Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Memoriale di Martin Luther King, Uppsala, 2008- foto tratta da commons.wikimedia.org




Amici, non servi

di Dario Culot

“Non vi chiamo più servi, ma amici” (Gv 15, 15). L’amore di Dio elimina ogni distanza e fa tutti uguali. Con queste poche parole il rapporto dell’uomo con Dio è rivoluzionato. Nella Bibbia, Dio ricorda al suo popolo di averlo liberato dalla schiavitù dell’Egitto (Gdc 6, 8), ma solo per trasformare gli israeliti in suoi servi (Lv 25,55: «Poiché gli Israeliti sono miei servi; miei servi, che ho fatto uscire dal paese d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio»). Anche Gesù libera (e qui vi prego di leggere la lunga nota[1]) ma non per farci suoi servi, visto che è Gesù a porre la sua vita a servizio degli altri, tanto che ci ricorda che noi non siamo i servi di Dio, ma i figli di Dio e i suoi amici.

Da questo rivoluzionario principio, mi sembra, che si debba trarre qualche conclusione:

1. Innanzitutto mi sembra abbiano avuto una corretta intuizione i protestanti quando dicono che, nella fede, si è primariamente davanti ad una relazione personale ‘io e tu’, visto che Gesù chiama i suoi seguaci amici. Se fosse una relazione comunitaria, tipo ‘Lui-noi’ il nostro legame con Dio non sarebbe personale, ma chiederebbe la mediazione di un terzo, di una istituzione (come per l’appunto la Chiesa-istituzione). Che la fede autentica non derivi da un’appartenenza collettiva,[2] ma nasca e si sviluppi da un impegno personale, trova conferma nei vangeli che si incentrano sulla conversione del singolo, mai del gruppo. Il popolo, come comunità, non ha una funzione privilegiata, a differenza di quanto si riteneva il popolo di Israele in base all’Antico Testamento. Chi risponde positivamente all’offerta di amore di Dio sarà anche eletto, ma la sua comunità non diventa una comunità eletta, né si diventa eletti perché si partecipa a una comunità particolare. Si può essere cristiani solo in quanto singoli individui, non in quanto comunità; tant’è vero che il cattolico non si distingue dagli altri, né è migliore degli altri, solo perché appartiene alla Chiesa. Sarà forse migliore solo se si sarà convertito come individuo.

Detto però questo, è pacifico che ogni comunità in cui tutti remano nella stessa direzione non somma solo le forze dei singoli, ma le moltiplica. Se ad esempio occorre spostare un grande peso, occorrono più persone che però devono fare lo stesso sforzo congiuntamente e in maniera concordata, perché se uno tira da una parte e un altro dall’altra le rispettive forze si disperdono o perfino si annullano.

