Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano


Come conciliare la legge umana con la legge e la misericordia divina (continua-3)



di Dario Culot



Si pubblica qui il testo, rivisto e ampliato, della conferenza tenuta dall’autore il 12 marzo 2022 a Trieste, presso la comunità San Martino al Campo, in occasione del 18° anno di conferenze sulla spiritualità

Il magistero ci ha sempre insegnato che violare le leggi di Dio, da lui opportunamente catalogate, offende Dio. Da un punto di vista umano, questo lo si può ben capire: visto che noi reagiamo bene quando ci viene fatto qualcosa di buono e reagiamo male quando veniamo offesi, inconsciamente proiettiamo su Dio questa nostra esperienza umana. Da qui risulta che Dio si offende, s’indigna e castiga di fronte all’offesa, mentre premia chi si comporta bene[1] obbedendo alle sue leggi. Sempre per questo motivo la religione fa fatica ad accettare l’idea di un Dio misericordioso, buono con tutti, proprio perché non possiamo accettare ciò che noi non sopportiamo: che un altro la pensi in maniera diversa, che sia contrario alle nostre idee, che magari la passi liscia dopo averci fatto del male. Siamo noi, che passiamo una vita a giudicare, accusando e condannando tutto ciò che non coincide col nostro modo d’essere o di pensare, con i nostri gusti e con le nostre reazioni, che abbiamo il bisogno inconscio di un Dio che accusa, giudica e condanna. Siamo noi che predichiamo un Dio che applica una giustizia retributiva, o meglio sarebbe dire vendicativa[2]. Con un tale Dio restiamo più tranquilli. Con un tale Dio abbiamo l’impressione di essere “come bisogna essere”. Esattamente come Dio.

Ecco perché è stato difficile accettare un Dio misericordioso che ama come un Padre (meglio, come una Madre) che non fa differenze fra i suoi figli, fra le persone (Mt 5, 45; Rm 2, 11). È sempre stato caro alla religione separare fra il puro e l’impuro,[3] fra il sacro e il profano, tra credenti obbedienti e i non credenti disobbedienti, tra santi e peccatori. Così s’incasella tutto in modo lineare e chiaro.

Ma, a ben pensarci, così si ha l’ennesimo riscontro che la religione insegnataci è contro quel Dio di cui ci ha parlato Gesù, e quel Dio non può che essere contro questo tipo di religione perché allontana gli uomini da Lui (almeno tutti quegli uomini, e sono la maggioranza, che non riescono a seguire tutte le sue leggi).

