Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

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Dio onnipotente

Dio fragile




di Adriana Valerio

Il presente testo, inviato dall’Autrice al Direttore del nostro settimanale perché fosse pubblicato sul presente n. 600 de Il giornale di Rodafà, costituisce il capitolo IX del volume Il potere delle donne. Giuditta, Chiara e le altre, pubblicato da Editori Laterza nel 2016.



«Se così si può dire» è l’espressione che gli ebrei usano per indicare l'inadeguatezza del nostro parlare di Dio. Il linguaggio umano è, infatti, limitato, contingente, incapace di nominare il Trascendente e descriverlo nella sua pienezza[1].

Per questo motivo troviamo nel testo sacro una pluralità di connotazioni, a volte in contrasto tra di loro, che presentano il Signore, «se così si può dire», non solo come Dimora, Spirito, Sapienza, ma anche come Totalmente Altro e Vicinissimo, Uno e Molteplice, Parola e Silenzio, Presente e Nascosto, Padre e Madre... e così via.

La ricerca di tutte le parole possibili non può condurre perciò a definizioni che circoscrivono e determinano né a formulazioni assolute. Anzi, la molteplicità dei volti di Dio in fondo è anche l’impossibilità di ridurre quei volti a un’unica possibilità di rappresentazione. L’esito finale dovrebbe essere il silenzio: il riconoscimento dell’inadeguatezza delle nostre parole data l’ineffabilità di Dio. Non dovremmo più parlare di Lui-Lei, ma dimorarvi, avvolti dalla sua presenza.

Se, tuttavia, non vogliamo essere immersi nel solo ascolto e rimanere nel completo silenzio, come suggerisce la cosiddetta teologia apofatica, dobbiamo avvalerci delle nostre, se pure limitate, possibilità linguistiche e concettuali e, come la Bibbia, fare uso di metafore e analogie, di ossimori e paradossi per avvicinarci il più possibile a narrare il mistero divino.

Questa modalità di approccio, pur riconoscendo che Dio è sempre altro rispetto alle nostre parole, può far luce su quelle immagini potenti che lo hanno descritto e che sono state considerate uniche (re degli eserciti, onnipotente...) mentre, invece, erano speculari alle società androcentriche e patriarcali che le avevano espresse[2]. Dio, allora, ha bisogno di essere liberato dalle maglie troppo anguste e da un immaginario violento che lo ha ingabbiato: lo stesso testo sacro ci può aiutare a riflettere diversamente su questo potere divino declinato per troppo tempo con i caratteri del dominio maschile.

In Genesi 1,27 si sottolinea come l'umanità sia stata creata a immagine di Dio; ricordarlo potrebbe consentire da una parte il recupero della piena dignità dei due sessi, non sottoposti a gerarchie di valore, dall’altra la possibilità di narrare il mistero di Dio senza alcuna preoccupazione utilizzando le categorie del maschile e del femminile. Come ci indica il Cantico dei Cantici, il reciproco amore tra una donna e un uomo esprime la metafora più indicata per parlare del Trascendente; per questo il Cantico è il libro più citato dalla mistica cristiana che in esso trova le parole poetiche che meglio rappresentano il divino, mistero di comunione dialogica nell'amore.

1. Un Dio maschio e potente

Le due realtà, immagine di Dio e androcentrica struttura socio-politica, sono in stretta e intima correlazione. Lì dove la cultura ha ritenuto il maschile come l’unica e la più adeguata definizione dell’umano, si sono realizzate strutture civili e religiose (sinagoghe, chiese, moschee) secondo categorie maschili escludenti e discriminatorie, che poggiano su una rappresentazione di Dio monarca unico e assoluto. Ciò non vuol dire credere ingenuamente che ci sia una corrispondenza deduttiva tra rappresentazione teologica e visione antropologica[3], ma certamente ritenere che Dio dia il potere di governare al solo maschio perché meglio lo richiama[4] ha comportato l’esclusione della donna da tutti gli ambiti del governo, la giustificazione della sua subordinazione e la svalutazione della sua corporeità, inadeguata a rappresentare il Trascendente.

