Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

“Il cammino verso Emmaus” (Lc 24,13–35), Franz Ittenbach, Museo Kolumba, Colonia; Copia personale, 1836, del dipinto del 1835, nella Fondazione Moritzburg, Halle / Saale - foto tratta da commons.wikimedia.org




La discepola di Emmaus, la deistituzionalizzazione, il 18 aprile e “The rabbi is in




di Stefano Sodaro

Ricorrono esattamente quest’oggi trent’anni da un tragico accadimento che segnò la storia di Trieste.

Il 18 aprile 1991 quattro bambini Tamil, in fuga dalla guerra nello Sri Lanka, morirono di freddo in braccio alle proprie madri sul Carso, a pochi chilometri dall’entrata in centro città.

Erano famiglie induiste, non cristiane, ed il Vescovo del tempo, Mons. Lorenzo Bellomi, si prodigò in ogni modo non solo perché fossero accolte, ma anche perché si assicurasse lo svolgimento dei funerale dei piccoli secondo la stretta osservanza della tradizione induista. E così avvenne.

Le loro tombe sono presenti nel nostro Cimitero cittadino. Lì mi recai, da solo, – è una confidenza personale che supera un certo pudore - quando si celebrarono, a Molfetta, due anni dopo (ed a soli due giorni di distanza, il 20 aprile 1993), le esequie di un altro Vescovo, Tonino Bello, alla medesima ora di inizio di quel rito in terra di Puglia.

Nella vita può accadere di dover maneggiare improvvisamente, senza alcuna iniziazione al riguardo, e pure magari senza alcuna particolare propensione o simpatia, il mondo “psi”, oscuro ed abbacinante allo stesso tempo. Che non è un universo separato dal corpo, dalla materia, dalla fisicità e della fragilità di ciò che effettivamente sperimentiamo nella fragilità della nostra carne – tanto più in un momento come l’attuale -, bensì aderisce alla totalità indissociabile tra mente e corpo, della nostra esistenza.

Eppure dire “mente” - “psi” - è ancora dire poco, troppo poco. Dire “corpo” è dire molto di più.

Ma, come rifletteva Pier Aldo Rovatti venerdì scorso su “Il Piccolo” – il quotidiano di Trieste -, noi abbiamo perso la capacità di ascoltarci.

La morte per freddo dei quattro bambini Tamil mise in ascoltò la città, trent’anni fa, non solo degli altri – altri completamente sconosciuti, diciamo la verità: che cosa mai sapevamo noi qui della guerra nel nord Sri Lanka? -, ma anche di se stessa. Trieste ebbe la straziante opportunità – non saprei come altro dire – di interrogarsi e di non affrettarsi, però, subito a dare risposte, bensì di rimanere interrogata, in ascolto, di sospendere conclusioni, teoremi, coerenze razionali, che spesso prendono la scorciatoia della semplificazione, alleata della complicazione e nemica giurata della semplicità.

Nel rito cattolico romano si legge oggi un brano evangelico di Luca che fa solo un veloce accenno ai fatti di Emmaus (fatti “psichici” o materiali, tangibili?). Nella versione greca si trova questa descrizione: κα ατο ξηγοντο τ ν τ δ κα ς γνώσθη ατος ν τ κλάσει το ρτου, che si pronuncia all’incirca con “kài autòi exegùnto tà en tè odò kài hos eghnòsthe autòis en tè klàsei tù àrtu”. Il significato è: “essi raccontarono ciò che era successo per strada (i fatti della strada) e come si era fatto da loro conoscere nello spezzare il pane”.

Letto così, è un testo decisamente molto laico e molto concreto. La strada, il discorrere di fatti, il pane che è spezzato a tavola.

E tuttavia c’è anche il “riconoscimento” che sembra afferire ad un occhio diverso da quello che consente la vista immediata.

Il pasto di Emmaus è ad un tempo istituzionale, in quanto concretissimo, tangibile, immediato, naturale – per così dire -, eppure è anche altro. O viceversa, capovolgendo la prospettiva: il “riconoscimento interiore” ratifica una istituzionalizzazione trascendente, sancisce cioè l’esistenza di una “Chiesa” - per quanto embrionale, in nuce, appena accennata -, eppure tale istituzionalizzazione subisce anche il “tradimento” della concretezza, della materia, del pane e della strada.

Chi erano i due di Emmaus? Niente ci impedisce di pensare che almeno uno fosse una donna, ma non – come alcuni hanno proposto – fidanzata, o sposata, all’altro componente della singolare coppia “per strada”. Piuttosto una donna libera, indipendente, autonoma, capace di giudicare, di scegliere, di raccontare, di scrivere, di riferire, a prescindere dal credito poi ottenibile ed effettivamente ottenuto.

Il 1968 sancì lo spartiacque di una rivoluzione culturale che non è più alla moda celebrare, mentre sarebbe di estrema attualità decretarne il fallimento, magari tra ironie e sberleffi. Un’intera cultura, quella della soggettività, viene sbrigativamente liquidata con qualche veloce battuta, ma la teoria dei bisogni di Ágnes Heller è ancora lì che ci interroga ed il disagio “psi”, che contraddistingue le sofferenze atroci dei nostri giorni, nasce proprio dalla rimozione di quella teoria in nome dell’abolizione del ’68. Non molto diversamente da quanto accadde, solo qualche anno fa, con don Lorenzo Milani (la cui madre, pare sempre utile ricordarlo, era triestina ed ebrea, Alice Weiss).