Se, come invece dice Gesù, l’amore di Dio è aperto a tutti quanti, anche ai peccatori, l’affermazione di Paolo, - ancora seguita dalla Chiesa [4]- secondo cui il peccato ha separato l’uomo da Dio, è sbagliata. Del resto era già stata clamorosamente smentita da Pietro, quando ad alta voce aveva proclamato: “A me Dio ha mostrato…”: quindi non è un’idea che gli è venuta da sé, ma è Dio che gli aveva mostrato. Che cosa? “Che non si deve dire profano o immondo nessun uomo” (At 10, 34). Puro e impuro sono allora distinzioni umane, non divine[5]. Quante volte, ancora oggi, noi demonizziamo il rivale, il nemico? E anche qui abbiamo nuovamente riscontro nei vangeli di come questa distinzione fra puri e impuri sia solamente umana. L’evangelista Luca racconta infatti che, quando i pastori, ladri e peccatori impuri, e quindi pienamente consapevoli di essere destinati all’annientamento non appena fosse giunto il Messia, vedono l’angelo del Signore,[6] che secondo la religione avrebbe dovuto sterminarli tutti in un batter d’occhio, prendono un gran bello spavento; ma invece sono subito avvolti dalla luce: quando Dio s’incontra con i peccatori (è questo il messaggio che vuole trasmettere Luca) non li distrugge, ma li avvolge del suo amore vivificante, senza neanche chiedere prima di pentirsi e di cambiar vita. E la storia trita e ritrita secondo cui se prima non ci si pente, non ci si confessa dei propri peccati, se non si fa penitenza non si ottiene il perdono? Questa ce l’hanno raccontata più tardi i preti, ma il vangelo dice cose diverse, visto che i pastori non vanno al Tempio per confessare i propri peccati (fra l’altro non sarebbero neanche stati ammessi per la loro impurità), non si confessano, non si pentono della loro vita e neanche pregano. Dunque i pastori decidono semplicemente di muoversi e andare a vedere a Betlemme cosa è successo, e poi tornano serenamente al loro accampamento e alle incombenze di sempre, senza cambiar mestiere, senza smettere di vivere come bruti, bestie con bestie, ma pervasi da grande felicità. Infatti il vangelo ci dice che ritornano ai loro greggi glorificando e lodando Dio (Lc 2, 20). A noi la frase non dice gran che, ma dobbiamo ricordare che nella cultura di allora, nel libro giudaico di Enoch, Dio era immaginato nell’alto dei cieli, inavvicinabile, inaccessibile. Ci sono 7 cieli; al terzo c’è il paradiso (come ricorda san Paolo in 2Cor 12, 2-4); al di sopra del settimo cielo c’era Dio (ancora oggi diciamo di essere al settimo cielo quando siamo molto felici). Attorno a Dio c’erano 7 angeli, chiamati gli angeli del servizio divino che avevano l’unico compito di glorificare e lodare il Signore[7]. Quindi che i pastori, feccia impura della società, i più lontani da Dio, gli esclusi da Dio secondo l’insegnamento religioso, siano equiparati agli angeli più vicini a Dio è sicuramente strabiliante e inaccettabile per la maggior parte dei benpensanti di allora: se si va avanti così non c’è più religione! Eppure proprio questo ci dice il vangelo: dopo aver fatto l’esperienza del Dio amore, è possibile anche a quelli che la religione riteneva i più lontani da Dio, lodarlo e glorificarlo, cioè essere intimi di Dio. L’amore di Dio elimina ogni distanza e rende tutti uguali.

Ciononostante nella Chiesa ha prevalso la dottrina di Paolo. C’è forse da chiedersi se Paolo ha capito il messaggio di Gesù. Ecco perciò pronto il concetto che viene tirato fuori dall’ala dura dei credenti: la tremenda giustizia divina. Sarà anche vero che Dio ama tutti, perdona tutti, ma di fronte a quest’idea che nell’amore non vi sia castigo, salta sempre fuori qualcuno che dirà: «sì, ma arriverà il momento del giudizio di Dio!», il che – come già detto - significa che prima o poi la paghi. Chi muore in stato di peccato mortale viene condannato all'inferno, perché il termine giustizia di Dio viene inteso come castigo per gli empi peccatori, tenendo inoltre ben presente che tutti nascono già peccatori a causa del peccato originale.

La realtà è che la religione ha sacralizzato il castigo, anziché divinizzare la misericordia e il perdono[8].

Tutto quanto detto fin qui è sicuramente vero, ma se si guarda alla Bibbia nel suo insieme si scopre che le cose non stanno neanche esattamente in questi termini. In latino abbiamo due significati abbinati alla stessa radice ius: diritto (e quindi la legge), ma anche giustizia. Ma la Bibbia non è stata scritta in latino. È stata scritta in ebraico e, quando la gente non capiva più questa lingua, è stata riscritta in greco. Per tradurla in latino è stata usata la versione greca, non quella ebraica. In greco, lingua assai raffinata, abbiamo due parole diverse: dikaiusíne (in greco δικαιυσινε) e crino (in greco krιnw) che significano giustizia e giudico. Essendo partiti dalla traduzione latina, quando si parla della giustizia di Dio, è venuta ovviamente fuori l’idea di un Dio giudice che applica la legge, perché iustitia viene da iustum, cioè secondo il diritto, ius[9]. E cosa fa il giudice? Condanna il cattivo. Ma in greco era diverso perché il termine greco dikaiusíne nulla ha a che vedere con la giustizia del giudice, significando invece fedeltà verso le promesse;[10] fedeltà d’amore di Dio al suo popolo anche quando questo lo tradisce. Dunque, il Dio infinitamente giusto della Bibbia non deve essere identificato col Dio giudice che irroga le pene a quelli che si sono comportati male, ma è il Dio che resta fedele,[11] sempre, anche quando gli altri si sono comportati male. La giustizia di Dio significa solo fedeltà[12].