Il Dio unico e onnipotente, che esercita dominio su esseri umani che devono a Lui sottomissione e timore, è quindi il riflesso delle strutture patriarcali delle società antiche. Il monoteismo ha in sé dunque potenzialità di violenza implicita?[5]

Tante volte nel corso della storia il potere si è presentato nel «nome di Dio» imponendosi con forza sulle coscienze e legando a sé l'immagine di un Signore onnipotente e oppressivo che comanda, proibisce, rimprovera ed esige obbedienza[6]. Un Dio maschio, violento e collerico, vendicativo e castigatore, guerriero e monarca assoluto che divinizza il potere e spinge gli uomini a desiderare d’essere altrettanto potenti. Anche la signoria di Cristo, esplicitata nella festa di Cristo Re istituita nel 1925, è divenuta l’emblema dell'assoggettamento: della Chiesa al papato, del laicato alla gerarchia clericale, della donna all'uomo, della natura al soggetto umano ecc.

Non a caso la teologa Elisabeth Schüssler Fiorenza parla di «struttura kyriarcale della società» per segnalare, con il neologismo kyriarcale (da kyrios-signore e archein-dominare), le strutture molteplici del dominio globale che generano tutte le subordinazioni: economiche, sociali, politiche, razziali, sessuali e così via. Da qui la necessità da parte delle donne di liberare tutti, anche il creato, dalle politiche di sfruttamento da parte del soggetto umano[7].

Ma veramente il Dio biblico è un sovrano che legittima il potere dei potenti?

La sacra Scrittura, in realtà, non contiene una visione teologica unitaria né presenta un’immagine unica di Dio. La Prima Alleanza, per esempio, è l’esito di una storia millenaria che riflette al suo interno una diversificata fede vissuta dalle tribù d’Israele e che solo nell’ultima fase di redazione (VI sec. a.C.) ha conosciuto un’evoluzione in senso monoteista[8]. Il formarsi e il consolidarsi delle tribù prima, la nascita della monarchia a protezione da minacce esterne poi e, infine, la costruzione dell’identità giudaica avvenuta al ritorno dalla deportazione babilonese hanno favorito l’affermarsi di un Dio capo degli eserciti e re supremo di una religione che ha assunto sempre più caratteri androcentrici e militari: il popolo sconfitto e disperso ha trovato conforto in un Dio unico, invocato come soccorritore e giudice.

Ma proprio perché le immagini di Dio sono frutto di esperienze differenziate e rispecchiano le condizioni sociali e storiche nelle quali i libri biblici sono stati elaborati, troviamo altre rappresentazioni che ampliano lo spettro della sua identità.

Certamente Dio è presentato perlopiù come soggetto del potere (dynamis) che domina il mondo; tuttavia la sua forza si manifesta in quattro momenti fondamentali della storia umana: nella nascita della vita (la Ruah-Spirito è la forza di Dio nella creazione), nella liberazione degli ebrei dalla schiavitù (Es 15,6.13), nella potenza salvifica presente in Gesù di Nazareth e nel giudizio finale, come nuova creazione e vittoria del bene sulle forze del male.

Ma questa potenza di Dio è espressione di un potere di dominio maschile? Non può essere forse letta come forza liberante e salvifica che va oltre le delimitazioni sessuali? La Ruah-Spirito che ridona nuova vita non ha forse anche connotazioni femminili? Così come la Sapienza che governa il mondo non è forse lo specchio della forza di Dio (Sap 7,25ss), della sua presenza nel cosmo che chiama l’umanità a raccolta (Prov 9)?

Il femminile, nella rappresentazione simbolica di Dio, s’inserisce nel testo sacro attraverso immagini legate alle esperienze della cura materna («Come una madre consola un figlio, così vi consolerò», Is 66,13) oppure alla certezza della sua presenza compassionevole a fianco delle persone sofferenti, pronto a ribaltarne i destini e a liberarle dalla loro oppressione (vedi i Libri sapienziali e profetici).

Questo Dio che sa capire e amare non è il Dio dei potenti che genera paura e suscita sentimenti d'indegnità, ma il Padre-Materno che accoglie il dolore dell'umanità e ne ascolta i gemiti.

Il Dio biblico è un Dio che si schiera: non abbandona il povero e l'oppresso, ma lo soccorre attraverso le gesta di altre persone, spesso le più fragili: sceglie una sterile, Sara, per farne la madre di un popolo; un uomo limitato nella parola, Mosè, per eleggerlo liberatore dalla schiavitù; una donna, Debora, per trasformarla in capo militare; due pastori, Saul e Davide, per farne dei re; una vedova, Giuditta, per salvare gli ebrei dallo sterminio; un'umile ragazza, Maria, per far nascere il Messia. E questi sono solo alcuni degli esempi.

Dio ascolta le grida di dolore delle vittime e dona loro speranza: nel conflitto tra il bene e il male, tra la vittima e il tiranno, deve trionfare inevitabilmente il bene. «Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei popoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 9,11).