È stato allora fatto giustamente notare[3] che veniamo al mondo in una rete di relazioni, per cui la comunità preesiste alla persona, la precede e ne rende possibile la nascita, la crescita e il divenire: imparare a vivere le relazioni è imparare a vivere. Quindi la comunità è indispensabile tanto che Gesù ha creato una piccola comunità perché sapeva che per realizzare l’annuncio del regno di Dio era richiesta una comunità, un intreccio di relazioni. Quest’idea – che da noi fa fatica ad imporsi,- esiste da sempre nel mondo musulmano ed è accettata da tutti: un musulmano nigeriano o afghano vive inserito in una rete di relazioni e rapporti completamente diversa da quella di un occidentale. Riconoscere a queste popolazioni i diritti dell’uomo in quanto singolo individuo – come si fa qui da noi - significa privarli di un’esistenza nella collettività o, addirittura, contrapporli a essa. In altre parole: il conferire diritti indipendenti al singolo individuo non rientra nella tradizione di quelle culture, che vedono nell’individualismo non la possibilità di diventare pienamente sé stessi ma, forse in conseguenza delle esperienze di vita in condizioni ambientali (spesso desertiche) assai difficili, solo la certezza di perire[4]. Questa idea, che a noi sembra piuttosto bizzarra perché abbiamo da tempo privilegiato i diritti della singola persona, intesa come individuo separato dagli altri, evita invece di esasperare l’autonomia del singolo. Non c’è dubbio infatti che l’ampliamento senza limiti della dimensione individuale dei diritti rende alla fine irrilevante da noi la dimensione sociale, che è altrettanto importante[5]. Avete notato – ad esempio in questo periodo di Covid,- come ogni richiamo al limite, perché c’è anche la libertà dell’altro, viene visto dai no-vax come un’usurpazione autoritaria, una violazione dei loro diritti individuali? Se smettessimo di idealizzare l’individualismo, se ogni tanto mettessimo sullo stesso piano diritti e doveri, dando più peso all’interdipendenza delle persone, finiremmo col cambiare anche il concetto che noi abbiamo di ‘persona’: il grande teologo Panikkar[6] aveva infatti correttamente suggerito che sarebbe meglio descrivere la persona non come un individuo autonomo e separato, ma come un nodo in una rete di relazioni. In questa prospettiva l'individualità è soltanto il nodo astratto, reciso da tutti i fili che concorrono a formare il nodo. Ma i nodi senza fili non sono nulla, i fili senza nodi non potrebbero sussistere. Né i nodi, né i fili sono irreali, ma solo la rete forma un tutt'uno. La vera realtà che dà identità all'individuo è allora la rete, e la realtà – purtroppo per i singoli egoisti - contrasta in continuazione la volontà di onnipotenza che ogni singolo individuo porta in sé. Dice sempre Panikkar che ogni nodo, poiché attraverso tutti i fili è in comunione con tutta la rete, in certo qual modo rispecchia tutti gli altri nodi. Il rapporto io/tu non è dualistico come il rapporto fra due cose. La realtà è una relazione più complessa, perché non c'è io senza tu e viceversa, ma non c’è io neanche senza il lui, o il voi. L’uomo fa parte di una specie sociale, e un uomo solo, una donna sola, così presi uno ad uno, non sono nulla,[7] sono come polvere. Ecco perché Panikkar insiste tanto sul fatto che persona non può essere identificata nel singolo individuo, ma al centro si deve mettere la relazione. Persona è allora nodo cosciente, consapevole di essere quel nodo. Invece una persona isolata, egoisticamente chiusa in sé stessa che pensa solo ai suoi diritti, non solo non dovrebbe essere identificata come persona,[8] ma è irrilevante anche se crede di essere onnipotente. Se dunque l'uomo può capirsi solo nella relazione con l'altro,[9] è chiaro che il termine persona cambia completamente di significato rispetto a come l’abbiamo inteso in questi ultimi decenni. Solo poco tempo fa, papa Francesco ha detto nell’Angelus del 26 dicembre 2021: «Bisogna combattere la dittatura dell’io, quando l’io si gonfia… [e] anziché avere gesti di cura per gli altri, ci fissiamo nei nostri bisogni. Convertiamoci dall’io al tu. Quello che deve essere più importante già nella famiglia è il tu».

2. Poi c’è una differenza enorme fra la liberazione di Mosè e la liberazione di Gesù. Mentre Mosè, il servo di Dio, ha imposto un’alleanza tra dei servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza alla legge divina, Gesù, che è il Figlio di Dio, propone un’alleanza tra dei figli e il loro Padre, basata sull’accoglienza e somiglianza al suo amore. L’amore, di per sé, non può essere inquadrato in leggi, ma è totalmente libero.

Dunque, - come ripetutamente ha spiegato Alberto Maggi,- per Gesù il vero credente non è mai colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando l’amore simile al suo. Tant’è che il più antico evangelista, Marco, perfino ignora nel suo vangelo il termine “legge”, proprio perché con Gesù non si deve obbedire a una legge, ma assomigliare al Padre.