Come il padrone della parabola dei talenti (Mt 25, 14-30), nella Bibbia anche Dio si serve di collaboratori per realizzare il suo progetto, e chiama l’uomo a portare avanti il suo disegno creativo; se i collaboratori vengono meno ai loro compiti, Dio non lascia Israele per ricominciare da capo con un altro popolo; non lo fa perché Lui è giusto, cioè fedele agli impegni presi[13]. La parola greca dikaiusíne ha tanti sinonimi, ma certamente mai quello di giustizia nel senso che intendiamo noi: non vuol mai dire decisione da parte di un giudice[14]. Vuol dire invece che Dio è buono e misericordioso e mantiene il suo impegno con fedeltà (Ne 9, 31-33) e pazienza; il Signore è nostra salvezza (Sal 40,11) e la sua giustizia è fedeltà (Sal 36, 6-8). Dunque la parola biblica giustizia andrebbe abbinata a fedeltà (cfr. Sal 19 (18) 10), non a castigo come facciamo di solito noi.

Ora, se il termine 'giustizia' assume solo il significato di fedeltà, fedeltà all'alleanza, per cui la giustizia di Dio consiste nella sua fedeltà all'alleanza, anche l'uomo giusto è allora quello che resta fedele all’alleanza. Tuttavia, già nel Vecchio Testamento s’interpretava che l’uomo fedele all’alleanza era il fedele osservante della legge mosaica[15] perché si credeva che solo osservando fedelmente la legge si compiva la volontà di Dio (Dt 4, 1-6; 6, 1-3)[16]. Se leggiamo il Vecchio Testamento, il profeta Amos aveva messo in bocca al Signore queste parole: “Punirò in voi tutte le vostre iniquità” (Am 3, 2), “Vi ho anche rifiutato la pioggia quando mancavano ancora tre mesi alla mietitura, ho fatto piovere sopra a una città e non ho fatto piovere sull’altra”. (Am 4,7), “Odiate il male e amate il bene” (Am 5, 15), “Non continuerò a perdonare” (Am 8, 2) e “moriranno di spada tutti i peccatori” (Am 9, 10). Insomma, una minaccia continua di castighi se non si osserva la legge.

E poi, bisogna aver paura non solo di un Dio invisibile, ma anche dei suoi rappresentanti in terra. La prova della paura indotta? Nella Bibbia ci sono vari episodi illuminanti. Prendiamone l’episodio dell’uomo che raccoglie legna di sabato (Nm 15, 32ss.), e non si sa se questo, come altri, sono episodi veramente accaduti o sono episodi che venivano trasmessi al solo scopo di terrorizzare la gente. Dice la Bibbia che un giorno s’accorgono di un uomo che raccoglieva legna. Lo portano da Mosè: “abbiamo scoperto quest’uomo che raccoglieva legna”. Non la stava raccogliendo nel campo di un altro. Non la stava rubando. Raccoglieva legna, e basta. Forse per cucinare, forse per scaldarsi: a Mosè non interessa. Mosè che evidentemente aveva il filo diretto col padreterno (scrivo in minuscolo, perché non si può credere in un simile dio), si consulta: “Raccoglieva legna? Ammazzatelo!” gli risponde il suo dio dall’alto dei cieli. Si può ammazzare una persona perché raccoglie la legna? Qualunque persona che non è un talebano della religione direbbe di no; qualunque persona che ragiona con la propria testa - osserva Maggi[17]– direbbe che non è possibile ammazzare un uomo perché raccoglie la legna, visto che non è un ladro che l’ha rubata, né è un assassino che ha ammazzato qualcuno per portargliela via. Eppure l’uomo verrà ammazzato. Perché? Sottolinea la Bibbia, che ci dicono essere Parola di Dio: perché quel giorno era sabato. Ah beh! se è sabato lo possiamo ammazzare. Dalla domenica al venerdì tutti potevano raccogliere tranquillamente la legna che volevano, ma farlo di sabato reca un’offesa talmente grave a Dio che il peccatore merita la morte; e che questo serva da esempio agli altri! Anche Gesù verrà ammazzato (però dagli uomini) perché viola continuamente il riposo del sabato.

