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I sette sacramenti, Estrema Unzione, Pietro Longhi, 1755/1757 - Pinacoteca Querini Stampalia (Venezia) - immagine tratta da commons.wikimedia.org




Estrema unzione


di Dario Culot

Da quel che ricordo io da piccolo, questo sacramento consisteva in un’unzione data dal prete, spesso chiamato in fretta e furia, a una persona che stava per morire, quando magari non era più neanche cosciente e consapevole di cosa le succedeva attorno.

Ma anche questo sacramento riconosciuto come tale dalla Chiesa cattolica, non mi sembra trovi la sua origine in Gesù e nei vangeli. Dice in effetti il n.1510 del Catechismo, che la Tradizione ha riconosciuto in questo rito uno dei sette sacramenti della Chiesa,[1] e se ne parla nella lettera di Giacomo, il quale fa però questo invito: “Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato; il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati” (Gc 5, 14s.).

L’estrema unzione trova dunque fondamento nella lettera di Giacomo (Gc 5, 16), il quale però parla di unzione del malato in vista della guarigione (come conferma il n. 1526 del Catechismo). L’art.1514 del Catechismo dice in effetti che non occorre essere in fin di vita, ma basta che, per malattia o per vecchiaia s’incominci ad essere in pericolo di vita. Già c’è qualcosa di diverso. In effetti, se il malato di cui parla Giacomo non appare in pericolo di vita, l’unzione non può essere detta estrema. Inoltre Giacomo parla degli anziani della comunità chiamati a praticarla, ed essi non s’identificavano con gli odierni presbiteri, o preti. La parola ha cambiato di significato nel tempo. Infatti nei vangeli i presbiteròi sono gli anziani. Ad esempio, quando Gesù fa capire che “i pubblicani e le prostitute” (Mt 21,32) precedono gli altri perché accettano il messaggio che viene rifiutato da altri, questi altri sono identificati come i “sacerdoti e gli anziani” (Mt 21,23). Non avrebbe senso, infatti, parlare di sacerdoti e presbiteri. Inoltre si parla di anziani al plurale, non dell’intervento di un singolo prete; infine non si parla di consacrazione dell’olio, quanto di massaggiare[2].

Ora, è indubbio che un ammalato il quale si sente accudito e amato ha più possibilità di guarire di un ammalato che si sente abbandonato, ma anche quando la malattia è ad esisto infausto, un accompagnamento da parte di una comunità, seppur piccola, che esprime alla persona costretta a letto una forte solidarietà, può essere sicuramente di conforto. Quindi capisco l’idea di una comunità che si raccoglie attorno all’ammalato e con la sua costante presenza gli esprime il proprio affetto, la propria solidarietà, la propria vicinanza, il proprio accompagnamento anche verso la morte, perché così si sta comunque comunicando vita in quel momento delicato. Credo che così sia successo a padre Bolla che ha vissuto in mezzo agli indigeni dell’Amazzonia, rispettato e amato, senza però mai aver battezzato nessuno di loro. Fosse tornato in Italia, probabilmente avrebbe finito i suoi giorni in qualche RSA o in qualche corsia d’ospedale, in totale solitudine, o quasi. In Amazzonia è morto circondato da una comunità di pagani nella quale viveva da anni, che gli ha mostrato fino alla fine il proprio affetto. Forse simile condotta è valsa più del sacramento che nessuno ha potuto somministrargli.

Non possiamo dimenticare che il proprium del comportamento basilare di ogni credenza religiosa è il rito. E perché succede questo? Ogni rito è un’azione che, dovuto all’osservanza esatta delle norme (nelle quali consiste il rito), finisce per costituire un fine in sé. E quando il fine è adempiere al rito nell’osservanza delle sue precise regole, il resto non conta. L’osservanza esatta del rituale sacro produce pace nella coscienza dell’uomo religioso, e colui che ha la sua coscienza in pace automaticamente si disinteressa delle altre questioni ed esigenze alle quali non presta attenzione. Può perfino succedere (e purtroppo succede) che il soggetto osservante non si renda neanche conto dei doveri etici che lo dovrebbero coinvolgere, ma dai quali in realtà non resta coinvolto: ad es., quando il proprio caro ha ricevuto l’estrema unzione dal prete, il buon osservante non crede che l’ammalato abbia bisogno d’altro, perché ormai quello che si doveva fare è stato fatto. Forse i pagani dell’Amazzonia si stupirebbero nel vedere così (non) accompagnato un vicino verso la morte da parte di chi si dichiara cristiano. Se la loro presenza è continua e costante, non dovrebbe anche il parroco (o un suo confratello) presentarsi ripetutamente in casa dell’ammalato grave e non solo per dare l’estrema unzione?

Non capisco perciò il senso dell’estrema unzione se ci si limita a un intervento individuale di un prete, che una sola volta si presenta per effettuare un mero rito, senza partecipazione della comunità, che prima di quel rito non si è mai fatto vedere in quella casa e che dopo questo rito se ne va per altre incombenze senza più ritornare. Può darsi che anche così l’ammalato si senta sollevato. A me però simile rito sembra l’ennesima riprova che, dopo venti secoli, ci portiamo ancora dietro il legalismo religioso antico, non solo cristiano, perché molti di noi sono ancora oggi convinti che ci si salva mettendo l’accento sul rito, sul comandamento, sull’aspetto legale, sull’essere a posto con i comandamenti della Chiesa e quindi con Dio, dove tutto si esaurisce in vuoti automatismi. Con tutti questi bei timbri di merito, con tante messe domenicali, con tante eucaristie e adesso perfino con una tempestiva estrema unzione, cosa aspetta Dio a ringraziare questo fedele ammalato, che fra poco sarà davanti a Lui? Ha fatto scrupolosamente tutto quello che si doveva fare.

Personalmente, però, sono dell’idea che se l’estrema unzione si limita a un rito del genere, non serve a nulla.


NOTE


[1] Non moltissimo tempo fa, la Costituzione apostolica Sacram uncionem infirmorum del 30.11.1972 ha sostanzialmente confermato il rito sacramentale.

[2] Ricca P., Ego te absolvo, Claudiana, Torino, 2019, 36 nota 45.