Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

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Mabel Allington Royds (1874-1941) - immagine tratta da commons.wikimedia.org










11. Domande e risposte su Chi è Gesù?


di Dario Culot




20. Lei ha detto che Dio ama tutti e bisogna smettere di avere paura di Dio; anzi secondo Lei Gesù nei vangeli non è mai violento, e quindi neanche Dio può essere violento, perché quel poco che sappiamo di Dio lo possiamo sapere solo guardando Gesù. Ma dimentica che Dio onnipotente, oltre a essere misericordioso è anche giusto. Perciò è fuorviante dire che Dio non farà giustizia, e fare giustizia vuol dire che non tutti si salveranno, perché ci saranno anche i castighi. Basta ricordare quante volte Gesù ha detto che tanti saranno cacciati nelle tenebre, dove vi sarà pianto e stridor di denti. Un’altra volta Gesù ha detto che per salvarsi si passerà da una porta stretta, e non tutti riusciranno a passare da quella porta stretta. Un’altra volta ancora ha detto che molti, ma non tutti, sono i chiamati. Oppure pensi all’episodio di Anania e Saffira che cadono stecchiti davanti a Pietro e alla comunità (che giustamente si spaventa) perché hanno imbrogliato Dio. Se è vero che a ucciderli sembra essere lo Spirito Santo, Gesù – seconda persona della Trinità, - partecipa attivamente, perché quello che fa una persona della Trinità lo fanne tutte e tre.

Mi sembra perciò che la Sua spiegazione di un Gesù che ci presenta un’immagine di Dio esclusivamente buono, anzi bonaccione, che perdona sempre tutti, sia piuttosto superficiale.

Bisogna aver paura di Dio? Certo, perché - come insegna la Bibbia – Dio onnipotente può essere di una violenza inaudita: «Un martello sei stato per me, uno strumento di guerra, con te martellavo le nazioni, con te annientavo i regni, con te martellavo cavallo e cavaliere, con te martellavo carro e cocchiere, con te martellavo uomo e donna, con te martellavo vecchio e giovane, con te martellavo ragazzo e fanciulla, con te martellavo pastore e gregge, con te martellavo l’aratore e il suo paio di buoi, con te martellavo principi e governatori. Ma ora ripagherò Babilonia e tutti gli abitanti della Caldea di tutto il male che hanno fatto a Sion, sotto i vostri occhi. Oracolo del Signore» (Ger 51, 20-24).

Non stupisce che, in una religione dove si crede che Dio stesso uccida e massacri, si compongano salmi nei quali le stragi compiute dal Signore siano viste come un segno della sua… misericordia (Sal 135-136), e sfracellare i figli dei nemici sia considerata una beatitudine (Sal 137, 9: Beato chi afferrerà i tuoi bambini e li sbatterà contro la roccia). Una volta si dava per scontato che Dio potesse essere violento, perché anche gli uomini erano più violenti[1]. In realtà questo Dio violento è creato a immagine dell’uomo violento. Crediamo che Dio pensi come noi, sì che c’immaginiamo che odia come noi odiamo e che uccide come noi uccidiamo. Ma oggi, che siamo un po’ meno violenti (tranne che in periodi di guerra), una simile immagine appare semplicemente ripugnante, tanto che in chiesa non sentirete mai leggere questi salmi disumani. Siamo sicuramente davanti a un lato oscuro della religione che deve essere spiegato, perché oggi crea problemi.

Che quel poco che sappiamo di Dio lo possiamo sapere solo guardando Gesù non lo dico io, ma lo dice il vangelo di Giovanni (Gv 1, 18): «Dio nessuno lo ha mai visto; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che ce lo ha rivelato»[2]. Ciò significa che Dio trascendente non sta alla nostra portata, per cui l’essere umano immanente non può conoscerlo. Solo in Gesù (in cui abita il Verbo, il Figlio unigenito) vediamo come si comporta Dio e possiamo conoscere qualcosa di Lui. Solo in Gesù vediamo Dio e solo in Gesù lo conosciamo. Quindi, i soli frammenti di Verità che possiamo cogliere li possiamo trarre dai fatti descritti nei vangeli, non dalle elucubrazioni dottrinali astratte e a volte fumose dei teologi. Infatti l’insegnamento e la predicazione devono essere basati esclusivamente sui vangeli[3]. È d’accordo? Se non lo è, dovrebbe spiegarmi il perché.

E allora, guardando all’inizio del vangelo Luca, vi aspettereste che il Salvatore del mondo possa presentarsi così? Soprattutto se è Dio? No di certo. Gesù è nato povero tanto da avere una mangiatoia per culla, e non in una reggia di una città importante. È nato fragile e indifeso come ogni bambino di questo mondo, e non ci viene presentato già adulto e indomito guerriero. Forse, con simile descrizione, l’evangelista voleva sottolineare, fin dall’inizio, che nessuno deve aver paura di lui. Chi può aver paura di un bambino che qualsiasi adulto può afferrare e ‘sbattere beatamente contro una roccia’? Chi oggi potrebbe pensare che Erode sarebbe stato beato se fosse riuscito a farlo? Oppure si possono ammazzare beatamente solo i bambini dei nemici?

È indiscutibile, come dice Lei, che nel vangelo si trovino vari passi ostici, per cui a volte è veramente impossibile accettare due immagini di Dio così inconciliabilmente contrapposte. Ma forse è ora di prendere atto che l’onnipotenza è un attributo che non viene mai dato a Dio nella Bibbia, mentre c’è da aggiungere che l’immagine di un Dio che può far tutto ciò che vuole (come è stato inteso comunemente il termine onnipotente[4] fino ad oggi) ha creato enormi problemi di fede, perché non spiega logicamente l’esistenza del male. Quando prendiamo in considerazione un solo attributo divino, il resto ci appare spesso perfino strano e contraddittorio: se Dio è onnipotente, come permette il male? Se Dio è amore, come può condannarci? Perciò, anche qui, è ora di cambiare l’approccio e l’insegnamento.

Ora, se torniamo all’esempio fatto sopra, Gesù (che per la religione è vero Dio) nasce in ristrettezze tanto da essere deposto in una mangiatoia, ed ha ovviamente bisogno di tutto: di essere pulito, cullato, allattato, protetto dal freddo. Se Maria e Giuseppe non gli prestano tutte queste cure, il bambino morirà entro poche ore. Se allora noi mettiamo vicino questa immagine tratta dai vangeli dell’impotenza più totale di Dio, all’immagine opposta che la religione ci ha sempre fornito dell’onnipotenza di Dio, qualcosa non quadra: è cioè vero quello che si è verificato a Betlemme oppure dobbiamo credere all’onnipotenza insegnataci dal magistero? Tutte e due insieme queste immagini non possono stare, sono incompatibili. Ma come detto, noi dobbiamo stare ai vangeli.

Allora, ammettiamo per un attimo che Gesù sia veramente Dio. Significativamente Gv 1, 38 chiarisce che alcuni si sono convinti che Gesù era il Messia dopo aver visto dove e come viveva. Il luogo dove uno vive indica già chi è quella persona, e a quelli che l’hanno inizialmente seguito non interessava tanto cosa diceva, ma vedere come viveva; una volta visto, l’hanno seguito. Gesù aveva detto che quelli che vivono nel lusso, vivono nei palazzi dei re (Mt 11,8). Il suo diverso modo di vivere è ciò che invece ha convinto quelle persone[5]. Inoltre, con l’aiuto di Dio, cioè con la forza dello Spirito, subito dopo il battesimo (Mc 1, 12) Gesù dovrà vincere la tentazione diabolica di essere il figlio di Dio come sarebbe piaciuto al diavolo:[6] quello dei miracoli, della fama, del potere, del trionfo. Se poi proseguiamo nella lettura dei vangeli, vediamo che durante la sua missione Gesù “non spezza una sola canna incrinata”, neanche spegne “una fiamma smorta” (Mt 12,10); non taglia né getta nel fuoco l’albero che non porta frutto (Mt 3,10), ma cerca di rianimarlo, zappando attorno alle radici e mettendo il concime per vivificarlo (Lc 13,8). Durante tutto il corso della sua missione Gesù appare fragile (pensiamo solo al fatto che deve fuggire per sottrarsi ai tanti tentativi di arresto o lapidazione, al momento del suo arresto, alla sua passione), come del resto è fragile la sua parola che, anche se Parola di Dio, non sempre viene accolta. La candela già basta per far arretrare le tenebre (Gv 1, 5), ma basta un soffio per spegnerla. È però altrettanto vero che basta un soffio debole per ravvivarla. E stando sempre ai vangeli, che se applicati veramente dovrebbero destabilizzarci ben più del Covid, solo dopo esserci messi «all’ultimo posto» (Lc 14,10) ed essere diventati “servi di tutti” (Mc 10,44), possiamo dirci cristiani[7].