Nella storia di Giuditta abbiamo visto come Dio salvi non avvalendosi della potenza delle armi, ma attraverso lo strumento debole rappresentato da una vedova, la cui forza nel combattere il tiranno sta nel sapersi assumere le proprie responsabilità davanti al pericolo imminente, confidando nel trionfo della libertà e della giustizia.

In quella di Ester abbiamo osservato come il Trascendente sia presente nelle scelte intraprese per la liberazione degli oppressi dai giochi del potere. In un ambiente profano, immerso negli intrighi del palazzo, Dio si è nascosto e ha lasciato a Ester la responsabilità etica delle sue azioni e la possibilità di ribaltare le sorti avverse a favore del suo popolo votato allo sterminio.

Un Dio, dunque, che prende le parti di quelli che nella società sono emarginati e hanno poco peso, che confonde i potenti per riconsegnare dignità a coloro che, come le donne, gli ultimi e i sottomessi, sono vittime di un mondo poggiato sulla violenza e sul sopruso.

È a questo padre misericordioso che l'ebreo Gesù si appella (Lc 15) per riconsegnare l'immagine di un Dio che non vuole sottomissione, ma amore, che annuncia e promette felicità e speranza[9]. Il Dio di Gesù è la Sapienza preesistente alla creazione (Gv 1 cfr. Sir 24) e che invita a banchetto (Lc 14,12ss. cfr. Pr 9,1-5), è la gallina chioccia che protegge (Mt 23,37 cfr. Es 19,4).

A conferma di questa fede in un Dio compassionevole e vicino, nell'elaborazione teologica della tradizione cristiana la potenza di Dio si manifesta nella sofferenza della croce e nella scelta degli oppressi: i forti in Cristo sono al servizio dei loro fratelli deboli (Rom 15,1). In Gesù, Dio rinuncia al suo potere per «assumere una condizione di servo» (Fil 2,7) e la signoria di Cristo si afferma nell'umiltà della croce che ribalta ogni immagine potente di Dio. E la croce non è simbolo - come purtroppo è stato nei secoli passati - di oppressione e di persecuzione; piuttosto, è segno di dono e di amore per l'umanità contro tutte le forme di dominazione.

La forza, la potenza e la combattività del Dio maschio guerriero poco si addicono al Figlio, Gesù Cristo, uomo non violento, morto sulla croce, cibo che, attraverso la mensa eucaristica, nutre la comunità, luogo emblematico di accoglienza e di superamento di ogni ingiusta disuguaglianza; profeta e messia che rifiuta il potere («E non chiamate nessuno padre sulla terra», Mt 23,9) in nome della solidarietà del servizio e della reciprocità dell'amore: «Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri», Gv 13,34.

Per questi motivi di carattere teologico, nella traduzione della Lettera ai Romani, la biblista Claudia Janssen[10] ha reso Gesù Kyrios non con il titolo della sovranità, «Gesù Signore», ma con l'espressione «Gesù al quale apparteniamo», per evidenziare una cristologia di relazione al di fuori del potere autoritario. Cristo, «il primogenito tra molti fratelli e sorelle» (Rom 8,29), rappresenta, infatti, la speranza di un popolo di persone che si percepiscono come fratelli e sorelle.

2. Un Dio fragile e presente

La mistica femminile, della quale abbiamo copiose testimonianze scritte, coglie di Gesù gli aspetti che potremmo chiamare di fragilità. Infatti l’attenzione delle donne si concentra sui due temi del lutto (Morte e Passione) e della vita (Natività): ovvero della morte che chiede un compartecipe dolore per l’assenza dell’Amato, e della nascita che richiede, a motivo della sua condizione fragile, una tenera presenza di cura.

Le mistiche medievali, per esempio, rivivono i momenti della nascita con un affetto materno che non riscontriamo chiaramente con la stessa intensità negli scritti degli uomini di chiesa. Esse hanno avuto esperienza del Trascendente partendo dalle specificità della propria corporeità e, utilizzando i codici simbolici del femminile, hanno fatto sì che nella rappresentazione di Dio rientrasse il dono, la recettività, l’accoglienza, la vicinanza, la tenerezza, la compartecipazione, il dolore, la debolezza. Dio, nel loro vissuto di fede, si fa grembo, cibo, cura.