3. La terza conclusione che, penso, si possa trarre, è che fra amici non ci sono gerarchie, ma tutti sono uguali. Allora tanti cattolici doc dovrebbero spiegarci perché continuano a comportarsi come servi, quando Gesù ha detto papale papale: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo Signore; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15, 15). Fra amici non c’è alcuna gerarchia piramidale,[10] ed effettivamente la figura che meglio si attaglia a Gesù è cerchio non la piramide (Mc 3, 31-35). Gesù viene sempre individuato nel mezzo, mai al di sopra degli altri; anzi (Lc 22, 27) Gesù dice qualcosa di più: «io sono in mezzo a voi come colui che serve». Anche quando Gesù riappare da risorto si mette sempre in mezzo, non in alto, sopra gli altri: «Mentre parlavano di queste cose, Gesù stette in mezzo a loro» (Lc 24, 36). Gesù non si mette al di sopra del gruppo, non crea una gerarchia di persone che gli sono più vicine e persone che restano più lontane; tutti sono alla stessa distanza dal centro del cerchio. Solo nel cerchio, non nella piramide (costruita dal clero nella nostra Chiesa), tutti si trovano con pari dignità e possibilità, ma tutti sono anche investiti della stessa responsabilità. Nel cristianesimo la responsabilità è quella di portare avanti il discorso dell’umanizzazione, essendosi Dio manifestato umanizzandosi. La Chiesa, invece, ha presto costruito una piramide gerarchica, dando al clero sempre più privilegi, cosa assolutamente non prevista dal Vangelo, ma prevista e concessa a cominciare dall’imperatore Costantino,[11] il quale pensava di ricompattare così l’impero romano vedendo nella Chiesa un principio di unità: “Un solo imperatore divino governa il mondo con il solo imperatore terreno di Roma”. Nelle varie ‘eresie’ vedeva invece un pericolo per l’unità dell’impero.

Dunque, a maggior ragione se riteniamo che Gesù è Dio, questo Dio non si è dimostrato geloso della sua divinità, ma la vuole comunicare in qualche modo agli uomini; per questo ha rinunciato al potere e alla sua posizione di privilegio per poter diventare nostro “amico” e per poter entrare il più intimamente possibile nella nostra sfera umana senza abbagliarci o senza ferirci con la sua potenza e distanza abissale[12]. Se questo è vero, allora è la gerarchia ecclesiastica che tenendo stretti quei privilegi a cui Dio stesso ha rinunciato per amore, si è appropriata di ciò che spetta a Dio ma non a lei. Per di più, al posto di servire, ha creato una religione in cui identifichiamo con Dio quanti lo rappresentano È evidente che, ancora oggi, chi si presenta come rappresentante ufficiale di Cristo ha la pretesa di essere messo su un gradino più alto del nostro. Il magistero chiede sudditanza al gregge mentre il Vangelo di Cristo ci vuole liberi. Se Gesù è venuto per servire e non per comandare (Mt 20, 28), è chiara l’incompatibilità delle due funzioni, perché servire è mettere le proprie conoscenze, competenze e di energie a beneficio di tutti. Se noi, seguendo Gesù, mettiamo la nostra vita al servizio del bene degli altri, li c’è la presenza di Dio; la nostra esistenza e quella di Dio in qualche modo s’intrecciano e scopriamo la meraviglia di un Dio che vuol diventare amico dell’uomo. Invece comandare è tenere gli altri sottoposti alle proprie dipendenze. Perciò mi sembra inoppugnabile quanto ha sostenuto il francescano Ortensio da Spinetoli (al quale per l’appunto la gerarchia aveva tolto l’autorizzazione all’insegnamento perché diceva cose troppo scomode per chi vuol comandare): se Gesù ha detto che chi vuol comandare deve essere l’ultimo (Mt 20, 26s.), ed ha rimproverato gli apostoli che litigavano su chi di loro per chi sarebbe stato il più importante (Lc 22, 24-32), non può aver detto anche l’opposto, che cioè chi vuol comandare sarà anche il primo dei fratelli[13]. Quindi è la gerarchia che deve adeguarsi al Vangelo, e non viceversa. E un vescovo che pretende di comandare, e non di servire, non rappresenta oggettivamente la Chiesa di Gesù, anche se è convinto di essere in contatto diretto col Padreterno.