Questo è stato il comportamento costante di Gesù, sì che non per caso lo stesso Giovanni Battista, dal carcere, aveva a un certo punto mandato una richiesta urgente a Gesù per cercar di capire una situazione che lo confondeva: non era più così sicuro che Gesù fosse il vero Messia proprio a causa del suo modo di comportarsi: ma come! lui nel deserto aveva predetto l’ira funesta di Dio conseguente al rifiuto della proposta di vita (Gv 3, 36), aveva predetto un battesimo in Spirito per coloro che avrebbero accolto il Messia, ma un battesimo in fuoco distruttore per coloro che lo avrebbero sdegnosamente respinto (Lc 3, 16), e invece Gesù tradisce questa immagine di un Dio violento. E, al pari del Battista, ancora oggi la maggior parte della gente sembra incapace di immaginare una generosità priva di qualche vincolo, sembra incapace di pensare che l’ingiustizia su questa terra possa restare impunita[8]. Insomma, tutti si aspettano un Salvatore diverso, e invece, come quasi sempre avviene, l’attesa s’invera in modo diverso. La risposta di Gesù a Giovanni Battista, ma che vale ancora oggi, termina con «beato colui che non si sarà scandalizzato di me» (Lc. 7, 23), cioè del mio comportamento.

Non basta, perché questo comportamento scandalizzante rimane uguale fino alla fine della vita di Gesù: quindi costante dalla nascita alla morte. “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso” (Lc 23, 35ss.). Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti - noi inclusi - concordano che il dover dipendere dagli altri è un segno di debolezza. L’onnipotente, ma anche solo il potente così come ce lo immaginiamo, è colui che salva sé stesso, ha i mezzi per realizzare i propri interessi senza avere bisogno degli altri. Per questo, Dio è ciò che non possiamo essere, il più potente dei potenti, quello che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Almeno così normalmente ce lo immaginiamo. Ma in tal modo Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri; e sotto sotto è ciò che ammiriamo nell’uomo politico riuscito, ricco, attorniato da belle donne e sicuro di sé. Ecco perché, di nuovo, siamo noi uomini che pensiamo da diavoli. Chi non ha mai sognato di avere il pugno proibito, alla Bud Spencer, per mettere a posto tanti sfacciati insolenti.

Però, se insistiamo nel credere che Dio è onnipotente, come si spiega che questo Dio, così buono e così potente, ha creato un mondo così contraddittorio e così malvagio? Già il romano-africano Lattanzio,[9] con nitida logicità ragionava in questi termini: o Dio vuole togliere il male da questo mondo, e non può, ma allora non è onnipotente; oppure lo può togliere e non lo vuole, ma allora è malvagio; oppure non vuole togliere il male né lo può, ma allora sarebbe malvagità e impotenza insieme; o finalmente lo vuole e lo può; ma allora da dove ha origine il male che è sulla terra?

Se accettiamo l’idea dell’onnipotenza divina inculcataci dalla solita religione, è chiaro che se un Dio onnipotente permette la sofferenza significa che non vuole la felicità degli uomini: basta guardarsi attorno per vedere quanta sofferenza e infelicità c’è su questa terra. Perciò, anche interpretare la passione e morte di Gesù come il risultato di una decisione del Padre del cielo, che aveva bisogno della sofferenza del Figlio per placare la sua ira contro gli uomini peccatori, vuol dire mostrare un dio sadico e impresentabile a qualunque persona di normale buon senso di oggi: quale padre normale vorrebbe la morte del figlio innocente, per di più con grandi sofferenze? Nessuno. Quale padre manderebbe lui stesso suo figlio alla morte? Un simile Dio ricorderebbe Kronos, il dio che divorava i propri figli. Inconciliabile con la descrizione di Dio dataci da Giovanni.

Torniamo alla fine della vita terrena di Gesù: crocifisso in mezzo a due ‘ladroni’[10]. Qui troviamo la sintesi del come si diventa discepoli. Il primo (Lc 23, 39[11]) sfida Dio, lo mette alla prova: “se sei Dio sei per forza onnipotente, e allora liberami da questa sofferenza; salva te stesso (di nuovo!) e noi, o almeno me”. Concepisce Dio come un re di cui lui è disposto ad essere suddito. Ma solo a certe condizioni, ottenendo in cambio ciò che desidera: la salvezza fisica all’ultimo istante. Non ammette le sue responsabilità, non ha interesse a rileggere la sua vita, tenta il colpo miracolistico. Non ha compassione, non s’interessa di Gesù, la sua richiesta trasuda egoismo. Come, del resto, spesso la nostra cd. fede. Cosa ci guadagno se credo?

L’altro, invece, è solo stupito. Non sa capacitarsi di ciò che accade: è veramente figlio di Dio quello lì al suo fianco che condivide la sua stessa sofferenza? (Mt 27, 54). Ma la mia sofferenza – pensa il secondo ‘ladrone’,- è conseguenza delle mie scelte di vita; invece Gesù è innocente. Ecco l’icona del discepolo: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione, non l’onnipotenza.

Il problema però è: ma lo vogliamo davvero un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli, ma incapace di risolvere con un atto di forza i loro problemi? È questo, davvero, il Dio che vorremmo? Di quale Dio vogliamo essere discepoli? Di quale re vogliamo essere sudditi?[12] In realtà Dio, l’Onnipotente si fa per dire,[13] resta impotente di fronte all’egoismo e alla violenza degli uomini. Neanche Gesù ha dato in tutta la sua vita una spiegazione sulla causa del male, ma si è limitato a cercar di alleviare le sofferenze delle persone che incontrava. Nessun essere umano può farsi carico di tutti, e neanche Gesù si è fatto carico di tutti. Ognuno deve semplicemente farsi carico degli altri che incrociano la sua strada. Neanche Gesù riesce a scendere dalla croce[14]. Neanche Gesù, senza quei cinque pani e quei due pesci (Mt 14, 17; Mc 6, 38; Lc 9, 13; Gv 6, 9), avrebbe potuto fare il ‘miracolo’ della condivisione. Occorre, allora, per prima cosa il nostro miracolo: la vittoria sull’egoismo, l’interessarsi agli altri, la condivisione, la compassione.

Curioso anche come alla fine del vangelo di Giovanni (Gv 21, 15ss.), Gesù, prima di andarsene, non chieda a Pietro se ha ben capito il suo messaggio, se ha finalmente capito che lui era vero Dio e vero uomo, ma vuol solo sapere se ha fatto nascere un po’ di amore. Alla fine, nonostante i dubbi, i tradimenti, le insicurezze dei suoi discepoli, Gesù non si arrabbia, non li castiga, non li manda a quel paese, non li allontana da sé; al contrario, lascia l’incarico di proseguire lungo la strada che lui ha iniziato a percorrere a delle persone capaci di amare almeno un poco, non a persone che credono fermamente in dottrine o dogmi.

Come è stato ben detto del cristianesimo, c’è futuro e speranza non nella crescita del potere e della ricchezza, ma solo nella convivenza e nella comunione con l’umano, con quello di più umano che c’è in ogni essere umano. Siamo tutti fratelli e solo se ci comportiamo da tali riusciremo a cambiare qualcosa. Finora non ci siamo riusciti in duemila anni, e anche la nostra generazione ha chiaramente fallito. Ma se noi cristiani non fossimo così preoccupati per capire chi è Dio, ma lo fossimo per il vivere (come è vissuto Gesù? cosa ha fatto Gesù per gli altri?), se accogliessimo il suo invito alla conversione (metanoia) in questa direzione, perché di questo ci parlano i vangeli, cambierebbe radicalmente il nostro rapporto con Dio e con gli altri.

Ma torniamo a vedere i racconti da Lei richiamati che sembrano smentire l’immagine di un Dio esclusivamente buono dataci da Gesù.

1. Lei, mi sembra, richiama la festa di nozze del figlio del re (Mt 22, 1-14), dove il padre pare vendicarsi degli invitati che hanno rifiutato l’invito, e mette a ferro e fuoco le loro città. Estende l’invito a chi si trova per strada, ma poi fa gettare fuori, nelle tenebre, dove ci sarà per l’appunto pianto e stridor di denti, uno dei poveracci che è venuto senza l’abito giusto. Ha commentato giustamente l’amica Vera Purini: “Ho sempre immaginato, fin da bambina, questi due sposi entrare in una sala preparata per una festa bellissima, e la trovano invece piena di straccioni, o quanto meno sconosciuti, recuperati per strada, dove non conoscono nessuno, accompagnati da notizie di distruzione di città e omicidi a causa della loro festa di nozze. Siamo davanti a un figlio che subisce l’ingombrante presenza di un padre violento, un figlio sopraffatto da un padre che gli rovina quello che doveva essere un giorno indimenticabile di festa; un padre che, con totale mancanza di attenzione per il figlio e per la sposa (che fra l’altro non viene neanche nominata), trasforma in tragedia quel giorno, che poi segnerà per sempre il futuro di questi sposi: un inizio disastroso per la loro vita coniugale. Dove sarebbe il Dio misericordioso in questo vangelo? Vedo solo il volto di un Dio crudele e lunatico, la cui immagine in realtà tutti noi ancora portiamo dentro nell’inconscio”.

