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Neo-cinismo e capitale



di Emiliano Bazzanella



In un saggio editorialmente molto fortunato del 1983 - Critica della ragion cinica - Peter Sloterdijk tratteggia quasi un compendio di quel dispositivo di sicurezza di cui ci parla Michel Foucault nei suoi ultimi corsi al Collège de France (1977-1978). L’idea è che il presente sia assorbito da un intenso lavorio collettivo finalizzato a liberare quanto più possibile l’individuo dalle ansie e dalle  preoccupazioni, nell’ambito di una visione statistica, quantitativa ed economica della realtà sociale. Ogni evento viene diluito in una serie di saperi, di quantificazioni oggettivanti e di valutazioni sul costo-benefici dell’intervento riparatorio: l’esistente perde per così dire “sostanza”, poiché l’unico scopo è quello dell’essere sine cura, magari delegando ad altri delle mansioni oppure scaricando le proprie responsabilità. Ma perché il soggetto delega sempre agli altri la propria assenza di preoccupazioni? E perché non si prende alcuna responsabilità, mentre tutti gli altri, dal suo punto di vista, sono responsabili? Cè effettivamente quello che potremmo definire un milieu o, forse più semplicemente, uno stile ricorrente che ritroviamo in quasi tutti gli aspetti della vita sociale contemporanea. Indubbiamente la parola che ci sovviene con maggiore facilità è cinismo, anche se dobbiamo distinguerlo da quello che invece caratterizzò il filosofo greco Diogene di Sinope, cioè una sorta di primigenio anticonformismo all’interno della pólis ateniese; il cinismo moderno non ha alcuna pretesa filosofica ma si presenta come un modus esistenziale, un atteggiamento nei confronti degli altri che associa un’acuta consapevolezza a una spregiudicatezza nell’azione che via via ha assunto nel tempo un connotato sociale positivo.

Il cinismo classico (Kynismus) sorge come una protesta nei confronti dell’idealismo dominante ateniese (Sloterdijk, 1983, p. 43) e assume delle caratteristiche esattamente opposte dal momento che si tratta di un pensiero che non si disperde nelle “idee”, ma che è tutt’uno con la vita: “il kinico scoreggia, caca, piscia, si masturba sull’agorá di Atene; il kinico disprezza la fama, se ne infischia dell’architettura, nega a tutto il dovuto rispetto, ama parodiare le storie degli dèi e degli eroi, mangia carne cruda e verze crude, si sdraia al sole, celia con le puttane e dice ad Alessandro Magno di levarsi dal sole, di farsi più in là” (ibidem). L’esistenza dell'uomo è in sé filosofica e anticonformista, cosciente che il trucco immunitario delle idee socratiche in fondo costituisce una fiction sociale alla quale tutti si adeguano per convenienza o per timore. Diogene scompagina tutto ciò diventando l’anti-Socrate o, meglio, il vero antagonista di Socrate che gioca pressapoco con le stesse armi, non scrivendo o parlando ma “vivendo”. “Così facendo il filosofo conferisce all’ometto dell’agorá il medesimo diritto di vivere senza vergogna la dimensione corporea, contrastando ogni forma di discriminazione. La costumatezza e l’eticità saranno pur buone cose, ma anche la naturalezza è un bene. Lo scandalo kinico non vuol dire altro che questo. Dato che il vivere viene esplicato dal philosophari, il kinico dispiega in piazza la dimensione repressa del sentire...” (ivi, p. 46).

Il cinico moderno si pone quasi allantitesi della posizione di Diogene: è ugualmente acculturato e intelligente, ma non utilizza queste doti per opporsi all'ideologia dominante attraverso un vissuto esemplare e anticonformista, ma le utilizza per integrarvisi meglio, per essere solidale e coerente con essa: "uno dei portavoce più puntuali del paradigma cinico moderno, Gottfried Benn, ne diede la definizione del secolo, lucida e svergognata: ‘essere scemi e avere un lavoro, questa è la fortuna!’ Il rovesciamento della proposizione ne mostra l’intero contenuto: essere intelligenti e, ciononostante, fare il proprio lavoro; è questa la versione moderna, malata e illuminata della coscienza infelice, cui non è dato ritornare sempliciotta perché le innocenze, una volta perdute, non si riacquistano più" (ivi, p. 16). Sottolineiamo anche noi il ciononostante: il neo-cinico è un consapevole opportunista che critica la società in cui vive, ma che cerca al contempo di sfruttarla al meglio per affermarsi e avere successo. Per Sloterdijk questa nuova condizione rappresenta il culmine di una crisi illuministica di cui Nietzsche riveste il capitolo finale: lanalisi critica del mondo e delle sovrastrutture sociali, la transvalutazione dei valori e la realizzazione del sé attraverso una volontà di potenza che prescinde dall'ambiente e dalla comunità. Il cinismo è falsa coscienza illuminata, ossia la modernizzazione infelice della coscienza alla quale l’illuminismo ha lavorato, a un tempo, con successo e inutilmente. La moderna coscienza infelice ha imparato la lezione illuminista, ma senza trarne le conseguenze (né del resto poteva). Insieme privilegiato e miserabile, questo stato di coscienza non può essere scalfito da alcuna critica dell’ideologia: la sua falsità viene mediata dalla riflessione (ivi, p. 14).