Mi direte che col cristianesimo questo non è mai successo.

“Ne siete sicuri? Ricordate che da noi, quando eravamo piccoli, c’era la condanna alla pena eterna per chi mangiava carne di venerdì?”[18] Da sabato a giovedì si poteva farlo; venerdì no. Se il boccone di andava di traverso e morivi, finivi all’inferno perché non avevi fatto in tempo a confessarti. Siamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda.

Ragioniamo un momento: è logicamente sostenibile che Dio ci mandi all’inferno per tutta l’eternità per un po’ di prosciutto mangiato nel giorno sbagliato della settimana?

“Sì! Perché Dio è perfetta giustizia, e se ti ha punito per l’eternità perché hai mangiato un po’ di prosciutto di venerdì, vuol dire che lo hai offeso, e l’offesa è infinita perché Dio è infinito,” dirà il credente integralista. “I dannati per l’eternità restano sempre sottoposti ad una giusta pena e hanno avuto ciò che hanno voluto, perché coscientemente hanno fatto una scelta contro Dio?”[19]. Ma non vi suona almeno un pochino strano e illogico questo inferno eterno per un po’ di prosciutto, visto che Dio ci ama immensamente? Gesù ci dice che di fronte a un’offesa dobbiamo perdonare non sette volte, ma settanta volte sette (Mt 18, 22), e poi in chiesa ci presentano un Dio che per una miserabile fettina di prosciutto o di mortadella s’imbufalisce, se la lega al dito e non ti perdona mai più, per tutta l’eternità. Non vien da pensare che l’insistere su un Dio che castiga per l’eternità per peccati insignificanti (e magari benedice per meriti altrettanti insignificanti) è incompatibile con l’immagine di un Dio amore che vuole la felicità dell’uomo? Che nella genesi dell’ateismo hanno contribuito non poco tanti che si dicono credenti,[20] e che per l’appunto sono proprio i pii credenti ad allontanare la gente dalla Chiesa nascondendo il vero volto di Dio?

A dire il vero, questa idea di giustizia=fedeltà=osservanza della legge divina è parzialmente passata anche nel Nuovo Testamento, però portando a conclusioni diametralmente opposte a quelle che non sono state di solito riportate nell’insegnamento ufficiale. Mi spiego: c’è un sacerdote di alto rango, Zaccaria, con una moglie discendente addirittura dal fratello di Mosè; entrambi sono giusti, cioè – come abbiamo visto - irreprensibili e fedeli osservanti della legge di Mosè. Tanta fedeltà, tanta religiosità, tanta devozione: il risultato? La sterilità della coppia. I coniugi santi e giusti, con tutta la loro osservanza dei precetti, sono incapaci di adempiere al primo dovere che Dio aveva dato agli uomini: ‘crescete e moltiplicatevi’[21]. All’epoca, essere sterili non era considerato una malattia, ma una maledizione divina[22] (una vergogna, come confermano Lc 1, 25 e 1Sam 1, 6, e come conferma Es 23, 20: «maledetta la sterile che non ha generato discendenza»)[23]. Infatti mentre la benedizione che discende da Dio sull’uomo significa che Dio dona una partecipazione alla sua vita, e l’uomo a quel punto è in grado di ritrasmettere questo dono di vita (per cui, ad esempio una nascita è una benedizione), dove questo canale di trasmissione si blocca (come con la sterilità, la malattia, la povertà) c’è la maledizione.