Sta di fatto che di casi del genere, che ci creano dubbi e confusione sul vero volto di Dio, ne abbiamo diversi nei vangeli, ma bisogna ricordare anche che non si deve mai leggere il vangelo estrapolando una frase di qua o di là interpretandola letteralmente, perché si rischia di fargli dire cose che sono opposte al messaggio globale[15]. Del resto ogni racconto non è descrittivo di un fatto reale, ma deve essere un racconto che opera, e occorre vedere come ancora oggi funziona[16].

In effetti, se ci si ferma alla lettera del racconto si resta perplessi. Cominciamo dalla figura del re: così facile all'ira e alla vendetta, se la prende perfino con un poveretto solo perché non aveva avuto il tempo di cercarsi la veste adatta; lo fa legare e gettare nelle «tenebre esteriori», e intanto sembra perfino dimenticarsi del figlio che si sposa. Altro elemento di disturbo è la massima conclusiva: «Molti sono chiamati ma pochi eletti» (Mt 22, 14): ma come? la sala delle nozze non è forse piena? Forse la maggior parte verrà ributtata in strada con qualche scusa da questo re irascibile? Se andiamo a leggere un’altra parte del vangelo, la cena del Signore avviene in una stanza “grande” (Mc 14, 15). Ora, che fosse grande o piccola, storicamente per noi è irrilevante, ma il significato ancora una volta è solo teologico e l’evangelista con questo aggettivo ci assicura che c’è sempre spazio per tutti; almeno per tutti quelli che vogliono partecipare. Bisogna allora affrontare ogni parabola ricordando che non tutti gli elementi hanno lo stesso peso e sono ugualmente significativi. Alcune parole hanno il compito di trasmettere il messaggio, mentre altre fanno parte della struttura narrativa, servono cioè a dare colore al racconto.

Poi si deve tener presente che le parabole fanno necessariamente riferimento ad usi e costumi del tempo, oggigiorno completamente cambiati. Ad es., in allora tutti i matrimoni erano combinati. Nessun padre oggi, nella nostra cultura, deciderebbe per il matrimonio del figlio. Parlo di noi oggi nella nostra cultura, però sappiamo bene che in altre culture, specialmente nel medio/estremo oriente, i matrimoni combinati si usano ancora, e si fanno perfino sposare le bambine con maschi adulti. Peraltro, all’epoca, una festa di matrimonio durava anche una settimana, e coinvolgeva a vario grado tutta la comunità; il matrimonio reale perciò coinvolgeva tutti gli abitanti del regno, per cui è difficile immaginare che potesse essere contenuto solo in una sala, ed è anche difficile immaginare le tenebre, perché dopo le tenebre tornava la luce di un giorno nuovo, e poi di un altro giorno ancora, mentre la festa continuava. Inoltre, in quella cultura, si inserivano facilmente nella parabola degli atteggiamenti irreali con il solo scopo di attrarre l’attenzione. Ad esempio nella parabola della pecorella smarrita, dove il pastore lascia le 99 incustodite per cercare la sola perduta, chi ascoltava subito reagiva sogghignando, perché nessun pastore normale avrebbe fatto tale scelta col rischio di perdere le 99 per salvarne una; ma con quell’esempio apparentemente poco saggio si inseriva l’annuncio nuovo: la saggezza di Dio è completamente diversa dalla nostra, Lui non pensa come noi, a Lui sta a cuore la pecora smarrita;[17] Dio è così, e viaggia spesso contromano rispetto alle strade dei nostri pensieri[18]. Basta pensare all’Annunciazione di Luca. In quella società maschilista, dove contavano solo gli uomini, era inconcepibile che Dio parlasse direttamente a una donna. E sicuramente suscitava biasimo e sconcerto l’idea che una donna potesse decidere da sola, senza neanche aver prima interpellato il maschio di casa sull’accettare o meno.

Cerchiamo allora di rivisitare questa parabola del grande banchetto. Per cominciare, questa è l’ultima di una trilogia raccontata da Gesù ai capi dei sacerdoti e agli anziani, nel tempio di Gerusalemme. Questo dialogo, avviene all'indomani dell'entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme e qualche giorno prima della sua condanna a morte. Il clima è perciò di grande tensione, perché il vangelo è il racconto dello scontro continuo fra Gesù e i capi religiosi[19]. E nelle controversie di Gesù con i sostenitori della legge divina non erano in gioco questioni di definizioni o dispute dottrinali, ma i giusti rapporti con Dio. Gesù rimprovera sempre ai sacerdoti di presentarsi come rappresentanti di Dio e di chiedere obbedienza in nome suo, senza aver capito nulla di Lui. Per questo forse si giustifica la durezza della parabola nella versione matteana: Gesù sta parlando direttamente ai capi. La parabola tende a ricordare il clamoroso rifiuto di Gesù da parte del popolo di Israele (che segue i sacerdoti) e dello stesso rischio che corrono i discepoli. Non dimentichiamo che Matteo è ebreo, e scrive il suo vangelo per cristiani provenienti dal giudaismo[20]. La sua intenzione e quella di identificare Gesù con il Messia da sempre atteso da Israele, ma che non viene riconosciuto come tale a casa propria. Quindi Matteo prende il vangelo di Marco, il più antico, e lo integra con le citazioni dell’Antico Testamento, ben conosciuto da quella sua comunità adesso cristiana. Qui non si parla più di vigna, come nelle due parabole precedenti, ma di nozze regali, ed il banchetto era già dal tempo dei profeti il simbolo della pienezza della vita in Dio (cfr. Is 25,6-10). Ad esso viene aggiunta la caratteristica delle nozze e del figlio del re, tutti elementi che per i cristiani significano la vera vita insieme a Gesù. È lui il vero sposo (come in Mt 9,15). Ma tutta questa festa e questa gioia può essere rifiutata, e chi sta in quel momento rifiutando è Israele guidato dai suoi capi. L'espressione del Vangelo matteano sembra dunque riferirsi ai giudei ai quali per primi era stato rivolto l'invito di Gesù, ma si erano mostrati restii se non perfino contrari ad accogliere la novità che veniva loro annunciata. Non hanno colto l’occasione offerta.

Dunque si può pensare che questa parabola condensa le vicende di Israele narrate dalla Bibbia. Il re è Dio, il figlio è Gesù, con il quale si instaura un rapporto di festa tra Dio e l'umanità. I servi sono i profeti, i primi invitati sono il popolo d'Israele, dopo il quale tutti i popoli sono chiamati in quella grande sala che è la comunità cristiana, dove però si deve stare con l'abito adatto, cioè coscienti e responsabili delle proprie scelte.

I primi invitati hanno dei comportamenti strani, non solo perché si dedicano alle loro faccende e restano indifferenti all’invito, ma soprattutto perché oltraggiano e uccidono i servi (i vari profeti inviati da Dio? Gesù stesso?) (Mt 22, 6). Poi Gesù parla di “servi” perché se lui è venuto per servire e non essere servito, lo stesso devono fare i sui seguaci. Il re rivolge il suo secondo invito a tutti, anzi dapprima ai cattivi e solo in seguito ai buoni (Mt 22, 10). Tutti possono allora entrare nel regno di Dio, però il quadro finale riguardante la veste di nozze ci ricorda che è essenziale fare un cambiamento, bisogna avere l'abito della festa, cioè cambiare il proprio modo di pensare e diventare più solidali, più interessati agli altri: solo così si entra nell'amicizia e nella comunione con Dio. Perciò la massima finale non deve essere usata in senso restrittivo e terrorizzante come si è fatto spesso in passato: attenti che a salvarsi sono pochi, anche tra i credenti! Nessuno conosce infatti il numero dei salvati. Un giorno hanno chiesto proprio questo a Gesù, ma lui si è rifiutato di rispondere: ha parlato solo della «porta stretta» (vedi al successivo §2).

Allora, in questa cornice, rileggiamo ora la parabola. Rivolgendosi ai capi religiosi di allora, Gesù dice che «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Siamo davanti a una similitudine: la parabola ha per oggetto il regno dei cieli, non direttamente la descrizione di un matrimonio con le sue dinamiche. Per quanto riguarda il comportamento del re, ciò che la parabola mette in evidenza è la sua assoluta sovranità, che però consiste nella sovranità di un amore che chiama alla gioia di un banchetto di nozze. Questa parabola ha il suo parallelo nel vangelo di Luca (14,15-24), ma diversi particolari vengono caricati di significato ben specifico (là era un semplice uomo a dare una cena speciale, qui un re che dà un banchetto per le nozze del figlio) e viene infine aggiunto il quadro finale dell'uomo senza la veste nuziale, che secondo alcuni autori è un’aggiunta redazionale[21].

