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Chiesa romanica di San Secondo nei pressi di Bose - foto del direttore (01.08.2021)

Generazione Bose reloaded, generazione Zarri unloaded, Jerusalem in mind

di Stefano Sodaro

Il vento fresco accarezza e fa ondeggiare con dolcezza infinita l’erba che si stende davanti al panorama della chiesa romanica di San Secondo, a pochi passi dal Monastero di Bose, mentre in fondo si stagliano, nitidi dopo la pioggia, i profili dei primi rilievi che lasciano presagire la Valle d’Aosta.

Con altrettanta dolcezza le monache ed i monaci di Bose hanno cantato i Vespri ed una, od uno, di loro ha come danzato incensando l’altare al momento del Magnificat.

Che cos’è tutta questa travolgente bellezza mozzafiato? Che significa? Perché c’è? Perché qui? Domande assurde, senza dubbio. Eppure – molto più facile a sentirsi dentro che a dirsi fuori – compare un senso del monachesimo che ha implicazioni molto più ampie del confinamento negli stati di vita e nelle cosiddette “scelte definitive”, che spesso scontano, soprattutto nella spiritualità e nella morale cattoliche, un tasso di verbosità ormai non in grado di reggere più l’urto con la postmodernità e con la cultura critica.

Dunque viene da dire così: l’attrazione, la forza del monachesimo – maschile ma anche (sarei tentato di aggiungere “soprattutto”) femminile – sta nella sua debolezza. Nella sua povertà. Nella sua semplicità immediatamente avvertibile. Pure nella sua, se vogliamo, “ruvidezza”, o – meglio – essenzialità, franchezza, dove le parole sono così importanti che non possono essere sprecate e dove il silenzio parla più dell’eloquio.

Siamo sinceri ed onesti: tutto noi cerchiamo, fuorché la celebrazione e l’esaltazione della debolezza. Persino la nudità è raggiunta come segno potentissimo, tutt’altro che debole, di capacità seduttiva, alla fine di un gioco complicato più che complesso, e non all’inizio di un dialogo d’amore. Francesco ad Assisi si spoglia invece all’inizio e non alla fine. Davanti a niente poco di meno che il vescovo, e non nella semioscurità di qualche luogo elettivo e vietato a tutti. Il pudore è il segno di una nudità così debole che va svelata solo a te che mi conosci in profondità; se la svelo a te che appena mi conosci è il contrario della debolezza, della confidenza, della tenerezza: è affermazione di due maiestatici “io” che non riescono ad esclamare uno struggente “tu”.

L’abito liturgico bianco di monache e monaci è segno evocativo di nudità. Ed anch’esso sta all’inizio, non alla fine, di ogni atto di preghiera comunitaria.

Il disagio che si prova davanti al monachesimo dei nostri giorni – spesso innervato di contrapposizioni che sembrano arieggiare motivi anticlericali ottocenteschi – è il disagio davanti alla nudità innocente, davanti ad un éros innocente, che nella terminologia del Secondo Testamento corrisponde alla parola greca “agápe”.

No, Bose non si è affatto suicidata. Non è stata affatto “fatta chiudere”. Non è allo stremo. Vive la propria debolezza nella verità dell’amore e non nella verità della verità.

Perché sì: l’amore ha una sua verità che non è la medesima della verità in sé. Persino la catechesi lo insegna, o dovrebbe: fede e speranza spariranno, l’amore invece no.

Il monachesimo è un “fare”, che s’apparenta, per quanto forse possa sembrare strabiliante, all’ortoprassi – più che all’ortodossia – della fede di Israele. E anche l’amore è un fare, lo dicono le frasi più correnti e comuni. Si fa l’amore, no?

Il monachesimo pone una serie di gesti rituali che sono la coreografia di un gioco amoroso da Cantico dei Cantici, altrimenti non si vede che ci starebbero a fare in una località sperduta, per quanto paesaggisticamente meravigliosa, quarantacinque donne e uomini. La bellezza del luogo non fa durare in esso nessuno e nessuna che non ami appassionatamente, anzi dopo un po’ li fa fuggire, proprio perché quella stessa bellezza diventa insopportabile senza amore.