In apparenza questa definizione può apparire contraddittoria dal momento che assembla in modo ardito la dimensione della “falsità” con una consapevolezza riflessiva e illuminata. Come si può essere illuminati se si gioca sull'ipocrisia e sulla menzogna? Che coscienza è quella che, pur consapevole, mente a sé stessa per puro opportunismo? Cè un capovolgimento del motto di Marx non sanno quello che fanno, ma lo fanno che si trasforma nel “sanno quello che fanno, ma lo fanno”, meccanismo persino troppo evidente nell’attuale comportamento delle società umane sviluppate a fronte della consapevolezza collettiva delle conseguenze quasi apocalittiche del proprio agire, come l’inquinamento, il mutamento climatico, l’esaurirsi delle risorse naturali, etc. Sappiamo che stiamo contribuendo significativamente all’incremento dell’effetto serra, alla crisi delle riserve idriche, alla “plastificazione” irreversibile dei mari, ma lo facciamo ugualmente per ragioni contingenti di potere e di apparente benessere. Da tutto ciò deriva quell’infelicità della coscienza che ha delle risonanze hegeliane poiché deriva da una scissione della coscienza, dal sapere che in fondo nulla ha senso ma che proprio per questo bisogna agire insensatamente per perseguire il successo momentaneo ed effimero. L’uomo moderno neo-cinico è al contempo potente, sapiente ma terribilmente infelice, costretto a perpetuare i propri successi terreni anche a costo di sofferenze e fatiche, nell’amara consapevolezza dell’insipienza e immoralità della sua vita e delle sue azioni. Se nel cinico classico la scissione tra consapevolezza ed esistenza si saldava in un’unica figura o, meglio in un “corpo” che incarnava nella pelle, nei pori e negli sfinteri il sapere astratto, nel neo-cinico prevale una resistenza generale nei confronti di questa bizzarra comunione, condannandosi però in tal modo a un’infelicità cronica e a una condizione esistenziale depressa.

Abbiamo introdotto la suggestione del neo-cinismo poiché essa si sintonizza nelle sue contraddizioni con quell’atmosfera di “indifferenza” che caratterizza il tardo-capitalismo e il meccanismo di rivoluzione permanente che esso mette in atto. Il cinico sa che l'esistenza è perpetuamente critica e che vacilla in continuazione, ma proprio per tali ragioni ha deciso di votarsi a quel sistema che fa della crisi il suo cardine funzionale. Il tardo-capitalismo è possibile in effetti soltanto se gli attori sono ben consapevoli di quello che fanno e dell’insensatezza dei loro atti, ma ciò nonostante lo fanno e continuano ostinatamente a farlo. Nella depressione generalizzata dei saperi ridotti all’autocoscienza della propria vanità, non rimane che l’estrema risorsa cinica di un agire immorale e privo di responsabilità che mira esclusivamente al potere, al dominio e al godimento dell'istante. L’accumulo insensato di ricchezze travisa la circostanza ingenuamente illusoria che il denaro possa garantire sicurezza e felicità, mentre il cinico è comunque ben consapevole della sua assoluta vacuità; però l'accumulo insensato rimane funzionale all’acquisizione di un determinato rango sociale, alla competizione spietata, all’esibizionismo e al conseguimento di un potere del tutto transeunte. Il tardo-capitalismo trova forse nel cinismo moderno il plateaux ideale in cui svilupparsi e accordarsi nelle sue infinite diramazioni, e il soggetto cinico diviene il vettore ideale per propagare il suo saggio di un consumo parossistico, che è funzionale all’arricchimento personale e a un supposto benessere momentaneo, ma soprattutto che è capace di rigenerarsi in continuazione, creando sempre nuovi bisogni, nuovi oggetti di consumo e nuovi mercati.

 

FOUCAULT, M., - Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France 1977-1978, Seuil-Gallimard, Paris 2004; tr. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005.

SLOTERDIJK, P., Kritik der zynischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983; tr. it. di A. Ermano, Critica della ragion cinica, Cortina, Milano 2013.