Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Ghiaccio su un albero a Hausdülmen, Dülmen, Renania settentrionale-Vestfalia, Germania - foto di Dietmar Rabich (1962), scattata il 13 febbraio 2021 e tratta da commons.wikimedia.org


Preghiera e spiritualità in un tempo di buio

di Duccio Peratoner

La preghiera è una delle modalità con cui possiamo esprimere la nostra spiritualità, se intendiamo per preghiera il tentativo di metterci in comunicazione con quella entità che chiamiamo Dio.

Preghiera e spiritualità potrebbero essere quasi sinonimi, se riteniamo che Dio sia quel qualcosa che sta dentro di noi e che ci dà modo di vedere un po’ al di là delle cose che facciamo ogni giorno; in poche parole quel qualcosa che dà un senso alla nostra vita. Poi cercherò di esprimere meglio questa affermazione.

In questa accezione preghiera e spiritualità sono patrimonio di tutti gli esseri umani, sia dei cosiddetti credenti che dei non credenti, ammesso che questa distinzione abbia un senso (il cardinale Martini ce lo aveva detto ripetutamente). Dovremmo infatti cercare di definire cosa vuol dire credenti: in che cosa, o in chi? Ma il discorso si farebbe troppo lungo e difficile, per cui è meglio se ci fermiamo al tema in questione.

Quando riusciamo a interpretare noi stessi non solo in senso biologico, ma anche come portatori di un’anima (che forse corrisponde alla coscienza, se parliamo di un’anima più evoluta, come quella di noi umani) capace di farci apprezzare il bene, la giustizia, la bellezza, allora credo che ci troviamo in una dimensione spirituale.

La pandemia (ci siamo ancora dentro, purtroppo) ci ha forse dato una spinta ad una visione della vita che va al di là del puramente biologico. Paura, noia e vuoto esistenziale, esasperazione di conflitti fino a ieri sopiti, sono tutte condizioni che hanno purtroppo mietuto vittime in questo periodo: basta pensare ai tanti bambini e ragazzi, anche persone a noi vicine, che sono andate incontro a patologie psichiche.

Lo sforzo di trovarne un rimedio può essere identificato nella ricerca di un senso, di un gusto della vita e nella vita, e questo non può essere sublimato nello spiritualismo in senso stretto: Alberto Maggi in un suo commento al vangelo del pane (Giovanni: io sono il pane disceso dal cielo, chi ne mangerà vivrà in eterno) afferma che non siamo noi che dobbiamo disumanizzarci, ma è Dio stesso che si fa umano, che scende giù, al nostro fianco, che ci dà modo di conoscere ed esercitare lo Spirito che sta in noi. Più siamo umani e più Dio riesce a a manifestarsi attraverso di noi. E non sempre ne siamo consapevoli: basti ricordare i due discepoli di Emmaus, che non riconoscono Gesù dopo la sua morte; ma lui li accompagna lo stesso, in un momento per loro di grave difficoltà.

Durante questa pandemia non ci siamo affidati allo Spirito per chiedere il suo intervento per allontanare il virus, come pure abbiamo visto fare nelle nostre piazze da parte di alcuni cristiani, come se Dio fosse un “tappabuchi” (Bonhoeffer). L’abbiamo fatto per aver la forza di superare i drammi che questo virus ha portato in molte famiglie e in molte comunità, in molte popolazioni, vicine o lontane da noi. E per compiere quei piccoli atti che ci viene dato di fare per mitigare questi drammi perchè, come diceva Etty Hillesum, senza di noi Dio non può fare nulla.

Cercherò allora di dirvi quelle che secondo me sono alcune parole chiave di questa spiritualità.

