Foto di Paola Cazzaniga




Domenica

Meron


di Miriam Camerini



Tutta la settimana ho tenuto lontano il male: a chi mi domandava come stavo, se avevo accusato il colpo di essere scampata al disastro che ha sconvolto il Paese in cui abito al momento, Meron, di cui ho parlato la scorsa settimana, dicevo: “No, sto benissimo, è stata un’avventura, certo, ma io ero lontano, i 45 che sono morti erano tutti uomini, beh, uomini e ragazzi e anche bambini, sì: è terribile, ma io ero nel settore delle donne, da noi tutto a posto. Certo: ho sentito, e sono stata parte di quella massa disordinata che cercava di scendere dal monte nella notte e ho visto i soccorsi che tentavano di salire e non riuscivano, e ho anche visto un ferito portato giù sulla barella, e a ben pensarci non lo so se era solo ferito, muoversi non si muoveva: forse era... Cioè, io non lo so: non l’ho mai visto... dal vivo, (ops: gioco di parole veramente involontario, come si dice) un m...”.

E la radio continua a parlarne, e le persone a scrivermi, amici e conoscenti, anche persone che seguono il mio lavoro, e che non ho ancora mai incontrato, mi scrivono tutta la settimana per sapere come sto. E io a tutti dico: bene, dai. Parlo con giornali e giornalisti, con la TV e con la radio: a tutti dico che non mi sono spaventata, no, semmai indignata, del comportamento incosciente di questi e irresponsabile di quelli. Essere arrabbiati è più facile che dire: “Sono triste, ho avuto paura e non ne ho ancora veramente parlato con nessuno”.

La mia famiglia non è qui, ho voluto solo rassicurarla, non volevo si preoccupassero per me, così a distanza.

Però fatico a dormire e anche a lavorare: mi sento stanca e senza forze, non ho pazienza per nessuno.

Martedì alla scuola dove studio per diventare rabbina discutiamo di come possa la alachà, il sistema normativo ebraico, provocare sofferenza nelle persone che ad essa si sentono vincolate: a porre la domanda è una mia collega, giovane, in attesa della prima figlia, intelligente, studiosa, estremamente onesta e rigorosa: secondo lei la alachà è diretta emanazione divina; se la divinità, come lei crede, è buona, e la norma è la sua parola, come può questa parola aggiungere dolore nel mondo, invece che sollevarne?

All’inizio provo fastidio per la domanda, la mia reazione prima è: se queste regole ti creano sofferenza perché le segui? Chi ti obbliga? Io faccio solo le cose che mi fanno stare bene, non seguirei mai una regola che mi peggiorasse la vita, mica credo nel fulmine che scende a incenerirmi, e nemmeno all’aldilà...

Siamo nel XXI secolo. Penso a un ordine cosmico dove tutto è giusto perché ciò che è male per uno è bene per un altro, mi torna in mente una scena de La Danza della realtà di Alejandro Jodorowsky in cui una mareggiata uccide - portandolo in secca - un intero branco di sardine, per la gioia dei gabbiani. Il giovane Jodo capisce lì che la vita è più potente di qualunque misericordia parziale, decide lì e per sempre di stare dalla parte della vita, che è superiore al mare, alle sardine e anche ai gabbiani. Momento hegeliano, faustiano, forse anche un po’ fascista? Eppure, o forse proprio per questo, è una scena che mi ha sempre dato un brivido di piacere vitalista e vagamente immorale: stare con chi vince, andare avanti, non lamentarsi, soprattutto non lamentarsi, mai. Tutto quel che succede è giusto: se ci sei rimasto sotto (ai poveri corpi caduti uno sull’altro a Meron, nella marea dell’Oceano cileno di Jodorowsky) vuol dire che un po’ te lo meritavi, non hai fatto nulla per evitarlo, problemi tuoi che stai con i “perdenti”.

Cito uno dei miei eroi intellettuali, il tardo-illuminista tedesco luterano Gotthold Efraim Lessing, che, dopo aver perso a pochi giorni di distanza la moglie e l’unica figlia, da essa appena messa al mondo, scrive una lettera che ho sempre trovato esaltante, nella sua sublime razionalità che sfiora la pazzia (forse la raggiunge anche). Scrive Lessing, moglie e neonata appena seppellite: “Ho provato anche questo dolore. Mi conforta sapere che non ce ne possono essere di molto più grandi”. Ricordo che quando lessi da ragazza queste poche e asciutte parole provai venerazione per tanta fortezza di spirito.

Martedì, mentre discutiamo, qualcuno in classe cita Maimonide, medico e pensatore ebreo fra i più razionalisti del medioevo, il quale scrive che l’uomo che soffre delle sue disgrazie - sta commentando Giobbe - patisce niente altro che la sua propria ignoranza e scarsa intelligenza: fosse più sofisticato saprebbe dare un senso a ciò che gli accade, oppure - facendo l’intero giro del cerchio per tornare al punto di partenza - smettere di cercarlo e vivere in pace. Penso a Lessing e alla mia visione faustiano-jodorowskiana e iper-intellettuale del dolore (soffrire è da poveretti) e sbotto in classe, mentre tutti i miei compagni e le mie compagne sono scandalizzate dall’elitismo sentimentale maimonideo: “Oh, questa è la prima cosa sensata che sento da quando abbiamo iniziato!”.

Poi però mi ricordo che è Lessing stesso, nel proseguimento ideale di quella lettera che è il Nathan il saggio, sua ultima opera e capolavoro, a far dire a un autobiografico Nathan, che ha perso moglie e figli in una sorta di pogrom: “Per giorni mi rotolai nella polvere, finché mi rialzai e dissi a Dio: Io voglio, se Tu vuoi che io voglia!“. Lessing stesso cita Giobbe, lo accosta a sé e al personaggio Nathan, ne ammira forse proprio ciò che lui non ha: la capacità, infine, di lamentarsi, che però anche per Giobbe è un risultato, un punto di arrivo.

Un compagno di classe, a fine lezione, mi mostra una lettura di Giobbe diversa, quasi opposta a quella di Maimonide: lo Zohar, il testo base della mistica ebraica, dice che la “colpa” di Giobbe è proprio l’apparente virtù con cui ci viene presentato nei primi versi: si tiene lontano dal male, presenta all’Eterno solo olot, quel particolare tipo di olocausti che salgono interamente, di cui non si mangia nulla, di cui tutto deve bruciare. Giobbe non mangia, non tiene nulla per sé, è puro, purissimo, non si sporca le mani, non tocca la carne, si tiene lontano dal male. E allora è il male a venirlo a trovare, finché impara a lamentarsi, a chiedere conto.

Venerdì sera vado a trovare una famiglia che sta affrontando un dolore indicibile, al quale ho pensato tutta la settimana ma di cui avevo una paura tremenda, tanto che l’idea di stare lì con loro qualche ora mi terrificava, pur sapendo che alla fine lo avrei fatto, perché volevo e perché me lo avevano chiesto. Come avviene quasi sempre in questi casi, le persone coinvolte sono molto più coraggiose di quelle che dovrebbero dar loro coraggio; la mia visita mi arricchisce e mi insegna: a volte non bisogna tenersi lontani dal male, ma immergercisi fino al collo, smettere di aver paura.

Sabato mattina vado in sinagoga e finalmente trovo il coraggio di recitare la benedizione pubblica per lo scampato pericolo. Adesso lo posso dire: “Grazie Eterno per non avermi seppellita a Meron”.



Foto di Paola Cazzaniga