L’Associazione Culturale “Casa Alta” ha incontrato ieri il liturgista Andrea Grillo e la canonista Donata Horak intorno al noto Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede, del marzo scorso, che ha negato la possibilità di benedire un’unione tra persone dello stesso sesso.

La ricchezza del dialogo che si è sviluppato tra due così alte competenze – con l’intensa partecipazione di quante e quanti l’hanno ascoltato - conduce, anche in tal caso, a porre una domanda: è più utile istituzionalizzare, con un “responsum ad dubium”, o deistituzionalizzare con una “benedizione”, con un “dire bene”? Oppure anche una benedizione in verità “istituzionalizza”, mentre, però, deistituzionalizza il potere detentore di un’incapacità assoluta d’azione, che si dichiara infatti “non autorizzato” ad essa, a tale benedizione, nel caso di una coppia omosessuale?

Non è un caso che il confronto tra Grillo e Horak sia stato condotto e mediato da Emanuela Provera, una delle intellettuali più attente ad una dialettica culturale che non può liquidare la complessità, enormemente frastagliata, del dibattito in corso sul tema del genere, della gruppalità religiosa, della laicità, della credenza e dell’ateismo, del femminismo e dell’abuso, secondo logiche gregarie, di appartenenza, di autoriconoscimento appagante e definitivo. Attestano l’originalità di Emanuela Provera la sua intervista a Teresa Forcades, comparsa sul numero 600 del nostro giornale (https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-600/emanuela-provera-teresa-forcades-manifesto-di-una-teologa-queer) ed il suo intervento al Convegno “Fare memoria: l’amore, la legge”, dell’ottobre 2019 (https://www.youtube.com/watch?v=a1eHD12tbUo&list=PLdW52CP1_Yuht6wHl9Q-3hXcCpF11XXvj&index=12), oltre che le sue pubblicazioni, Dentro l’Opus Dei (http://www.chiarelettere.it/libro/reverse/dentro-lopus-dei.php) e Giustizia Divina (http://www.chiarelettere.it/libro/principio-attivo/giustizia-divina-9788861909359.php), di cui è coautore Federico Tulli.

Con questo numero, poi, il 605, il nostro giornale attua una vera e propria svolta.

Da oggi trova spazio, ne Il giornale di Rodafà, la rubrica settimanale The Rabbi is in gestita da Miriam Camerini, regista attiva a Milano, nata a Gerusalemme, che sta studiando per essere ordinata rabbino/a. Siamo onorati e felici di poterla avere con noi.

Scrive Miriam Camerini nel suo primo articolo per la sua nuova rubrica: A volte scherzo con me stessa o con pochi fidati amici e chiamo le ore che spendo ogni settimana nel tentativo di ascoltare, indirizzare, rispondere, a volte anche dirottare verso chi ne sa più di me, se necessario, “The Rabbi is in”: il rabbino c’è, parafrasando quella meravigliosa vignetta di Lucy dei Peanuts che allestiva un minuscolo stand, un gazebino di strada con sopra un cartello: “The Doctor is in” e da lì dava consigli, ma soprattutto ascoltava...

Ecco, dall’ascolto vorremmo ripartire. Un ascolto che è dinamica, gesto di silenzio, gioco inesausto ed inesauribile, tra una prospettiva istituzionale – quale indubbiamente anche il rabbinato è – ed una prospettiva, tuttavia, in cui ciò che sembra fuoriuscire dal contesto istituzionale, quale la ferialità quotidiana del gesto di spezzare il pane o del camminare per strada, rientra in un’attitudine liturgica che non ha paura di scavare dentro l’istituzione, di portare alla luce tesori sotterranei, nascosti, sorprendenti.

Del resto la celebrazione dello Shabbath questo fa, ogni settimana, e Miriam è autrice del volume Ricette e Precetti (https://www.giuntina.it/catalogo/fuori-collana/ricette-e-precetti-749.html), che abbiamo presentato a fine dicembre scorso (https://www.youtube.com/watch?v=z0M8GF8VUek), mentre speriamo di poter a breve organizzare a Trieste anche il suo evento “Lo Shabbath di tutti”.

Le parole sinora adoprate scontano una certa consunzione d’uso in tutti gli ambiti culturali, siano laici o religiosi. Il “nuovo” attende di essere detto, pronunciato, ma prima ancora intuito e prima ancora ascoltato.

Noi vogliamo provarci. Mettiamo in conto contraddizioni, sfilacciamenti e nuovi legami, studi da appena iniziare e amori da mantenere accesi.

Perché alla fine di questo si tratta: in una stanza luminosa accendere luci non fa alcun problema, ma progressivamente spegnerne sì, eccome.

Noi vorremmo stare nella stanza luminosa, provando a capire da dove venga la luce, quanto intensa sia e cosa illumini.

The Rabbi is in. Rodafà also.

Buona domenica.

(E, per qualcuno, anche buon compleanno, vecchio Rodafà!)