Accettando per buona quest’aggiunta probabilmente posteriore, Matteo (o chi per lui) fa risaltare il rifiuto di Israele, però aggiunge un ammonimento anche alla comunità cristiana. Anche colui che fa parte del secondo gruppo di invitati e crede di essere ormai salvo perché si considera un seguace di Gesù, se non si comporta come vero seguace non entrerà nel regno di Dio (qui equiparato a un banchetto). Per entrare bisogna mostrare il desiderio di essere disponibili a cambiare vita.

Un preciso parallelo si trova quando Giovanni Battista afferma che lui battezza con acqua, ma arriverà un altro che battezzerà in Spirito santo (Mc 1, 8). Don Luciano Locatelli ha magnificamente spiegato questa frase dicendo che battezzare in Spirito vuol dire che Gesù ci immergerà nel respiro di Dio. Ma per ottenere lo Spirito (la potenza dell’amore di Dio, questa potenza di vita che continua incessantemente a percorrere le strade del mondo) occorre prima “convertirsi”[22] (Mc 1, 15), per cui non potranno ricevere lo Spirito coloro che non hanno rotto con il passato egoista[23]. Occorre cambiare vita, cambiarsi d’abito.

Matteo dice che il re manda per due volte i suoi servi per chiamare gli invitati alle nozze. A differenza di Luca, raddoppia l'invio dei servi, forse per simboleggiare sia l'invio dei profeti prima di Cristo, sia quello degli apostoli dopo la risurrezione di Cristo. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Come nella precedente parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21, 33ss.), anche qui gli invitati mostrano una capacità omicida pur di perseguire i propri interessi. Nella parabola precedente Gesù volge agli ascoltatori una domanda retorica: cosa succederà agli omicidi? Sicuramente la morte, è la risposta, che esprime un’opinione generale. Qui il re s’indigna direttamente, e fa lui una strage. Probabilmente qui c’è un’allusione alla grande tragedia di Israele: la distruzione del sacro tempio di Gerusalemme avvenuta a opera dei Romani nel 70 d.C. con conseguente diaspora. Matteo legge evidentemente questa disgrazia come un preciso castigo di Dio nei confronti del suo popolo che non ha voluto accogliere la Buona Novella. Ma Dio castiga? Dobbiamo tener presente che Matteo è ebreo, ha introitato il Dio della Bibbia e vive tutta la difficoltà del suo popolo ad accogliere la nuova immagine di Dio/Misericordia offerta da Gesù.

“Ah, se Dio sopprimesse tutti i peccatori!” (si legge nella Bibbia - Salmo 139, 19). Questa è l’immagine divina più radicata in quella cultura, un dio che deve sopprimere i peccatori. Con i peccatori, insegnava la legge religiosa, bisogna tenere una distanza di sicurezza di ben due metri, e non ci si può avvicinare ad essi neanche per invitarli alla conversione. Quindi tra questo dio e i peccatori ci deve essere una distanza. In questa cultura s’inserisce Gesù, che non va mai nel Tempio a pregare, né partecipa alle cerimonie ufficiali del culto sacro, né osserva i precetti religiosi sul riposo del sabato, né sul digiuno, né sulle purificazioni rituali, né sulle relazioni con le donne, né sulla distanza che bisognava mantenere nelle relazioni con i peccatori, con gli impuri stranieri, con la gente di cattiva fama. Insomma, questo Gesù si dimostra disobbediente fino alla morte in punto osservanza delle regole religiose. Non per niente gli uomini pii e religiosi di allora lo consideravano un peccatore. Però il Dio proposto da Gesù non solo non toglie mai la vita ai peccatori, ma comunica la sua. Tutti quei peccatori che, stando ai vangeli, mangiavano a tavola con Gesù… cosa significa? Per gli ascoltatori era evidente che intingevano anche loro la mano nel piatto dove anche Gesù intingeva la sua. Ma chi mangia con una persona che è impura rende impuro tutto il piatto e ogni commensale sarà di conseguenza impuro. Non hanno capito quello che Gesù cerca di far capire, la novità che lui ha portato: non sono i peccatori che rendono impuro Gesù, ma è Gesù che rende puri i peccatori. Gesù porta questa dirompente novità che rovescia quella che in quel tempo era una certezza religiosa (un dogma, diremmo oggi): non è necessario che l’impuro peccatore si purifichi per essere degno di accogliere il Signore, ma è l’accoglienza del Signore che lo renderà puro[24]. I veri religiosi non possono tollerare una blasfemia del genere.

Matteo, non sta allora dicendo che Dio castiga, perché il Dio di Gesù non castiga; sta dicendo che chi segue altre vie è destinato a percorrere vie tenebrose che portano all’auto-distruzione. Questa distruzione è stata il frutto di scelte sbagliate, che fanno sicuramente soffrire.

Però, se il rifiuto di Israele da un lato è un cruccio, d'altra parte si rivela provvidenziale poiché apre di fatto la via alla missione presso i pagani, ossia all'invito esteso a tutti. Gli incroci delle strade sono quelli di città ma anche di campagna. L'invito è esteso quindi a una zona molto vasta. In effetti quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.

Dunque vengono chiamati tutti quelli che trovano per strada, che neanche se l’aspettavano di essere invitati. Siamo davanti a un’immagine sconcertante perché espressamente si dice che sono stati chiamati per primi i cattivi, gli indegni, quelli che non erano in alcun modo preparati (coloro che non provenivano dal popolo eletto di Israele, che venivano considerati indegni e impuri da Israele, e che non attendevano minimamente il Messia). La mescolanza di buoni e cattivi nel regno di Dio è il riflesso della gratuità dell'invito.

Ma qui si arriva il punto cruciale: il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì.

Anche qui troviamo l’appellativo “Amico” in tono di rimprovero[25]. È come se il re (e anche il padrone della vigna di Mt 20,13) si dimostrasse sorpreso da questa offesa fatta da una persona cara: “ti ho invitato ma tu non ti sei preso la briga di prepararti prima di venire alla festa!” È chiaro che le persone raccolte per strada e portate direttamente nella sala delle nozze non possono aver fatto in tempo a tornare a casa e cambiarsi d’abito. Allora si deve pensare: o che l’abito nuziale veniva offerto a tutti gli invitati, dal padrone di casa, per cui quel tizio l’ha rifiutato all’ingresso e non ha più scuse. Oppure, e forse teologicamente è più corretto, si può pensare che quest’uomo senza veste non poteva rimanere nella sala del banchetto non perché fosse peggiore degli altri, non perché era un conclamato peccatore (abbiamo visto che erano stati ammessi tutti, cattivi e buoni), ma perché gli mancava una disposizione fondamentale: quella del sentire la gioia della festa con gli altri, del voler condividere godendo dell’opportunità offerta a tutti, del manifestare con l’abito da festa la fedeltà al regno. Senza questa veste nuova non si può restare nella comunità: è vero che sono stati invitati ‘cattivi e buoni’. Ma nessuno può restare nella condizione di ‘cattivo’[26] nella sala del regno. Questo invitato, come Giuda, si trovava fisicamente nella sala con lo sposo (Gesù), ma con la mente e col cuore era fuori. Era presente fisicamente alla festa, ma le «tenebre esteriori» in realtà occupavano già il suo cuore impedendogli di aprirsi alla gioia della convivialità. Non dimentichiamo che quando Giuda lascia la sala dell’ultima cena, l’evangelista annota che usci ed era già notte (Gv 13, 30), era cioè nelle tenebre.

E allora, oggi, a cosa possiamo paragonare questa veste? L'abito dice a tutti chi voglio essere e come sto vivendo. L’abito nuziale manifesta la mia adesione a collaborare perché la festa riesca bene. Posso pregare perché tutti stiano bene, fare un ineccepibile servizio anche religioso (del tipo: sistemare i fiori nella chiesa, raccogliere l'elemosina, unirmi al canto). Sono tante le cose che posso fare, ma l'importante è partecipare col cuore alla festa; e se la festa dura tutto l’arco della mia vita, l'impegno che manifesta la mia adesione, sarà quello di cercar di far sentire bene tutti quelli che stanno attorno a me, non limitarsi a qualche vuoto formalismo. In altre parole, mettere l'abito nuziale, è come rivestirsi di Cristo (lo dice san Paolo in Gal 3, 27). Se uno incontra veramente il Signore cambia, ne esce diverso[27].