Se Gesù, che avrebbe ben potuto farsi lavare i piedi dai suoi non lo ha fatto, ma anzi si è posto sotto di loro lavando loro i piedi,[14] com’è che i vescovi si fanno ancora chiamare “eccellenza”, “eminenza”? com’è che si fanno baciare l’anello? com’è che accettano che le persone s’inginocchino davanti a loro? È psicologicamente impossibile non sentirsi superiore agli altri e non lasciarsi servire dagli altri quando per anni tutti ti chiamano eccellenza, eminenza, tutti s’inchinano e s’inginocchiano per baciarti la mano, tutti ti cedono il passo, ti mettono ai primi posti nelle cerimonie e nei pranzi ufficiali e ti danno sempre ragione[15]. Non è certo un caso se la Chiesa è stata per secoli parte integrante del potere. Nessun vescovo, se venisse chiamato fratello e si sentisse veramente tale, oserebbe dire che chi non sta col suo vescovo è fuori della Chiesa. Questo lo può dire solo chi si sente superiore e considera pecore tutti gli altri.

Per questo motivo Gesù aveva ammonito gli apostoli affinché nessuno si facesse chiamare maestro, nessuno si facesse chiamare padre, nessuno si facesse chiamare capo, ma il più grande si facesse riconoscere solo per il suo più grande servizio offerto (Mt 23, 8-12). Pietro, a differenza di tanti gerarchi della Chiesa di oggi, aveva alla fine capito molto bene la lezione: quando il centurione Cornelio si era prostrato davanti a lui, l’aveva subito rialzato dicendo: “Alzati! Anch’io sono un uomo come te” (At 10, 26). Sarebbe bello vedere oggi un’eminenza che ritira imbarazzato la mano quando qualcuno cerca di baciargli l’anello al dito, profondendosi in grandi inchini. Invece la religione ha finito col dare a tanti uomini di Chiesa occasioni di tale prestigio e potere da rendere loro assai difficile l’applicazione del principio secondo cui Gesù non è venuto per essere servito, ma per servire (Mt 20, 28).

4. Infine, molte persone pie si sentono in colpa se non si mettono in ginocchio al momento dell’elevazione o al momento di ricevere l’eucarestia, ed in effetti anche il papa emerito[16] era dell’idea che la comunione la si deve ricevere in bocca ed in ginocchio per dare un segno di profondo rispetto, come se gli apostoli si fossero messi in ginocchio a mani giunte quando Gesù aveva spezzato e dato loro il pane nell’ultima cena. Tutti i pranzi e le cene di Gesù sono qualcosa di conviviale e laico. La Chiesa ha presto sacralizzato la cena, spostandola dalla tavola dove tutti stavano insieme all’altare dove presta servizio solo la persona sacra, il sacerdote. Eppure anche per l’eucaristia è stato chiarito che originariamente, anche durante la preghiera eucaristica, i fedeli stavano in piedi, e ciò non è escluso neppure oggi (Ordinamento Generale Messale Romano §43), anche se poi viene suggerito di rispettare una lunga tradizione devozionale che prevede di mettersi in ginocchio[17]. Ma mi chiedo: ha senso mettersi in ginocchio davanti a un amico? Non ci si riduce di nuovo a servi? Questo non è forse successo perché la cena è passata dal piano conviviale a quello sacro? Non è che, trasformando il tavolo della cena in altare abbiamo travisato l’intento di Gesù, che non era la celebrazione di un rito, quanto lo stare insieme e il fare assieme? Se queste cerimonie sacre non sono seguite o accompagnate da opera di bene, non equivalgono forse a quel vuoto tintinnio di cembali di cui già parlava Paolo ai corinzi (1Cor 13, 1)? Non è che il significato dell’eucaristia dovrebbe essere semplicemente quello di tener desta la sequela, tralasciando di mettere in scena quel complesso di riti, suoni e canti che riempiono le nostre liturgie, tentando piuttosto di verificare fino a che punto siamo in grado, subito dopo, di mettere in gioco la nostra vita per il bene dei nostri simili, come il nostro amico Gesù ha dimostrato con la sua vita terrena? È forse il caso di ricordare che Gesù ha sempre detto: “Seguimi!”, non “obbediscimi!” E seguire Gesù vuol dire continuare a fare nel mondo quello che lui ha fatto da vivo duemila anni fa. E perché lo si segue? Perché si vogliono mantenere vivi quei suoi valori e quelle qualità che ha dimostrato in vita, affinché un giorno questi vengano consegnati a qualcun altro che viene dopo di noi, perché a sua volta anche lui prosegua su questa stessa strada nel mondo. Come si vede, siamo certamente davanti a un programma ben più arduo e scomodo rispetto al pomposo ma riduttivo rituale che si limita a ripetere il tempo della morte di Gesù in croce. Crediamo di dare lo stesso valore salvifico al sacrificio eucaristico e alla morte in croce,[18] ma se il mero rito del sacrificio della messa che non fa cambiare il nostro modo di vivere fuori della chiesa, per tutti i giorni della settimana, è totalmente innocuo e inutile. Per di più – come giustamente fa osservare il prof. Castillo nel suo commento a Gv 18, 33-37 (festa di Cristo Re) - un esagerato misticismo si può verificare in quelle persone che pensano a Gesù Re abbinandolo alla croce. È vero che questo corrisponde al titolo che Pilato ha ordinato di collocare sopra la testa del Crocifisso, ma in tal caso c’è il pericolo di associare la croce solo alla sofferenza e non alla lotta contro la sofferenza. Gesù è morto crocifisso non perché Dio vuole la sofferenza, ma perché non la vuole. Gesù è infatti vissuto per fare il bene ed alleviare il dolore del mondo (At 10, 38). Questo atteggiamento e non altro, portato avanti con costanza e determinazione, è ciò che ha condotto Gesù sulla croce. E solo in questo senso Gesù è Re: essendo stato misericordioso con tutti e avendo fatto il bene a tutti[19]. Non lo è certamente per comandare ponendosi in cima alla piramide gerarchica, visto che ha detto che è venuto per servire, e un vero re – come lo intendiamo noi e come purtroppo lo intendono ancora tanti alti prelati - non serve mai nessuno, ma si fa continuamente servire.