Allora questa è la tremenda denuncia che l’evangelista fa per allora, ma che vale anche per oggi perché i vangeli sono sempre attuali (Lc 21, 33: «le mie parole non passeranno»):[24] la religione, se intesa come tutto quello che si fa per avvicinarsi a Dio, come piena sottomissione e obbedienza alla legge divina, rende completamente sterili. Perché? Perché dentro a questo tipo di religione non c’è speranza di vita; se si vuol trovare la vita occorre andare al di fuori di questa religione. Proseguendo, Luca dimostra come i pii osservanti delle regole religiose non sono solo sterili, ma sono perfino atei, perché al momento del dunque non credono in Dio. Infatti, a Gerusalemme c’è il grande Tempio, dove gli uomini offrono sacrifici e dove tutto il rapporto liturgico con Dio è consacrato e regolato da norme e liturgie ben precise. Il rito la fa da sovrano. L’angelo Gabriele, prima di andare da Maria, scende nel sacro Tempio. E lì trova, appunto, il giusto e fedele Zaccaria che sta offrendo l’incenso seguendo minuziosamente il rito. L’offerta dell’incenso costituiva elemento specifico del servizio sacerdotale:[25] era un’azione riservata esclusivamente ai sacerdoti d’Israele (1Sam 2,28; 2Cr 26,18; Dan 3, 34-40), quindi importantissima per il culto. Dunque, l’angelo appare al sacerdote che sta svolgendo il culto a Dio e gli dice: “Tua moglie diventerà madre di un figlio” (Lc 1, 8-13). Zaccaria è vecchio, sa che anche sua moglie è vecchia, per cui non si aspetta più niente. Zaccaria dubita, non crede alla parola dell’angelo, a differenza di quanto aveva fatto Abramo (Gn 15, 6); non crede neanche quando di fronte alla sua scontata obiezione (“siamo vecchi”) l’angelo gli risponde: “ed io sono la forza di Dio” (perché «ed io sono Gabriele» significa, tradotto, appunto questo). Eppure, se c’era un luogo dove le apparizioni degli angeli avrebbero dovuto essere consuete, doveva essere il Tempio, luogo santo per antonomasia, perché lì Dio aveva la sua unica dimora in terra. E se c’era un uomo che avrebbe dovuto essere pronto a credere alla visione e all’annuncio dell’angelo, questi doveva essere il sacerdote, proprio perché puro e giusto. Ma il sacerdote non crede, è ormai deluso e rassegnato; ha l’ortodossia, ha la fedeltà al passato, è la persona più religiosa di questo mondo, ma non crede alla novità che gli viene prospettata. Non crede al Dio che viene. E allora l’angelo toglie la parola al sacerdote[26] (Lc 1, 20) e va in Galilea, regione malfamata, turbolenta e disprezzata (Gv 1, 46; 7, 52) perché piena di gente bellicosa,[27] ignorante e zoticona, in un piccolo tugurio di un borgo semi-selvaggio chiamato Nazareth,[28] e là una semplice fanciulla, povera, insignificante, impura secondo la religione, neanche sorpresa in preghiera, e soprattutto neanche chiamata giusta a differenza di Zaccaria, non solo sa rispondere al saluto dell’angelo, ma ha fiducia (fede) nella sua parola[29]. Maria diventa il simbolo di chi, con una sua scelta, sa aprirsi all’amore di Dio e diventare capace di rimetterlo in circolo a favore degli altri, mentre avrebbe anche potuto impedire questo futuro[30].