L’evangelista dice che l’invitato senza abito nuziale ammutolisce, evidentemente è consapevole del suo comportamento inadeguato. Non si è reso conto dell’onore ricevuto, non dimostra gratitudine per l’invito, e soprattutto è rimasto quello che era prima. Invece l’abito (cioè l’essersi convertiti: “Stai portando vita nel tuo piccolo? Chi ti sta accanto si sente rinnovare?”) rappresenta il lasciapassare per far parte a pieno titolo di questo mondo futuro, che deve essere migliore di quello presente.

La conseguenza del non essersi cambiato d’abito, che dimostra una mancata conversione, è tornare, o meglio restare, nelle tenebre da cui si proviene; e la considerazione finale sui molti chiamati ma pochi eletti non è tanto una minaccia quanto una constatazione di fatto di quanto accade. Tutti sono invitati, ma non tutti aderiscono all’invito. Tutti sono chiamati alla salvezza: l'esservi ammessi o meno dipende dalla nostra cooperazione alla offerta gratuita di Dio. In realtà, visto che si parla di un solo espulso, ci si aspetterebbe: molti chiamati e quasi tutti eletti. Il passo può probabilmente spiegarsi con l’uso semitico che non conosce il comparativo, ma ricorre all’opposizione dei contrari, per cui oggi si dovrebbe tradurre con: “ci sono più chiamati che eletti”. Viene dunque confermato che siamo davanti a un monito ai cristiani perché rispondano con una vera conversione alla chiamata gratuita[28].

Allora il re disse ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Anche i membri della Chiesa della comunità cristiana, che sono ormai sicuri della salvezza perché sono ormai entrati in un modo o nell’altro nella sala del banchetto, seguiranno la sorte di Israele se perseguiranno vie lontane da quelle suggerite da Gesù (farsi pane per gli altri). Ma non è Dio condanna; Dio che ci ha creati liberi non interviene sulla nostra libertà. Possiamo scegliere di restare nelle tenebre pensando solo ai nostri interessi (come i primi invitati), o possiamo spenderci per gli altri.

L’espressione “pianto e stridore di denti” è usata più volte da Matteo, e indica la condizione di coloro che si escludono dalla festa di Dio, dal banchetto delle nozze. Il pianto è di chi troppo tardi si rende conto del proprio errore. Lo stridore di denti è di chi si rode dalla rabbia per avere fatto la scelta sbagliata, o si rode dall’invidia pensando a coloro che invece sono rimasti nella sala per partecipare alla festa.

In realtà, chi ha le mani legate rispetto alle nostre scelte è Dio che ci lascia liberi[29]. L’unica cosa che può provare a fare è farci vedere un barlume di luce in fondo al tunnel, ma non è Lui che ci tira fuori del tunnel. Lasciandoci nel buio del tunnel di una vita vuota, nelle tenebre del non-senso della vita, legati mani e piedi e quindi incapaci di camminare, può sperare che in tal modo ci si renda conto che questa resterà la nostra misera condizione se non ci convertiamo, se non andiamo verso la luce. Ma per andare verso la luce dobbiamo muoverci noi, come il paralitico deve essere lui ad alzarsi e prendere il suo lettino: solo a quel punto potrà camminare (Mc 2, 9). A volte un brusco risveglio nelle tenebre può far ancora vedere una Luce in fondo al tunnel[30] e darci la spinta. Forse si è ancora in tempo.

2. In un altro passo, Gesù dice: «Entrate per la porta stretta. Grande è la porta e spaziosa la via che conduce alla distruzione, e molti vi entrano. È piccola la porta e stretto il cammino che conduce alla vita e sono pochi quelli che la trovano» (Mt 7, 13-14). Se leggiamo solo questo passo vien da pensare che effettivamente molti scelgono la comoda porta larga, pochi quella stretta, per cui si deduce che è più facile essere condannati che essere salvati. Però, come per l’episodio del “bussate e vi sarà aperto”,[31] un chiarimento lo troviamo in Luca (Lc 13, 23-24): non è che essendo stretta la porta di lì passa meno gente perché c’è meno spazio rispetto alla porta più larga; semplicemente quella porta, che già non si vede bene rispetto all’appariscente porta larga dove la gente accorre e continua a passare, sarà chiusa.

Cosa vuol dire? A leggere bene, col discorso delle porte Gesù non sta dicendo che è difficile entrare per la porta stretta, ma che pochi sono quelli che la vedono e la trovano. Il problema è che, abbagliati e frastornati da ciò che appare più bello e luccicante, i più vedono solo la porta grande, e non si rendono conto che quella porta grande e vistosamente teatrale è in realtà una bocca spalancata che divora e distrugge tutto quello che vi entra, e solo i più oculati scorgono la modesta porta che conduce alla pienezza della vita, nella stanza grande. La difficoltà allora non sta nell'entrare attraverso la porta, ma nell’individuarla, nel trovarla.

“No! no!” dirà compiaciuto il pio credente che gode nel pensare che tanti finiranno all’inferno. Luca è più chiaro di Matteo e dice proprio che «molti cercheranno di entrarvi (nella porta stretta), ma non ci riusciranno» (Lc 13, 24). Però lo ripeto, non perché sia difficile, o perché non hanno fatto abbastanza penitenza e sacrifici su questa terra, ma per il semplice fatto che la troveranno ormai chiusa, come viene chiarito subito dopo (Lc 13, 25). Gesù la chiude perché è un giudice severo? No. Le persone troveranno la porta chiusa semplicemente perché le scelte negative, compiute nell’arco di tutta una vita, hanno reso queste persone incapaci di intimità col Signore[32]. Le scelte sbagliate di tutta una vita fanno venir meno ogni energia che spinga alla conversione (è come essere legati mani e piedi), e senza aver prima cambiato la propria vita (senza aver indossato il vestito di festa) non si entra nel Regno dei cieli. Trovare la porta chiusa è come entrare nella sala del banchetto senza veste adeguata. In altre parole, arriva un momento in cui l’accumularsi delle scelte e degli errori di tutta la nostra vita fa sì che il nostro destino sfugga ormai al nostro controllo e non sia più nelle nostre mani[33]. Occorre perciò pensarci per tempo.

Questo concetto di chiusura si ripete, pari pari, nell’episodio delle cinque vergini sagge e delle cinque vergini stolte (Mt 25, 1-13), e in maniera ancora più chiara viene espresso nell’ammonizione: «Non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi compie la volontà del Padre» (Mt 7, 21). In tutti questi passaggi evangelici che appaiono minacciosi e duri, fonte di gioia per i duri e puri che già si sentono in paradiso e pensano alla condanna eterna dei tanti impuri, si sta semplicemente spiegando che non basta un’adesione a Gesù meramente formale, che si ferma ai riti e alla dottrina; non basta neanche dichiararsi entusiasti del suo messaggio, se questo entusiasmo non si traduce in sequela: occorre che l’adesione alle sue parole si concretizzi in azioni pratiche che comunicano vita. Va allora ripetuto che il centro della vita cristiana non è la dottrina, e neppure la fede, ma la sequela Gesù. Ecco perché a tutti quelli che non hanno cambiato vita, anche se si presentano come intransigenti osservanti della legge, Gesù dice: «In verità io vi dico: non vi conosco»: senza conversione si snatura la fede che pur si crede di possedere. Come insegna Alberto Maggi (omelia del 21 agosto 2016), coloro che, pur avendo mangiato e bevuto insieme a Gesù, coloro che ne hanno ascoltato l’insegnamento non lo hanno poi tradotto in atteggiamento di vita per gli altri, il Signore non li conosce. Non basta cioè mangiare nell’eucaristia Gesù, che è pane, ma occorre farsi pane per gli altri.

Neanche qui, però, viene detto che la rovina totale coincide con una condanna eterna all’inferno. Il fatto che in concreto le minacce dell’inferno possano aver avuto una loro utilità sociale, non costituisce di per sé prova dell’effettiva esistenza dell’inferno; al più, costituisce prova che la Chiesa ha sempre pensato che l’umanità debba essere indirizzata più con il bastone che con la carota. Però, se la stessa Chiesa ha a lungo insegnato che, dopo morto, Gesù è sceso all’inferno (oggi corretto con inferi), non può essere certamente andato lì per sbeffeggiare i condannati alla pena eterna. È andato ancora per abbracciare e salvare anche chi era finito lì, perché come detto più volte, Gesù non ha mai scomunicato e scacciato nessuno.

3. Altro inciso che fa dubitare il lettore che mi ha scritto sono le parole dell’ultima cena. Il sangue di Gesù viene versato in remissione dei peccati “per tutti” oppure “per molti”? Il problema evidentemente non è di poco conto, giacché se il sangue non viene versato per tutti, si dovrebbe dire che non tutti sono meritevoli di essere salvati, e che Cristo effettua una separazione fra chi merita la salvezza e chi ne viene escluso, in contraddizione con Lc 3, 6 ove si legge chiaramente che ogni uomo vedrà la salvezza del Signore.