NOTE

[1] Il richiamo categorico alla dottrina insegnata rammenta: “l’incarnazione ha lo scopo di redimere l’uomo dalla schiavitù del peccato. Questo insegna il cattolicesimo” (Rossi Mattia, Francesco sta fondando una nuova religione opposta al Magistero cattolico, in

http://www.ilfoglio.it/articoli/2013/10/11/news/francesco-sta-fondando-una-nuova-religione-opposta-al-magistero-cattolico-52052/); ma questo implica che papa Francesco non insegni la vera dottrina ed è per questo l’antipapa. È agevole replicare che se questa di Mattia Rossi fosse l’interpretazione più corretta, gli uomini ormai redenti non dovrebbero peccare più. Invece…

In realtà, Gesù non libera l’uomo dal peccato, ma dalla religione opprimente, cioè da tutto quello che l’uomo deve fare per piacere a Dio, perché la religione inaridisce e paralizza le persone, e con le sue regole formali impedisce di conoscere il vero volto di Dio, il quale non chiede insaziabilmente, ma – secondo Gesù,- offre a tutti gratuitamente; non chiede nulla per sé perché non ha bisogno di niente, ma invita ognuno a mettersi al servizio degli altri. Per convincersi di questo, basta leggere i vangeli: sotto i 5 portici della piscina di Bethesda dove si insegna la legge (i 5 libri della Torah) e dove si osserva la legge divina, c’è solo una moltitudine di persone incapaci di vedere (ciechi), di autonomia (zoppi) e svuotate di vita (inariditi) (Gv 5, 2-3). Ed è qui che i capi religiosi, incuranti della situazione del popolo sofferente, celebrano la loro festa, mascherando con lo splendore della cerimonia la sofferenza della gente (Maggi A., Come leggere il Vangelo e non perdere la fede, ed. Cittadella, Assisi, 2009, 109 s.). Ecco che Gesù è venuto per liberarci da queste infermità (Gv 9, 39), cioè da questa schiavitù.

