The Rabbi is in


A Oriente


di Miriam Camerini

Come scrivere un diario personale, quel che mi è stato chiesto all’inizio di questa rubrica, quando cose che non avremmo mai immaginato di vedere succedono nel mondo, nel nostro mondo, così vicino a casa?

Quanto è difficile parlare di sé quando in un paio di settimane un milione e mezzo di esseri umani, donne, bambini e anziani hanno perso tutto quel che avevano, casa e routine, vestiti e libri, giocattoli e ricordi nel tentativo di preservare – forse – solo la vita?

Hanno dovuto lasciare indietro padri, fratelli, mariti e compagni e amici, rimasti a combattere per cercar di salvare, di tutto quel che han perso, qualche cosa.

Ognuno di noi, ogni giorno di queste due settimane, ha reagito come ha saputo e potuto: Facebook è invaso di messaggi e post di persone che conosco, amiche e amici musicisti, per esempio, che vivono in Ucraina e che ogni mattina ci raccontato della notte passata nel bunker, di chi cerca un passaggio e di chi già è riuscito ad andarsene.

Molte e molti di noi stanno organizzando passaggi in auto dal confine e ospitalità nelle case, spedizioni di denaro e di generi di prima necessità. Si cercano monopattini e carrozzine, pannolini e coperte, posti letto e posti a scuola. “L’Europa”, mi scrive un caro amico serbo, professore di Storia moderna all’Università di Belgrado, “si sta mostrando molto più unita ora che in tempo di pace, e ne uscirà rafforzata”. Voglio credere a lui e non a quelli che dicono il contrario, ma certo: lui è sempre stato uno molto ottimista.

Nel mio mondo, caldo e felice, questa settimana è stata, tanto per cambiare, piuttosto movimentata: lunedì mattina mi sono svegliata a Madrid, ho salutato gli amici che mi avevano lì ospitata e preso un aereo per Bologna, da dove ho proseguito, in treno, per Pesaro. Un progetto al quale lavoravamo da tempo vedeva finalmente la luce: un concerto e poi un piccolo convegno dedicato al femminile nell’ebraismo, un confronto con una giornalista musulmana e una teologa cattolica, davanti e assieme a una platea di studentesse e studenti del liceo, bravissime, preparatissimi, informate.

Il concerto è bello: canto ninna-nanne di madri e padri che descrivono al bambino in culla quel che studierà appena sarà grande abbastanza per andare a scuola, canzoni di lotta dedicate a donne rivoluzionarie, la canzone sefardita di una “mal maritata” e un’appassionata canzone d’amore yemenita/israeliana, seguita dal dialogo fra madre preoccupata e figlia innamorata, uguale in yiddish come in dialetto laziale, a dire che certi palpiti non conoscono confini, anzi: li attraversano.

Difficile stare sul palco - bellissimo, quello della ex-chiesa della Maddalena, spazio vibrante e suggestivo - e sapere che fuori c’è la guerra, che la rivedremo fra solo un’ora, appena finirà il concerto e riaccenderemo il telefono.

La ballata yiddish di un poeta che ricorda la sorella, “bruciata a dieci anni da un tedesco, a Treblinka”, e Had Gadyah, il canto della Pasqua ebraica cui si è ispirato Angelo Branduardi per la sua Alla fiera dell’Est, entrambe scritte dalla grande cantautrice israeliana-polacca Hava Alberstein, ci parlano di un eterno ritorno della violenza, un ciclico susseguirsi e ripetersi di uccisioni e distruzioni che finisce però con una domanda: quando arriverà la primavera, la Pasqua, la liberazione e la redenzione?

E allora torniamo - anche noi tre, lì sul palco, Manuel, Rouben e io, ognuno con il suo strumento musicale - all’inizio, alla speranza della nascita e della rigenerazione: la prima canzone che ho cantata in yiddish, da sola, entrando, parlava d’amore e di notti insonni, di palpiti del cuore che in men che non si dica si trasformano in pianti di neonati e preoccupazioni per le figlie adolescenti a loro volta alle prese con i primi amori: com’è come non è, il risultato è che non si dorme comunque mai: “L’amore, ma chi è che l’ha inventato?” mi chiedo cantando, mentre fingo uno sbadiglio rassegnato e ancora, comunque, felice.

Alla fine di questa nostra rapsodica navigazione - la pedana sulla quale stiamo, al centro della chiesa, pare davvero una zattera in mezzo al mare - ci troviamo sul Mar Rosso, all’inizio di tutto, a celebrare il parto più scenografico della Storia biblica: l’apertura del mare e l’uscita del popolo di Israele verso la vita e la libertà, verso il gioco della Torah e l’età adulta.

Quelle donne che cantano e danzano, suonano flauti e tamburelli che hanno portato con sé uscendo dalla strettoia dell’Egitto mi ricordano davvero le levatrici ebree che aprono il libro dell’Esodo, promessa di nascite e di miracoli. Canterò al Signore perché si è mostrato grande: ha annegato cavalli e cavalieri ripete - quasi in un mantra ipnotico - la nostra ultima canzone, citando la profetessa Miriàm e le altre (così si chiama infatti il nostro spettacolo) donne di Esodo 15. Per quanto trionfale, il momento non è guerresco: l’intenzione che do, cantandole e scandendole, a quelle parole di vittoria è che i cavalli e i cavalieri annegati rappresentano un sistema di potere e oppressione, gerarchia e schiavitù, un mondo “a piramide” in cui pochi stanno a galla e tutti gli altri sono sommersi. Quel mondo, alla fine della nostra storia, questa sera, vogliamo dimenticare, per uscire verso la Pasqua e la libertà, verso un coro di danza in cui tutte sono uguali.

Bello celebrare così l’8 Marzo, qui nella chiesa della Maddalena. L’indomani incontro le studentesse e gli studenti e - arricchita dalle loro domande di grande profondità - proseguo il mio viaggio verso Venezia.

La luna è piccola ma crescente e un po’ sdraiata, come fosse già in Oriente. Passeggio e ceno, risolvo una dolorosa incomprensione con un amico lontano e questo illumina l’intera giornata seguente.

Un incontro allegro con persone che stimo e con le quali - spero - faremo presto belle cose artistiche dà il tono a una giornata di splendore veneziano; alla sera torno a Milano per celebrare e festeggiare un’amica che compie gli anni.

Le solite poche e frenetiche ore a Milano per sistemare questioni e vedere due amici ed eccomi nuovamente sul treno, di notte, alla volta di Vienna e da lì verso Budapest: voglio dare una mano con i profughi dove e come potrò: si va a Est. Una nuova avventura inizia oggi, alle porte dello Shabbat.

Foto di Paola Cazzaniga