La formula liturgica eucaristica suona così nella nostra messa: “Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me”. Dunque sembra che l’invito sia per tutti. Se però leggiamo i vangeli, la traduzione letterale dice in effetti “per molti”, visto che in latino si trova scritto pro multis, ed in greco (Mt 26, 28) περὶπολλὣν (perì pollòn), oppure (Mc 14, 24) ὑπὲρπολλὣν (hypèr pollòn). In Luca (Lc 22, 20) il discorso appare ancora più riduttivo – e quindi il contrasto con lo stesso Lc 3, 6 appare ancora più netto - perché Gesù sta parlando direttamente ai soli apostoli e dice che il suo sangue viene versato solo per essi (“per voi”; pro vobis, in latino). Dunque, la lettera di questo vangelo sembrerebbe confermare un’interpretazione particolarmente riduttiva: si salva solo chi partecipa (o addirittura ha partecipato) alla cena. Eppure, nel testo ufficiale della CEI troviamo scritto che il sangue viene sparso per tutti: dunque siamo davanti a un’interpretazione ufficiale che, rispetto alla lettera, è estensiva, in sintonia con quanto afferma Paolo: «Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1Tm 2, 5-6; vedasi anche Rm 8, 32; 2Cor 5, 14: Cristo è morto per tutti; vedasi anche Gv 11, 52 dove si lascia intendere che Gesù è venuto per riunire tutti i dispersi).

Papa Benedetto XVI, nella lettera inviata ai vescovi tedeschi sull’argomento,[34] aveva precisato che «Negli anni Sessanta, quando il messale romano, sotto la responsabilità dei vescovi, dovette essere tradotto in tedesco, esisteva un consenso esegetico sul fatto che il termine “molti”, in Is 53,11, fosse una forma espressiva ebraica per indicare l’insieme, “tutti”. La parola “per molti” nel racconto dell’istituzione di Matteo e di Marco era pertanto considerata un semitismo e doveva essere tradotta con “tutti”».

In effetti, nel testo greco (di Mc e Mt) hypèr pollon tradotto letteralmente significa sicuramente per molti. Ma Gesù non parlava greco, bensì l’aramaico parente dell’ebraico, dove la parola rabbim (es. Is 53, 2) significa per le moltitudini. In italiano ‘molti’ ha un senso restrittivo, perché esclude il ‘tutti’. In ebraico ‘molti’ inteso come moltitudini, comprende un numero indefinito, più vicino al nostro ‘tutti’. Lo stesso avviene anche per il sopra richiamato Mt 22, 14: molti sono i chiamati, pochi gli eletti[35].

È vero, però, che ancora oggi si continua a discutere sul punto, e oggi in Germania “per molti” ha sostituito la vecchia traduzione “per tutti”; in Italia si resta attaccati al “tutti”, anche se alcuni[36] propendono per la traduzione che si usa in Francia, ove si è scelta una soluzione intermedia ma più vicina all’ebraico; infatti lì si trova: “per una moltitudine” (pour la multitude)[37]. Nell’Apocalisse (Ap 7, 9) si parla in effetti di una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, e quindi la soluzione intermedia francese “moltitudine” si oppone a “pochi”, ma non si oppone a “tutti”, lasciando aperta l’interpretazione alla totalità.

Il vescovo teologo Bruno Forte ha fornito un’interpretazione interessante perché, mi sembra, riequilibri la lettera alla sostanza: la redenzione operata da Cristo è oggettivamente per tutti, ma questo dono offertoci gratuitamente richiede l’adesione da parte di ogni singolo (redenzione in senso soggettivo). Senza risposta positiva all’offerta di Dio (senza la nuova veste) l’offerta resta senza effetto. Pertanto, afferma il vescovo,[38] col “per tutti” si mette bene in luce la redenzione oggettiva, la destinazione universale del dono di salvezza offerto da Cristo; col “per molti,” presupponendo ovviamente l’offerta verso tutti, si mette in luce la necessità della libera scelta di ciascuno. L’offerta è per tutti, ma il “per molti” è più rispettoso della libertà di ciascuno di noi.

Questa interpretazione resta anche in linea con la lettera sopra citata di papa Benedetto XVI, il quale chiarisce che il “per voi” non restringe, ma concretizza: Gesù non fa riferimento a dei soggetti anonimi qualsiasi, bensì ogni singolo sa che il Signore è morto proprio “per me”, “per noi”. “Per voi” si estende al passato e al futuro, per cui si è in presenza di una concretizzazione che vale per ogni comunità che celebra l’eucaristia e che la unisce concretamente all’amore di Gesù.

È chiaro che, anche qui, un’interpretazione meramente letterale porterebbe a conclusioni del tutto diverse: siccome in Luca l’eucarestia viene istituita alla presenza dei soli apostoli, siccome Gesù sta parlando direttamente a loro e ad essi soltanto chiede di fare questo in memoria di lui (Lc 22, 19: «fate questo in memoria di me»), siccome poi aggiunge chiaramente che il sangue contenuto nel calice è sparso sempre per essi soltanto (Lc 22, 20: «è sparso per voi»), senza mai dire che è sparso per molti o per tutti, coerenza vorrebbe che, nel momento in cui la Chiesa pretende di riservare alla classe sacerdotale ogni potere che viene delegato da Gesù ai soli apostoli presenti, si concludesse che anche l’eucarestia è riservata alla sola classe sacerdotale. Ma neanche il magistero è mai giunto a tanto.

In conclusione, mi sembra che anche qui siamo davanti a un altro caso in cui una traduzione troppo letterale rischia di non essere fedele al testo originale[39].

4. Quanto ad Anania e Saffira, è vero che cadono stecchiti davanti a Pietro, la donna poco dopo il marito, quando viene scoperto il loro imbroglio (At 5, 1-10) ma, se si segue quanto ho scritto nella relazione, Gesù comunque non c’entra, perché l’uomo Gesù non fa parte della Trinità e quindi non decide lui di far morire questa coppia di sposi[40].

Un’interpretazione abbastanza diffusa sostiene che Pietro capisce che Anania e Saffira gli stanno mentendo, e chiarisce che stanno mentendo non a lui personalmente ma allo Spirito che guida la comunità, perché la comunità è incarnazione dello Spirito. Comunque va fatto notare che neanche Pietro tira in ballo Gesù, uomo o Dio che sia. Dicendo che Anania muore, qualcuno intende che gli viene meno la vita della comunità[41]. Questa spiegazione non mi sembra condivisibile perché il testo dice anche che tutta la comunità rimase spaventata per questa morte (At 5, 5), il che poco si concilia con una semplice espulsione della coppia dal gruppo. Dunque siamo ancora davanti all’immagine di un Dio che punisce, per cui la gente deve aver paura di Lui: non s’imbroglia impunemente Dio.

Però abbiamo visto che Gesù, nei vangeli, non espelle (non scomunica) mai nessuno. Inoltre, se fosse veramente Dio a punire (vuoi come solo Spirito, vuoi come Gesù-Dio, vuoi come Trinità), per dare un ammonimento a tutti, la cosa sarebbe assolutamente tragica, perché dovremmo riconoscere che Dio ammazza per denaro. Saremmo davanti a una contraddizione talmente scandalosa per cui Dio non sarebbe più credibile e dovremmo buttar via tutto il Vangelo. Infatti Gesù ha detto che Dio e mammona sono incompatibili (Mt 6, 24; Lc 16, 13): Gesù ha fatto capire varie volte che il denaro non è un valore, e invece qui lo stesso Dio ammazza proprio per vile denaro.

Già nell’antichità ci si era resi conto di questa assurdità, per cui prima Porfirio discepolo di Plotino, e poi anche san Girolamo (il monaco che per primo aveva tradotto la Bibbia in latino, la cd. Vulgata), a cavallo fra il 300-400 d.C., avevano attribuito l’uccisione dei coniugi direttamente a Pietro[42]. La durezza di Pietro nell’uccidere Anania e Saffira farebbe però pensare che se nessuno può trasgredire gli ordini dei capi, se ancora tutto il denaro deve essere messo ai piedi di questi capi e solo loro lo possono amministrare, siamo in realtà davanti a una setta, piuttosto che a una vera comunità cristiana[43]. In effetti a Gerusalemme, pensando di realizzare il progetto di Gesù, avevano strutturato la comunità facendo mettere tutti i beni in comune. Invece la comunità di Antiochia non aveva seguito il regime pienamente comunista di Gerusalemme, ma ognuno dava secondo le sue possibilità e la sua generosità. Eppure, in un periodo di carestia, Antiochia aveva abbastanza per sé e per aiutare gli altri, ed effettivamente aiutò con una colletta la comunità di Gerusalemme che era rimasta nel bisogno, dimostrando il fallimento del progetto più drasticamente comunista: infatti, non appena s’impongono più regole diminuisce la libertà, nascono gli artifizi e raggiri (Anania e Saffira: At 5, 1) e cresce il malcontento (le vedove dei greci si lamentavano di essere emarginate: At 6, 1)[44]. Sia ad Antiochia che a Gerusalemme credono nello stesso Signore, credono nello stesso Gesù, ma soltanto ad Antiochia vengono riconosciuti come cristiani, a riprova che l’essere cristiani non dipende da quello che si crede, ma da quel che si fa; e siccome solo ad Antiochia, pur colpiti anche loro dalla carestia, sono talmente generosi da non pensare solo a sé, ma di occuparsi anche degli altri, solo ad Antiochia questi sono stati riconosciuti per la prima volta come cristiani.