Con la riflessione delle donne la maternità non è più un elemento devozionale utile a mitigare la mascolinità di Dio, ma diviene un dato teologico, costitutivo della sua stessa essenza. Per Hadewijch di Anversa (1210-1260ca.), la scrittrice beghina dei canti dell'amore (Minnesaenger), Dio è la Signora Amore (die Frau Minne), amore assoluto, amore-desiderio, amore primordiale.

Per Giuliana da Norwich (1342-1420) la maternità di Dio, che viene espressa nella sua opera Il Libro delle Rivelazioni, rappresenta la pienezza di Dio nel creare, redimere e chiamare il mondo alla libertà. Nella Trinità è Gesù Cristo a rivestire la funzione materna: è lui la nostra vera Madre. Proprio perché l'amore della madre è totale e non ammette sconfitte, «Gesù Madre» non permette che periamo: «La nostra Madre celeste, Gesù, non può mai permettere che i suoi figli periscano, perché egli è onnipotente, tutta sapienza e amore»[11].

In questo caso il potere di Dio (Cristo) Madre è nella protezione dell'amore che nutre e salva, che allevia sofferenze e che annuncia felicità[12].

La mistica femminile, attraverso l'esperienza corporea, mette in campo gli aspetti più profondi dell’essere donna anche nelle modalità di narrare Dio-Trinità. Per questo il Figlio non è vissuto come Re Giudice, ma come Madre di redenzione (Giuliana da Norwich), bambino da accudire (Chiara d’Assisi e la tradizione francescana femminile), figlio da consolare (Maria d’Oignies), sposo da amare (Teresa d'Avila), latte da succhiare (Domenica Narducci).

Lo Spirito non è inteso come il garante delle istituzioni, ma come l’Amore che può suscitare in tutti, uomini e donne, ruoli missionari e profetici (Ildegarda di Bingen); come libertà concessa alle donne di vivere affrancate da rapporti di dominio, superando gli impedimenti della legge che le volevano sottomesse e la censoria mediazione ecclesiastica che le riduceva al silenzio (Margherita Porete); come coscienza critica che dirige la Chiesa per liberarla dalle trame del potere (Caterina da Sena, Brigida di Svezia).

Dio Padre non è percepito più come lontano, ma nella parte più profonda di noi stessi (Teresa d’Avila), nella piccolezza del quotidiano (Teresa di Lisieux), nell’estremo abbandono dei derelitti (Teresa di Calcutta), nella croce sperimentata fino in fondo (la scientia crucis di Edith Stein).

Le rappresentazioni del Dio Trinità ci indicano come, nella tradizione cristiana, l’unità di Dio sia aperta e conviviale e come il potere che esse esprimono si possano declinare fuori dalle logiche del dominio mortificante: come «forza che muove e alimenta la vita»[13].

Il Dio Trinità (Padre-Materno - Il Verbo - la Ruah-Sapienza) è relazionalità circolare e non piramidale, senza potere all’interno, dove ogni persona non vive senza l’altra: modello simbolico dell'essere, come relazione di comunione.

Ma qual è allora il nome più appropriato di Dio, se non vogliamo caratterizzarlo con le immagini oppressive del potere o con uno specifico genere, sia esso maschile o femminile?

Nel testo sacro, alla domanda di Mosè che vorrebbe conoscere il nome di colui che lo chiama a liberare il suo popolo, Dio non risponde con un appellativo che ne circoscriverebbe l'identità chiusa, ma con un’espressione che indica molto di più di una definizione: «Io Sono», da cui l’uso tetragrammato di YHWH, che indica appunto il suo esserci.

Se non vogliamo ricadere nelle trappole della lingua segnata dal genere, traducendo «sono colui oppure colei che è», potremmo meglio dire: «Sono la vita che è».

«Io sono» indica, infatti, la presenza nella profondità di noi stessi, la compagnia nel cammino della vita, l’esserci accanto nei momenti difficili e gioiosi dell'esistenza.

Questo nome-non nome richiama sia l’immagine presente nella Prima Alleanza della Shekhinah, la dimora di Dio nel suo popolo (Num 24,5), la sua presenza «in mezzo a noi», sia il nome profetico che l’evangelista Matteo attribuisce a Gesù, l’Emmanuele, il cui significato è proprio «Dio è con noi» (Is 7,14; Is 8,8-10; Mt 1,23).

Questa presenza, che muove e alimenta la vita, via d’amore che redime, è forse l’unico modo per liberare Dio dalle maglie del potere che schiaccia, perché, in fondo, la sua è una presenza nascosta che chiama la responsabilità di credenti a farsi compagnia nel cammino dell'umanità.