Laicità

È la prima non perché la più importante, ma perché si lega a quello che ho scritto poco fa. Non dobbiamo, in quanto praticanti di una religione, o meglio ad una religiosità, ritenerci unici portatori di una spiritualità. Abbiamo tanti esempi che ci hanno fatto riflettere su questo: la spiritualità della terra, ben esplorata e invocata da scrittori come Duccio Demetrio e Franco Arminio. Ivan Nicoletto sintetizza la laicità dello spirito in una piccola poesia in cui cerca di esprimere il suo sentire su Dio:

Tutto quello che non smette di muoverci

Tutto quello che mi sporge su niente e rimane fuori dalla mia portata

Tutto quello che in me è bisogno di...

Tutto quello che mi porta a dipendere da...

Tutto quello che non mi permette di chiudere un altro nei limiti dei suoi difetti e carenze,

ma mi mantiene nella sorpresa di un di più che lo attraversa...

Descrive una spiritualità decisamente laica, anche se nell’ultimo verso rivela il suo essere credente, in un Dio che ci permette di intuire senza comprendere del tutto, aprendo prospettive diverse ma che possono restare incomprese:

... tutto quello che apre, essendo Dio l’apertura spalancata e senza fondo.

Silenzio

Silenzio nel senso di trovare spazi e tempi per fare quel poco di vuoto dentro di noi che permetta di farci entrare pensieri, emozioni e soprattutto sentimenti. In passato questo l’avevo cercato nella montagna, nell’andarci anche da solo (cosa che da un po’ mi si proibisce di fare, e che di certo potrebbe essere imprudente per la mia età e per i miei problemi respiratori). Ho imparato che questo peraltro è possibile anche in altri modi. E questo tempo di pandemia in qualche modo me li ha facilitati, come dirò tra poche righe.

Silenzio infine come atteggiamento necessario per riuscire ad ascoltare e ad osservare, che sono le 2 parole chiave successive.

Ascolto e Osservazione

Potremmo anche parlare di Attenzione, Conoscenza.

Il mettersi in ascolto è alla base di qualsiasi relazione, tra esseri umani, tra questi e la natura (mondo animale e vegetale soprattutto). E perchè no, anche di se stessi, che vuol dire apertura verso il nuovo, verso il diverso, verso le sorprese che la vita ci propone.

Vuol dire fare attenzione a chi, attraverso libri o musica o arti figurative, è capace di dirti qualcosa che ti faccia provare sensazioni, percezioni, intuizioni nuove, in qualche modo creative. Perchè la creatività è la capacità di cogliere la novità, quello che ti permette di essere diverso da ciò che eri poco prima.

Kurt Vonnegut (ancora a proposito di laicità) ha scritto quello che per me è stata una delle migliori cose lette negli ultimi anni sulla felicità. Lui, oltre a numerosi romanzi, ha scritto un prezioso libretto (Quando siete felici fateci caso) che contiene una serie di discorsi da lui fatti in occasione di proclamazioni di laurea in varie università degli Stati Uniti. Potremmo definirlo il vangelo secondo Vonnegut. Da bravo ateo, ma ammiratore di Gesù ed in particolare del discorso della montagna, scriveva a proposito di buone idee, o meglio idee buone: “Quella di esssere misericordiosi è l’unica buona idea che abbiamo avuto finora. Magari un giorno ci verrà qualche altra buona idea: a quel punto ne avremo due!”

Vonnegut direbbe che i nemici della felicità, che per me ha più di qualche attinenza con la spiritualità, sono due: la solitudine e la noia. Entrambe queste maledizioni fanno parte integrante della nostra vita, di tutti noi, e la felicità la proviamo proprio perchè ci sono momenti, più o meno lunghi, in cui riusciamo a liberarci da noia e solitudine. In altre parole queste servono a farci apprezzare la loro mancanza.

La solitudine si vince con la pluralità delle relazioni: coppia, famiglia, comunità, e così via verso l' essere fratelli tutti (l' enciclica di Francesco papa ma anche la fraternità: perché? di Edgar Morin).