In conclusione mi sembra più accettabile la spiegazione la quale fa notare come questa esecuzione di una condanna a morte (perché di questo si tratta) da parte di Pietro è avvenuta prima della sua conversione ad opera del centurione pagano, prima di diventare veramente cristiano, quando cioè neanche Pietro aveva ancora compreso la Buona Novella di Gesù (che comunque, su questa terra, non ha mai minacciato e castigato nessuno), e prevaleva ancora l’immagine biblica del Padreterno che punisce inesorabilmente[45]. Siamo ancora lontanissimi dalla Buona Novella di Gesù che ci presenta un’immagine di Dio esclusivamente buono.

Dunque solo ben più tardi, attraverso la concomitante azione di Dio nell’azione della tovaglia scesa dal cielo con i cibi impuri, e del centurione romano pagano che lo chiama nella sua casa, Pietro giungerà improvvisamente, e potremmo dire anche ‘finalmente’, a una conclusione per lui assolutamente nuova: «Dio mi ha mostrato che non si deve evitare nessun uomo come impuro» (At 10, 28). Dunque è Dio stesso, non Gesù, non una sua conclusione, che gli ha insegnato questa verità. Sono i fatti (tovaglia e centurione) che fanno capire a Pietro quello che prima aveva ascoltato per anni da Gesù, senza mai capire. Pietro finalmente capisce, e ciò che finalmente capisce è esattamente l’opposto di quanto insegna ancora oggi la religione, nella quale permane la divisione fra puri e impuri; o, se si vuole, fra degni di Dio e non degni di Dio, fra peccatori e non peccatori; ‘tu sei un peccatore, sarai punito da Dio e devi starmi lontano; tu invece puoi avvicinarti’. Invece è Dio che insegna a Pietro che nessuno, qualsiasi sia il suo comportamento (etico, sessuale, morale), può sentirsi escluso dall’amore di Dio: quindi, anche se Anania e Saffira si erano comportati eticamente in maniera scorretta, non potevano essere uccisi alla luce della nuova interpretazione, questa volta veramente cristiana. Ma ci sono voluti anni per arrivare a questa conclusione, e anche Gesù era ormai morto da anni.

Nel Nuovo Testamento, cioè, anche Pietro si avvicina per gradi alla nuova immagine di Dio sempre buono e sempre misericordioso per cui all’inizio, imbevuto com’è dell’idea di Dio che gli è pervenuta attraverso l’insegnamento religioso, ancora attribuisce a Dio ciò che Dio non fa. È difficile per tutti liberarsi di un’immagine di Dio che è stata assorbita fin da piccoli.

Come si può allora oggi interpretare la morte della coppia, che pur non vive sotto il sistema strettamente patriarcale in voga in allora, visto che decidono insieme di truffare? La coppia muore perché col cuore diviso non si può vivere: occorre unità. L’insegnamento può essere il seguente: il cuore si spezza quando ci si vuol dividere fra Dio e mammona. «Voi non potete servire Dio e mammona» (Lc 16, 13). Ci si collega in qualche modo al discorso della porta stretta (sopra al §2) perché attraverso essa passa solo l’unità; da Dio si va unitariamente, mentre se uno non è unito non riesce a stare al cospetto di Dio. Naturalmente neanche qui si dà all’episodio un valore storico, di cronaca reale, ma meramente teologico.

NOTE


[1] Ad esempio, a un certo punto della storia, gli Israeliti pensavano che il presupposto della loro salvezza fosse necessariamente l’annientamento degli Egiziani.

Ma anche noi cattolici abbiamo visto per secoli il nemico in chi non apparteneva al nostro gruppo, e perfino all’interno del nostro gruppo. Ad esempio, si racconta questo episodio avvenuto durante la I Guerra mondiale: “un giorno si è consegnato a noi un austriaco che parlava italiano, ed essendo domenica l’ho portato con me a messa perché mi era stato consegnato, e perché sia gli austriaci che gli italiani erano cattolici. Quando il prete ha detto che pregava affinché Dio ci facesse la grazia di scacciare il potente nemico (l’Austria) lui si è messo a ridere, e ha detto che la domenica prima il prete austriaco aveva detto esattamente le stesse parole, solo che il potente nemico era l’Italia. Ha allora chiesto se forse ci sono due Padrieterni, uno in Italia e l’altro in Austria, e noi non si capiva più niente, ma visto che continuava ridere il prete si è innervosito e ha gridato di portare via quel tipo che andava contro la religione. Ce ne siamo andati e l’ho portato al campo di concentramento, ma era uno che diceva la verità” (Rabito V., Terra matta, Einaudi, Torino 2007, 58).

[2] Cfr amplius alla risposta sub 15: la rivelazione su Dio è data dalle tracce lasciate da Gesù e da un nostro cammino di amore.

[3] Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione del 18.11.1965, Dei Verbum, § 11. Anche papa Benedetto XVI aveva ribadito che il vangelo è l’unica identità autorizzata per i cristiani, aggiungendo opportunamente che essa va ripulita di ciò che solo apparentemente è fede, mentre è mera convenzione e abitudine (Discorso del papa tenuto a Friburgo (Germania) nel 2011, riportato in “Famiglia Cristiana”, n.40/2011, 34).

[4] Art.26 Catechismo Pio X. Nello stesso senso lo intende Calvino: Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006, 133.

[5] Chissà se qualche vescovo che vive in un bel palazzo, vestiti costosi, che ha disposizione auto lussuose e numerosi collaboratori si chiede mai: “ma io, in questo modo, come posso predicare il vangelo?”

[6] E normalmente anche a noi. Quindi siamo noi uomini i diavoli, senza dover pensare all’esistenza di un essere spirituale maligno e invisibile.

[7] Di tutti, vuol dire anche di altri che non sono cristiani, come i musulmani. Dunque non condivido l’idea di chi, ‘forgiato dall’idea che il mio Dio non è il Dio degli altri,’ è convinto che papa Francesco sia perfino apostata avendo – secondo lui,- esortato a sottomettersi, nell’enciclica Fratelli tutti, ai musulmani (Langone C., Andiamo a messa, nonostante il Vaticano, “Il Giornale” 13.11.2020, 24). In realtà, il papa ha scritto: «Ci colpisce come, ottocento anni fa, Francesco raccomandasse di evitare ogni forma di aggressione o contesa e anche di vivere un’umile e fraterna “sottomissione”, pure nei confronti di coloro che non condividevano la loro fede». Evidente che chi pensa alla sua religione come Religione assoluta tende a eliminare tutti gli altri. Peccato che anche motti credenti nell’Islam, ad es., abbiano la stessa idea; e peccato che i cattolici che la pensano così siano convinti che Dio è cattolico, per cui non possono neanche immaginare il Dio degli altri, nella convinzione che tutte le altre immagini di Dio siano demoniache. È inevitabile che così si arrivi allo scontro. Invece – come dice sempre papa Francesco, dovremmo far sparire i muri e costruire ponti.

[8] Schillebeeckx E., Per amore del Vangelo, ed. Cittadella, Assisi, 1993, 189.

[9] Lattanzio, A trentine on the anger of God, (versione inglese dell’originale Trattato latino De ira Dei), Cap. XIII, in https://www.documentacatholicaomnia.eu/, sotto il nome Lactantius.

[10] In realtà si tratta di due terroristi, perché i ladri non finivano in croce ai tempi dei romani. Ma dire che Gesù è stato crocifisso tra due terroristi, non suonava bene per la sua immagine, perché qualcuno avrebbe potuto pensare che anche lui era un terrorista.

[11] Stiamo seguendo la versione lucana, perché in Matteo entrambi i ‘ladroni’ insultano Gesù.

[12] Curtaz P., Commento al Vangelo di Luca del 20.11.2016.

[13] Per l’ennesima volta ricordo che in greco, pantokrator non significa che Dio può fare tutto quello che vuole, ma che con la propria mano sorregge il tutto.

[14] Forse perché è semplicemente un uomo? Se l’avesse fatto avrebbe compiuto un miracolo e avrebbe ammutolito tutti i presenti, compresi quelli che lo insultavano mentre agonizzava, e tutti avrebbero dovuto per forza credere in lui. Chi avrebbe visto un miracolo del genere non avrebbe avuto libertà di scelta. Invece Dio ci vuole sempre liberi, fino alla fine.