Perciò, stando al Vangelo, l’idea di un Dio autoritario, che in alcuni casi ordina perfino di ammazzare, è un volto di Dio deformato dalla religione. Ogni religione impone la propria verità nella ferrea convinzione che è l’unica, e se le viene permesso lo fa anche con la violenza perché, dopo tutto, è sempre Dio che lo vuole. Qui non si possono dimenticare le piaghe d’Egitto, con un apice nella strage dei primogeniti (Es 11, 1). Ci scandalizziamo perché Erode ha fatto ammazzare qualche decina di bambini in un piccolo villaggio della Palestina (Mt 2, 16)? Ci scandalizziamo perché i sacerdoti del Tempio hanno ucciso Gesù che era innocente[31]? Come mai non ci scandalizziamo allo stesso modo quando il nostro sacro magistero ci presenta un Dio che ha fatto ammazzare in Egitto migliaia di primogeniti di quella che allora era la più potente nazione del mondo (sarebbe come dire tutti i primogeniti degli Stati Uniti oggi)? Com’è possibile accettare l’idea di un dio che prima obnubila la mente del faraone impedendogli di fare una scelta diversa (Es 10, 27) e poi ammazza una miriade di bambini innocenti con metodo degno dei peggiori kapò dei campi di concentramento? E prima ancora aveva già sterminato quasi tutta l’umanità col diluvio (Gn 7, 23), aveva distrutto intere città con tutti i loro abitanti (Gn 19, 24-25). Poi, di fronte all’offesa fatta a Dio dal primo uomo creato sempre da Lui (per cui se l’ha creato debole questa è responsabilità innanzitutto sua e non dell’uomo), la giustizia divina esige la condanna dell’umanità intera. Come se un mio antenato avesse commesso omicidio, ed io dovessi finire all’ergastolo per questo suo comportamento, condannato al pari di lui.

Qui non c’è da aver timor di Dio, ma orrore di un simile Dio. Evidente che, quando noi ci sentiamo migliori di quel dio, non possiamo credere a quel dio. Non lo si accetta.

(continua)



NOTE

[1] Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2011, 206.

[2] Da Spinetoli O., La giustizia nella Bibbia, “Bibbia e Oriente”, XIII, 1971, 244.

[3] Però non dimentichiamo che perfino il profeta, Isaia davanti a Colui che non può nominare, cerca di nascondersi dietro l'impuro, suo e del popolo, per evitare di impegnarsi di fronte al Signore che chiama (Is 6, 5-8).

[4] Rimane nel peccato chi non osserva la legge divina insegnata dal magistero, e in questi casi l’inosservante resta escluso dal piano salvifico di Dio; infatti il peccato è dotato di una forza risolutiva da intendersi come separazione nel rapporto con Dio.

[5] Noi occidentali viviamo una dualità esasperata che non si trova in Oriente: seguendo la logica di Aristotele noi diciamo che tra due affermazioni contraddittorie una è vera e l'altra è non vera. In Oriente non è così: se una cosa è vera può anche essere non vera; se una cosa è non vera può anche essere vera: Pensiamo al simbolo yin e yang, in cui ognuna delle due parti del cerchio ha in sé il puntino della parte opposta. E la scienza conferma che gli orientali, pensando che la realtà non è mai oggettiva, sono più vicini alla verità di noi: pensiamo al principio di indeterminazione esposto dal fisico Heisenberg, il quale stabilisce che è impossibile stabilire contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella subatomica, sì che ci si avvicina alla realtà solo attraverso calcoli probabilistici.

[6] Cioè quello che ancora a Castel Sant’Angelo di Roma è raffigurato con la spada sguainata - 1Cr 21, 16.

[7] Ne parla anche Ap 8,2. Dalla tradizione ebraica (Tb 12, 15) arrivano i 7 angeli del servizio.

[8] Da Spinetoli O., La Giustizia nella Bibbia, “Bibbia e Oriente”, XIII, 1971, 253 s.

[9] I termini ius, iustitia, iustus, iudex, derivano dalla stessa radice indoeuropea “iu” unione religiosa, e significano, rispettivamente, l’unione con la legge divina, l’istituto garante della legge divina, colui che è unito alla legge divina, colui che indica la legge divina (Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, Palombi ed., Roma, 2010, 320 e 329).

[10] Da Spinetoli O., La Giustizia nella Bibbia, “Bibbia e Oriente”, XIII, 1971, 242.

[11]Theological Dictionary of the New Testament, a cura di Kittel G. e Friedrich G., ed. Edrdmans Publishing Company, Grand Rapids (USA), 1993,Vol.II, 192 e 195 il suffisso σύνη (sine) indica astrattezza, e il termine “giustizia di Dio” nella Bibbia dei LXX va intesa principalmente come fedeltà all’alleanza col suo popolo. Balz H. e Schneider G., Dizionario esegetico del Nuovo testamento, ed. Paideia, Brescia, 1995, vol. I, voce dicaiusine: Dio si comporta conforme al patto.