Massimo Faggioli, storico di chiara fama, ha parlato qualche tempo fa di una “generazione Bose” (https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/bose-1-non-servono-partiti), mentre il liturgista Andrea Grillo, docente a Sant’Anselmo a Roma, si è riferito anche ad una “generazione Camaldoli” (https://www.cittadellaeditrice.com/munera/autorita-e-liberta-alleccesso-generazione-monastica-e-il-caso-bose/) ed i rapporti tra Bose e Camaldoli sono da sempre molto stretti.

La mia (per quanto possa contare ed interessare, beninteso) è forse la “generazione Zarri”, assumendo la testimonianza eremitica del tutto laica di Adriana Zarri come un punto di riferimento imprescindibile per alcuni percorsi di maturazione ecclesiale dislocata in zone solitamente poco frequentate, quali la terrestrità, la passione amorosa senza distinzioni cromatiche, il rigore del ragionamento teologico non necessariamente certificato dall’accademia, la questione delle donne nella Chiesa e nella società.

Se Bose vive e risorge, e Camaldoli ha superato il millennio dalla sua fondazione, l’eremo abitato da Adriana Zarri a Crotte di Strambino – a sola mezz’ora di macchina da Bose – è tristemente disabitato e di presumibile progressivo deterioramento se non interverrà qualcuno o qualcuna a farlo rifiorire non soltanto come luogo di memoria bensì di nuova vita, appunto.

Eppure una luce, per ogni realtà che al monachesimo in senso latissimo senta di potersi riferire, c’è, compare, si nota, si intravede.

Scriveva Adriana Zarri, in un articolo ripubblicato da L’Osservatore Romano nel 2014 in occasione del viaggio in Israele di Francesco papa (Zarri aveva scritto del viaggio di Paolo VI nel 1964): «Uomini, uomini, uomini; ogni uomo un viso, ogni mano una supplica, ogni voce una storia, ogni occhio una preghiera. Uomini che non avevano mai sperato di vedere il Pontefice romano. Roma: città lontanissima, città che è la patria di tutti, ma una patria dell’anima che i piedi non potranno mai calcare. Ma ecco l’Italia che viene in Palestina, Roma a Gerusalemme. Anche Gerusalemme è la patria di tutti; e i piedi di chi non ha calcato i luoghi santi hanno la stessa nostalgia dei piedi che non hanno mai calcato le vie che percorse l’Apostolo, sopra al suolo di Roma. E ora, ecco, le due patrie si toccano, sono una patria sola, un uomo solo: il Papa che è ancora Pietro, che è ancora Cristo, peregrinante nei secoli. E tutti vogliono toccarlo. Sulla via della croce egli ondeggia, tra la calca, paurosamente. È pure un uomo come noi: un uomo che può vacillare e cadere come ondeggiò e cadde Gesù Cristo, su questa stessa strada.» (cfr. https://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/004q01.pdf).

A Gerusalemme fu presente la Comunità di Bose, ma ora non più. Ognuna ed ognuno di noi, sol che ci pensi, ha in effetti una propria “Gerusalemme del cuore” che si porta dentro. Gerusalemme come segno, anch’esso debole peraltro, lo attesta la cronaca, della storicità del credere, del suo radicamento nell’umano parlare, incontrarsi, soffrire, sperare.

Forse c’è come una sovrapposizione tra monachesimo e Gerusalemme, tra il deserto e la città, tra la preghiera silenziosa ed il traffico delle folle che pressano, il parlottare fitto di storie bimillenarie diverse, una attaccata all’altra.

Se dunque Bose vive e Cà Sassino – l’ultimo eremo di Adriana Zarri – invece no, in fondo, laggiù, baluginano le luci di Gerusalemme, città di tutte e tutti, come il monachesimo che, in fondo, è necessariamente di tutte e tutti e accende sempre i lumi per la preghiera.

Possiamo provarci, assieme, ad immaginare il nostro monachesimo, ognuna, ognuno, il suo.

Possiamo provarci, assieme, a immaginare un viaggio a Gerusalemme.

(Se poi qualcuno o qualcuna avesse qualche idea per Cà Sassino, ci contatti...)

Buon mese d’agosto, buona settimana.