Lo stesso avviene quando Gesù risana una persona rinsecchita ormai da una vita, e lungi dall’invitarlo ad offrire a Dio le sue sofferenze, lo invita a disobbedire alla legge divina, portando un peso di sabato (Gv 5, 8-9). La vera funzione della legge era quella di dare un recinto di protezione dall’impurità che sta fuori: “Per essere a posto con Dio fin qui posso arrivare, oltre no. Fare qualsiasi lavoro di sabato mi rende impuro agli occhi di Dio”. Gesù invece lo invita a fare qualcosa d’impuro. Poi anche lo ammonisce: «ecco che sei diventato sano: non peccare più perché non ti avvenga di peggio» (Gv 5, 14). Gesù dice proprio: “non peccare!” ma nel senso opposto a quello che ritiene Mattia Rossi. Come mai Gesù rimprovera l’uomo che si è recato nel Tempio santo per ringraziare della grazia ricevuta? Qualsiasi persona pia e religiosa si sarebbe complimentata con lui perché era andato a ringraziare Dio per questa inaspettata guarigione. Invece, per Gesù, tornare dentro il recinto del Tempio di Gerusalemme significa tornare ad accettare di essere sottomesso e narcotizzato nel nome di Dio da quelle stesse autorità religiose che facevano della legge uno strumento di potere, di dominio e di oppressione sulle persone. Per l’evangelista, tornare lì, significa vanificare la liberazione operata da Gesù.

Analogo concetto viene ulteriormente ripetuto quando Gesù, unico vero pastore, conduce le persone fuori del recinto creato dall’istituzione religiosa (Gv 10, 3), e le libera come Mosè ha liberato il suo popolo dalla schiavitù egiziana attraverso l’Esodo. Queste espressioni indicano che i veri animali sacrificali erano le persone: sono loro che vengono sacrificate in nome di Dio dall’istituzione religiosa come pecore. Allora, se Gesù le fa uscire è perché è finita l’epoca dei sacri recinti, è finita l’epoca dei templi, è finita l’epoca dell’istituzione che pretende di comandare in nome di Dio. Noi fedeli NON siamo pecore che i nostri pastori (il magistero) possono condurre a piacimento. Facendo uscire le pecore Gesù libera, in realtà, le persone. Gesù dimostra così l’incompatibilità con l’istituzione religiosa e annuncia il proposito di condurre coloro che lo ascoltano fuori di essa, per formare una comunità umana libera, che goda della pienezza che egli comunica (Mateos J. e Barreto J., Il Vangelo di Giovanni, ed. Cittadella, Assisi, 1982, 443).

Gesù non vuole né gabbie, né recinti sacri in cui rinchiudere i suoi seguaci. Se Dio è Amore, è ovvio che l’amore non può essere formulato attraverso nessuna legge, per cui Dio non emana leggi. Non c’è legge esterna, perché nessuna legge può manifestare la ricca realtà di un Dio che è Amore (1Gv 4, 8). Quando uno applica le regole dell’amore, fa spontaneamente posto agli altri, non obbedisce a nessuna legge. Cosa invece succedeva (e ancora purtroppo succede) con l’insegnamento tradizionale? Una volta che le pecore sono entrate nel recinto sacro devono prestare piena sottomissione all’autorità ecclesiastica perché come papa Pio X ha scritto nell’Enciclica Vehementer nos dell’11.2.1906: “la Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l'autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori”.

Anche il nuovo Catechismo ribadisce che tutti i battezzati devono essere sottomessi ed obbedire ai capi della Chiesa (n.1269) e l’obbligo è rafforzato per i presbiteri (nn.915, 1567). La Chiesa chiede obbedienza sul presupposto che Gesù medesimo avrebbe comandato di obbedire (cfr. n.470 Catechismo Pio X), ed essendo i suoi pastori gli unici legittimi rappresentanti di Gesù, per questo bisogna obbedire ad essi. L’insegnamento del magistero è andato per secoli contro il Vangelo perché Gesù mai comanda di obbedire all’autorità ecclesiastica: se non ci credete, indicatemi il passo dove Gesù chiede obbedienza al potere sacro del clero.