La noia si vince con la consapevolezza dei sentimenti, più che con il fare per fare, più che con lattivismo. Sentimenti che possono essere suscitati dal nostro prossimo, ma anche dalle cose, dalla natura, dalle espressioni artistiche (la musica, la poesia e la lettura in generale). Come diceva lo zio Alex (zio di Kurt Vonnegut) sorseggiando una limonata fresca all' ombra di un albero: cosa cè di più bello di questo?. Diceva, non solo pensava. Perchè di occasioni come queste le nostre giornate sono lastricate, pur tra tragedie, incomprensioni e frustrazioni. Bisogna almeno accorgersene, cosa non così facile tuttavia. Lui, lo zio Alex, diceva che il momento giusto per fare questa operazione (il rendersi conto della nostra felicità) è quello dopo che abbiamo combinato qualcosa di buono, come gli attimi dopo un bacio, come l' uscire nella notte dopo un concerto o un film che ci hanno commosso, come dopo aver letto o ascoltato un poesia che ci ha preso, o anche solo dopo aver... sorseggiato una limonata fredda.

Relazioni, sentimenti, espressioni artistiche: è spiritualità questa? Penso che lo sia e, se è così, cerchiamo solo di accorgercene, di rendercene conto, quando ci capita di vivere questo momenti.

A questo punto della mia vita cerco queste opportunità in cose piccole, al di fuori del mio vecchio mestiere, che non è più quello di pediatra ma che è solo (e dico poco?!) mestiere di vivere (come scriveva Pavese) e non solo di sopravvivere.

Così mi capita (e non sempre ci riesco) di cercare il sorriso, gratuito e non richiesto, durante un atto minimo di gentilezza verso chi incontro per strada o lo sguardo complice, e magari ancora lintuizione di un sorriso, una strizzatine di occhi (in tempo di mascherine) o un altro segno di complicità, da parte di chi lascio attraversare la strada anche fuori dalle strisce pedonali, quando giro in auto per la città. Cerco di rendermene conto, e di goderne dentro di me.

Così in questi due anni di limitazione dei rapporti diretti e consueti con i nostri familiari, con gli amici, con le persone con cui condividiamo tanti momenti di vita, ho pensato di registrare alcune cose che ho visto, che mi sono soffermato ad osservare, che in qualche modo mi sono capitate.

Ve ne leggo alcune:

12 agosto. Siamo sulla forcella Cir entre les Pizes a farci un panino un po discostati dalla folla, quando si sente in basso un suono di tromba. Nel piccolo circo sottostante, una conca contornata da pinnacoli e grossi massi, un ragazzo suona (molto bene) 2 brani di Morricone. Subito la folla si zittisce. Alla fine applausi, lui saluta con un inchino, rimette la tromba nel sacco e ridiscende a valle, tra gli applausi.

19 agosto. Un gregge di centinaia di pecore e capri sulla sella sopra il paso Fedaia. Da una parte (separata dal resto del gregge) sono raccolte una ventina di pecore madri, con i loro piccoli appena nati. Alcuni fanno fatica a stare in piedi (o megli in zoccoletti), alcuni sdraiati a riposarsi, alcuni attaccati alle mammelle della madre. Una maternità ovina.

3 ottobre. Ultima sessione del convegno di Zugliano. Si parla di razzismo, esplicito e anche poco appariscente (a noi "bianchi"). A farlo sono solo donne, quasi tutte giovani e straniere. Bella ed emozionante sorpresa il trovarsi ad imparare e a capire cose per noi non percepibili, in un modo che solo delle ragazze (queste hanno tra i 15 e i 27 anni) penso avrebbero saputo e potuto farlo, parlando di se stesse e dei propri vissuti, non senza dimostrare una preparazione sociologica e antropologica sorprendente.

9 ottobre. Sto ascoltando la solita radio3 un po su altri pensieri, con la coda dellorecchio riconosco la voce di una donna che avevo già sentito e riascolto così due brani (la parte iniziale e quella finale) di una registrazione dellultimo incontro pubblico di Liliana Segre. Non posso restare indifferente a questo modo emozionante di raccontare i suoi vissuti. E poi senza stacco parte una canzone di Leonard Cohen (Come healing). Vado a leggermi la traduzione: sembra un commento scritto apposta per quello che avevo ascoltato subito prima.

