaginabile senso di panico e di precarietà, che la porta a raccogliere i suoi averi in una valigia e poi fuggire dalle mura domestiche, dal prossimo. Eppure il problema non è suo. È nostro. Siamo noi quelli incapaci di capire, che la troviamo quantomeno “strana”, o peggio “pazza”.

Ogni condizione umana dovrebbe avere piena dignità di esistere, di essere compresa, capita, ma soprattutto accettata, e quindi, di conseguenza, amata. “Non sarà redento niente di ciò che non è stato assunto”, diceva il grande Don Mori, volgendo al futuro Sant'Ireneo da Lione.

Assumersi dunque la sua condizione? Fermarla mentre cammina e chiederle: “tutto bene?” Andrebbe fatto.

Eppure un altro modo c’è: non lasciare che la sua testimonianza sia vana, condividere, con la mente, i suoi pensieri, immergersi in quel continuo vagare. Si proverebbe forse un senso di vuoto, di confusione iniziale, ma poi, facendo propria l'urgenza di quei passi, si entrerebbe nella sua dimensione.

Si è detto che un nomade non conosce quiete, ed è vero, ma la mente, camminando, si rasserena, l’agitazione si placa in virtù della fatica. Una fatica che rasserena dunque, come il “Labora” benedettino, capace di far arrivare a Dio.

Pensateci.

Più che un lavoro però, cos'è quanto vi ho appena descritto se non un pellegrinaggio? Certo non il Cammino di Santiago o la Via Francigena, ma un continuo andirivieni nel dolore, passo sopra passo, ogni giorno, in cerca di una catarsi che non arriva.

Una Via Crucis dunque, non un pellegrinaggio.

Una quotidiana e reiterata Via Crucis sulla quale dovremmo interrogarci, perché le ansie e le inquietudini che la muovono, sono le nostre, le generiamo noi, incapaci come siamo di fermarci, di fare silenzio, di manifestare vera solidarietà.

Quella donna, là sulla strada, che lo vogliate o no, cammina ogni giorno anche e soprattutto per Noi, cercando una resurrezione che non vuole arrivare, ed io credo che sia molto vicina al Signore, come tutte le anime che soffrono loro malgrado, come tutti coloro che sono in cammino, non importa verso quale meta.