Anche al momento del suo commiato definitivo Gesù ha lasciato tre disposizioni: 1°) quello della lavanda dei piedi: anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni agli altri (Gv 13,14); 2°); quello dell’amore reciproco: vi do un comandamento nuovo (Gv 13, 34-35), e 3°); quello dell’eucaristia sul corpo e sangue di Cristo: fate questo in memoria di me (1Cor 11, 24-25) (Castillo J.M., El Evangelio maginado, Desclée De Brouwer, Bilbao (E), 2019, 169); nessun ordine di obbedire agli apostoli o a una qualunque istituzione. E visto che l’istituzione Chiesa è obbligata ad essere fedele a ciò che Gesù ha lasciato come disposizione, dovrebbe seguire solo queste tre disposizioni: in particolare dovrebbe servire, non comandare. Senza lavanda dei piedi e senza amore fraterno si finisce col distorcere il significato dell’eucaristia.

[2] Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006, 146 s. obbedire all’autorità ecclesiastica: se non ci credete, indicatemi il passo dove Gesù chiede obbedienza al potere sacro.

[3] Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 472.

[4] Kapuscinski R. Nel turbine della storia, ed. Feltrinelli, Milano, 2009,102 s.

[5] Basta pensare alle manifestazioni dei no-vax: conta la mia libertà, la mia salute. E quella degli altri?

[6] Panikkar R., Trinità ed esperienza religiosa dell'uomo, ed. Cittadella, Assisi, 1989, 97s. Anche per Boff L., Trinità e società, ed. Cittadella, Assisi, 1992, 113: la persona è un nodo di relazioni, sì che l'identità si perfeziona solo nella relazione con l'altro.

[7] Dalla poesia di Goytisolo José Agustín, Palabras para Julia, reperibile anche su internet.

Secondo un’opposta teoria, invece, il cozzo degli egoismi individuali produce come “conseguenza involontaria” un’armonia collettiva, perché il benessere dei ricchi gocciolerà spontaneamente verso il basso, verso i poveri, verso gli esclusi, verso le periferie: si torna alla mano invisibile di Adam Smith. Ma finora i risultati non sembrano andare in questa direzione visto che la forbice ricchi-poveri si sta pericolosamente allargando anche nel mondo occidentale; le disuguaglianze sono aumentate, per non parlare poi del degrado ambientale.

[8] Secondo il padre della psicanalisi Sigmund Freud, persona riuscita è solo quella che ama e che lavora.

[9] Relazione di Serena Noceti del 17.12.2016 a Trieste, in https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-400---1-gennaio-2017-1/numero-400---1-gennaio-2017/serena-noceti---chiesa-in-riforma-francesco-e-il-sogno-del-concilio.

[10] Idea che la gran parte dei chierici di livello più alto fa fatica ad abbandonare, perché la struttura gerarchica permette l’esercizio di un grande potere, per chi sta in alto.

[11] Come spiega lo storico Peter Brown, Costantino è stato primo imperatore “cristiano” che ha introdotto i vescovi e il clero della Chiesa cristiana nel gruppo dei privilegiati della società, e questo perché poiché erano i chierici (e non il cristiano laico) gli esperti in rituali: solo essi sapevano come portare a termine il “culto del santo potere celeste” (Browwn P., Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C., Einaudi, Torino, 2014, passim).

[12] Arias J., Il dio in cui non credo, ed. Cittadella, Assisi,1997, 71.

[13] Ortensio da Spinetoli, L’inutile fardello, Chiarelettere, Milano, 2017, 48.

[14] Necessariamente, per lavare i piedi anche a una persona seduta, occorre mettersi in ginocchio.

[15] Arias J., Il dio in cui non credo, ed. Cittadella, Assisi,1997, 72.

[16] Benedetto XVI, Luce del mondo, ed. Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, 219. Ma secondo la riforma liturgica del 1973 la Conferenza episcopale può ripristinare l’antica tradizione di ricevere la comunione sulla mano sinistra (l’ostia va presa e messa in bocca con la destra), per cui i vescovi possono decidere fra ostia sulla mano e in bocca (Famiglia Cristiana”, n.25/2012, 11).

[17] “Famiglia Cristiana”, n.18/2021, 97.

[18] Ortensio da Spinetoli, L’inutile fardello, Chiarelettere, Milano, 2017, 34ss.

[19] At 10, 38 Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.