Lo aveva ben compreso Etty Hillesum, ebrea olandese vissuta durante l’occupazione nazista e che decide, pur potendosi salvare, di andare in campo di concentramento per essere solidale con il suo popolo e condividerne le sorti fino alle estreme conseguenze. Etty si è fatta carico del dolore della sua gente per essere testimone, anche nel luogo più atroce di disperazione, che la vita è bella e nessuno ce ne può sottrarre il senso; che è possibile, attraverso un’estrema compartecipazione al dolore umano, rendere presente Dio nella nostra vita.

Etty si era resa conto che in fondo Dio poteva fare ben poca cosa in quella tragedia umana che fu l’olocausto. Ha compreso che il suo compito era liberare Dio «e contribuire a disseppellirlo dai cuori devastati di altri uomini» e, davanti alla sua fragilità, prese un impegno:

Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: [...] Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me [...] è evidente per me che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te e, in questo modo, aiutiamo noi stessi[14].

L’essere qui («Io sono»), in questa compartecipazione, insieme con gli altri, del dolore e del bisogno dell’altro, è la possibilità con la quale noi possiamo amare gli altri senza l’arroganza del potere e aiutare Dio salvandolo dalla sua onnipotenza.


NOTE



[1] Paolo De Benedetti, Se così si può dire... Variazioni sull’ebraismo vivente, Dehoniane, Bologna 2013

[2] Emma Fattorini (a cura di), Dire Dio, Marietti, Genova 2005.

[3] Cfr. la teologia politica di Erik Peterson, Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983 (ed. or. Der Monotheismus als politisches Problem, Hegner, Leipzig 1935).

[4] L'immagine di Dio è nel maschio, non nella donna, perché immagine di Dio unico», Decretum Gratiani, q. 5, causa 33, c.17.

[5] Su questo vedi: Commissione teologica internazionale, Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, Roma 6 dicembre 2013. Non sembra, diversamente da quanto afferma Bettini, che il politeismo, per quanto sia stato aperto e tollerante nell’accogliere le molte divinità, abbia espresso una società meno violenta e discriminatoria. Maurizio Bettini, L’elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche, Il Mulino, Bologna 2014.

[6] Marcelo Barros, L'immagine di Dio e la questione del potere, in «ADISTA», 8, 2015.

[7] Non è casuale che esista una vera funzione trainante nella riflessione su questi temi da parte dell’eco-femminismo (o meglio degli eco-femminismi); si veda ad esempio il lavoro di Rosemary Radford Reuther, Ecofeminism: symbolic and social connections of the oppression of women and the domination of nature, in «Feminist Theology», 3, 1995, pp. 35-50. Vedi anche Stella Morra, L’identità sessuata: volto, genere e differenza, in L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi dell’umano, Glossa, Milano 2008, pp. 99-124.

[8] Cfr. Erhard S. Gestenberger, Teologie nell’Antico Testamento, Paideia, Brescia 2005 (ed. or. Theologien im Alten Testament. Pluralität und Synkretismus alttestamentlichen Gottesglaubens, Kohlhammer, Stuttgart 2001). Su questo tema vedi Adriana Valerio, Le ribelli di Dio. Donne e Bibbia tra mito e storia, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 101ss.

[9] Cfr. la teologia di Castillo, Vittime del peccato cit.

[10] Cfr. Claudia Janssen, Christus und seine Geschwister (Röm 8,12–17.29ss), in Christus und seine Geschwister. Christologie im Umfeld der Bibelin gerechter Sprache, a cura di Marlene Crüseman e Carsten Jochum-Bortfeld, Gütersloher, Gütersloh 2009, 64-80.

[11] Giuliana da Norwich, Libro delle Rivelazioni, cap. 61. Cfr. Kari Elisabeth BØrresen, Metafore femminili dalla Scrittura alle Rivelazioni di Julian da Norwich, in Donne e Bibbia nel Medioevo (secoli XII-XV) tra ricezione e interpretazione, a cura di Kari Elisabeth BØrresen e Adriana Valerio, «La Bibbia e le Donne» 6.2, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011, pp. 172-183.

[12] Caroline W. Bynum, Jesus as Mother. Studies in the Spirituality of the High Middle Ages, Univ. of California Press, Berkeley 1982.

[13] Elizabeth A. Johnson, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia 1999, p. 521(ed. or. Se Who is, Crossroad, New York 1992).

[14] Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985, p. 169 (ed. or. Het verstoorde leven. Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, De Haan-Unieboek, Bussum 1981).