[15] E lo stesso avviene per il Corano. Vedendo i casi di integralismo, crediamo normalmente che i musulmani abbiano l’obbligo di uccidere i miscredenti che non vogliono convertirsi all’Islam. Ma la sura II, 256 dice: “Non via è costrizione alcuna per la religione. E la sura X, 99s. dice: "Se volesse il Signore, tutti quelli che sono sulla terra crederebbero. Ma tu non puoi costringerli …”.

[16] Molari C., Il Concilio Vaticano II - letture contrastanti, relazione tenuta al Centro Veritas di Trieste il 5.11.2014.

[17] Ecco perché un Dio che sacrificasse gli esseri umani per un grande disegno, fosse pure il migliore possibile, non è certo il Dio che ci ha rivelato Gesù Cristo (papa Francesco, omelia del 31.12.2020).

[18] Is 55, 8: Dio in persona afferma che i suoi pensieri non sono i pensieri degli uomini, le sue vie non sono le vie degli uomini.

[19] Ma non c’è solo lo scontro con la religione: c’è anche uno scontro radicale con la famiglia intesa come circolo chiuso, che soffoca.

Come diceva sant’Ambrogio, i figli non devono, non possono realizzare i nostri desideri di genitori, perciò “se Dio li chiama a qualcosa di bello e di grande non siate voi la zavorra che impedisce loro di volare”. Gesù libera non solo dalla religione, ma anche da questo tipo di famiglia e si pone in conflitto a 360° gradi con quella che era la società.

[20] Ratzinger J-Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, ed. Libri Oro Rizzoli, Milano, 2008, 127. Laux J., Introduction to the Bible, ed. Tan Books, Charlotte (North Carolina - USA), 2012, 222.

[21] L’allontanamento dell'uomo mal vestito è estraneo al racconto originale (Schillebeeckx E., Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia,1976, 165).

[22] Convertirsi vuol dir cambiare per poter riorientare la religiosità, le consuetudini, la maniera di vivere, l’onestà e le norme di comportamento nella vita degli individui e dell’intera società (Castillo J.M., omelia del 10.1.2021 sul Battesimo del Signore).

[23] Uno pensa che può stare bene da solo, curando solo i propri interessi, invece non sta bene che con gli altri. L’Io non può mai essere completo se non in relazione con l’altro; nell’altro si trova il proprio Io, per cui l’altro serve in realtà a sé stessi.

[24] Maggi A., Gesù un Dio profondamente umano, Tradate, 2008, in www.studibiblici.it/conferenze.

[25] Si può ricordare che in altra parte del vangelo Gesù si rivolge con l’appellativo “amico” ad un altro personaggio che vive nella tenebra. Giuda ha portato nell’orto degli ulivi gli uomini che vogliono catturare Gesù e indica loro il maestro. “Amico per questo sei qui?” gli chiede il maestro. Giuda, l’invitato pure lui senza veste, si trova nel buio completo, ma non è stato cacciato lì da Gesù.

[26] Mateos J. E Camacho F., Il Vangelo di Matteo, Cittadella, Assisi,1995, 308.

[27] Wilma Chasseur, in Antonioli F., Un eremo è il cuore del mondo, ed. Piemme, Milano, 2011, 170.

[28] Mateos J. E Camacho F., Il Vangelo di Matteo, Cittadella, Assisi,1995, 309: cfr. Lc 14, 26: ‘Odiare il proprio padre’ = amare Gesù più del proprio padre.[29] Anche l’islam è di questa idea - Corano X, 99 - sura di Giona: “Se volesse il Signore, tutti quelli che sono sulla terra crederebbero. Ma tu non puoi costringere gli uomini alla fede”. Se Dio ti lascia libero, anche tu uomo devi fare lo stesso con gli altri.

[30] Pensiamo a come il Manzoni racconta nel cap. XXI dei suoi Promessi sposi la conversione dell’Innominato, uomo che non ha paura della legge né ha altre paure terrene; però, di fronte a un avvenimento che magari aveva già vissuto altre volte, a differenza di quel pusillanime di don Abbondio, improvvisamente comincia a riflettere sulla propria vita, e sul senso della stessa, visto che la morte è poi la fine di tutti.

[31] Si pensi al celebre: «Chiedete e vi sarà dato… bussate e vi sarà aperto» (Mt 7, 7). Letto così sembra che basti solo insistere con fede determinata nella preghiera per essere esauditi, e così alla lettera lo leggono ancora oggi molti che si dichiarano credenti, pienamente convinti che se pregano con fede intensa saranno esauditi. Allora questi ferventi credenti dovrebbero spiegare come mai lo stesso Gesù nell’orto, il giovedì di Passione, pregò intensamente il Padre suo di allontanargli quel calice amaro, ma non venne affatto esaudito, per cui non gli venne ‘dato’ e non gli venne ‘aperto; e se Gesù stesso non è stato ascoltato, perché mai dovremmo esserlo noi? Ora, essendo escluso che Gesù possa aver pregato senza fede, l’unica spiegazione logica è quella che si rifà all’ultimo inciso del Vangelo di Luca, non riportato negli altri vangeli, che riesce a chiarire meglio il senso di questo passo (Tor C., C’è vita e vita, ed. EMI, Bologna, 2000, 16.): «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono» (Lc 11, 13), in cui si dice espressamente che, se uno prega intensamente, gli viene promesso soltanto lo Spirito, e non il bene richiesto, non la guarigione, non la soluzione del problema, non l’esaudimento della sua preghiera. Viene promessa soltanto una capacità di abbandonarsi a Dio (‘sia fatta la tua volontà’), una forza spirituale che farà superare il momento di difficoltà, a prescindere da quello che succede.

[32] Maggi A., Roba da preti, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 23.

[33] Se si legge un qualsiasi studio psicologico sui carcerati, si scopre che nessuno di essi avrebbe voluto per i propri figli il suo stesso tipo di vita, anche se quasi nessuno di essi riesce più a cambiarla (in tal senso anche il crudo racconto in Saviano R., Gomorra, ed. Mondadori, Milano, 2008, 100).

[34] Lettera 14.4.2012 al presidente della Conferenza episcopale Tedesca, in www.vatican.va.

[35] Pulcinelli G., Il nuovo messale, “Famiglia cristiana”, n.50/2020, 104.

[36] Pieri F., Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche, ed. Dehoniana, Bologna, 2012,

[37] Forte B., Quell’ultima cena con le sedie vuote, “Corriere della Sera”, 25.8.2012, 29.

[38] Ibidem.

[39] Pulcinelli G., Il nuovo messale, “Famiglia cristiana”, n.50/2020, 104. Lo stesso criterio deve valere anche quando parliamo del Corano, che noi prendiamo sempre alla lettera perché così possiamo dire tranquillamente che non è accettabile e non può venire da Dio.

[40] Sappiamo che nella Trinità immanente ci sono tre Persone, distinte ma non separabili in ciò che sono e in ciò che fanno (Boff L., Trinità e società, ed. Cittadella, Assisi, 1992, 172): quindi, quello che fa lo Spirito santo lo fa anche il Figlio di Dio.

[41] Scuola Biblica di Montegiove di Fano, Didachè, Corso a cura di Frigerio S., 2009-2010.

[42] Le epistole di S. Girolamo Sdrignese scelte, e divise in tre libri per opera di Pietro Canisio teologo; Tradotte dalla latina nella toscana favella da un sacerdote professore di teologia, e parroco nella diocesi di Nonantola (https://archive.org/ – pp. 324 e 588 versione pdf).

[43] Allora avrebbe ragione Mark Twain a dire: “Se Cristo fosse qui, una cosa vorrebbe fermamente: non essere cristiano”, in https://www.frasicelebri.it/frasi-di/mark-twain/.

[44] Negli Atti degli apostoli Luca dà un’idea di una comunità unita dove tutto funziona; ma già leggendo tra le righe si vede che non era così. Anche le lettere di Paolo e Giacomo dimostrano che esse avevano un valore programmatico perché c’erano evidenti problemi nella comunità ai quali essi cercano di ovviare. Così pure nell’Apocalisse, viste le lettere di rimprovero alle 7 Chiese. Dunque, neanche nella Chiesa, c’è mai stata una mitica età dell’oro.

[45] Così accade anche nella Bibbia. Privilegiando il proprio destino privato rispetto a quello collettivo è stato punito nella Bibbia il clan di Acan (Gios 7 e 8): l’arricchimento illecito di un clan danneggerebbe gli altri, per cui Dio – tramite Giosuè – li fa lapidare tutti. Chi cerca di arricchirsi senza badare alle condizioni degli altri, è dannato (Plescan G., Inferno, Purgatorio, Paradiso, ed. Claudiana, Torino, 2000, 48s.).