8 novembre. In gita carsolina con i volontari di S.M.C. : in mezzo al sentiero di pietre, tra i sassi si è fatto strada (Maria me lo fa notare) un piccolo fico, che ora sarò alto meno di mezzo metro, con foglie verdissime, quando ormai quelle degli alberi grandi sono brunastre, accartocciate o cadute. Mi piacciono gli spaesati e quelli un po fuori dalla regola (come i ciclamini incastrati nelle fessure delle rocce carsiche che mi è capitato di incontrare più volte). Chissà se resisterà, così piccolo, allinverno ormai vicino. Ma mi pare dimostri già una forza inusuale.

Piccole cose, che a tutti sarà capitato di vivere, ma il fermarle anche sulla carta dà loro un significato particolare e soprattutto la possibilità di riviverle.

Non è questa spiritualità, non sono piccoli segni della grazia, se siamo capaci di coglierli?

Con-sentire

È la dimensione comunitaria della preghiera, quella in cui ci si trova quando Gesù ci ha detto se due o più di voi ..... E che si esprime anche nella partecipazione ai riti collettivi (che sia la messa cattolica/ortodossa o il culto dei protestanti, o tutti gi altri riti che ogni religione usa celebrare). Questa dimensione deriva prima di tutto dalla consapevolezza della nostra limitatezza, della nostra difficoltà, forse impossibilità, di metterci da soli in comunicazione con questa entità che chiamiamo Dio, con quel di più che , ripeto, può dare significato alle cose che facciamo. Abbiamo bisogno perciò di una dimensione comunitaria del pregare. La preghiera solitaria, mistica, eremitica, è quasi eroica, oltre che difficilmente comprensibile, almeno a me. E poi cè anche la preghiera più laica, anche se non meno importante, delle manifestazioni collettive in difesa dei diritti e della dignità, contro le discriminazioni e le ingiustizie; anche questo ci è mancato in questi tempi di isolamento.

Di quello che per me su questo tema la pandemia ha pesato e cambiato, vi dico soltanto della grazia che mi è stata concessa nellultimo anno nel fare il volontario vaccinatore, dando il mio piccolo contributo alla lotta contro il Covid. Quante solitudini ho incontrato, specie nelle vaccinazioni a domicilio, regalando poche parole e molto ascolto, in quei 20 o 30 minuti che passavo con loro. A quanti argomenti (problemi di salute, di rapporti con i famigliari, ma anche di musica, letture, ricordi di vita vissuta) mi è stata data lopportunità di regalare e ricevere vicinanza e condivisione.

Ringraziare

Lo dico con alcuni versi di Mariangela Gualtieri (In quest’ora della sera, da questo punto del mondo) senza un commento, del tutto superfluo:

(...) Ringraziare desidero per l’amore ,

che ci fa vedere gli altri come li vede la divinità,

per il pane e il sale,

per il mistero della rosa

che prodiga colore e non lo vede.

Ringraziare desidero

per l’arte dell’ amicizia,

per l’ultima giornata di Socrate,

per le parole che in un crepuscolo furono dette

da una croce all’altra.

(...)

Ringrazio dunque

per i nostri maestri immensi

per tutti i baci d’amore,

e per l’amore che ci rende impavidi.

Per i nostri morti

che fanno della morte un luogo abitato,

e per i nostri vivi, che rendono la vita uno specchio fatato.

(...)

Ringraziare desidero

per i minuti che precedono il sonno,

per il sonno e la morte,

quei due tesori occulti,

per gli intimi doni che non elenco,

per la gran potenza d’antico amor

per amor che muove il sole e l’altre stelle

e muove tutto, in noi….

Queste sono la parole chiave che a me sono venute in mente, ma sta a ognuno di noi pensarne altre, più consone forse alla personalità di ciascuno.

Infine, in due parole, il senso di quello che volevo esprimere: mi sembra (e ci vorrei credere) che vita e preghiera siano la stessa cosa