[12] Nella Bibbia il popolo d'Israele è stato scelto da Dio per essere il popolo testimone, quello che dovrebbe presentare al mondo il Dio vero. Eppure il popolo di Dio è pieno di prevaricazioni, di abbandoni, di tradimenti, di esitazioni... Il nuovo popolo di Dio presenta le stesse esitazioni, debolezze umane, fragilità, momenti di oscurità... Perché nella Bibbia si parla sempre dell’Alleanza che si rinnova? Di un Dio che ritorna di continuo? Perché c’è sempre questo tradimento o cedimento del popolo che non è all’altezza della missione che Dio gli ha affidato. Eppure Dio continua con la sua Fedeltà.

[13] Da Spinetoli O., La giustizia nella Bibbia, “Bibbia e Oriente”, XIII, 1971, 242.

[14]Balz H. e Schneider G., Dizionario esegetico del Nuovo testamento, ed. Paideia, Brescia, 1995, vol. II, voce krnw.

[15] Gli scribi si sentivano superiori per il loro sapere, i farisei per la loro condotta. Inoltre erano convinti di avere il diritto di imporre agli altri il sapere che essi monopolizzavano, e la condotta della quale si vantavano; sapere e condotta che si incentravano in un solo aspetto: la più esatta osservanza della Legge (Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 142s.). Come risulta dalla parabola del figliol prodigo, il Dio dei farisei si definisce partendo dalla retribuzione, essendo indissolubilmente legato al concetto di merito: è il Dio che ha in testa il figlio maggiore. Gesù invece dice che Dio è quello che corre incontro al figlio impuro e peccatore.

C’è anche da dire che Mosè aveva una sua logica nell’insistere sull’osservanza della legge: emarginando il lebbroso, voleva preservare la comunità dai rischi. Già Gesù, però, segue la strada della misericordia e dell'integrazione: vuole reintegrare (salvare) gli emarginati, e non ci pensa un secondo a toccare e guarire il lebbroso.

Chiaro che così facendo «Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti» (Mc 1,45). Questo significa che, oltre a guarire il lebbroso, Gesù ne ha preso su di sé anche l’emarginazione che la legge di Mosè imponeva (cfr Lv 13,1-2.45-46). Ma Gesù non ha paura del rischio di assumere la sofferenza dell’altro, e ne paga fino in fondo il prezzo (cfr. Is 53,4)

Siamo davanti a due logiche di pensiero e quindi di fede contrapposte: la paura di perdere i salvati (perché gli israeliti si ritenevano il popolo eletto e quindi già salvato) e il desiderio di Gesù di salvare i perduti. Anche oggi accade, a volte, di trovarci nell’incrocio di queste due logiche: quella dei sacerdoti, ossia emarginare il pericolo allontanando la persona impura, contagiata, e la logica dei profeti, i quali pensano che Dio, con la sua misericordia, abbraccia e accoglie, reintegrando e trasfigurando il male in bene.

[16] Ad es., in Mt 3,15 si legge: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia»”. Quindi Gesù invita Giovanni Battista ad essere fedele all'alleanza, cioè a compiere la volontà di Dio. Anche nella lettera ai Galati, giusto significa retto, fedele, che non viene mai meno alla parola data.

[17] Maggi A., Gesù un Dio profondamente umano, relazione tenuta a Tradate nel 2008, 4 s.

[18] Il secondo dei cinque precetti prevedeva di “santificare i giorni di penitenza, secondo le disposizioni della Chiesa” (NB: della Chiesa, non di Gesù), e la Chiesa aveva istituito il digiuno e l’astinenza dalla carne di venerdì, e l’inosservanza al precetto costituiva peccato mortale: ai precetti della Chiesa si deve obbedire perché facilitano l’osservanza dei comandamenti (470 del Catechismo di Pio X). Basta trasgredire gravemente uno solo dei per i precetti per finire all’inferno (art.472).

Anche l’art. 1249 del codice canonico stabilisce: Per legge divina, tutti i fedeli sono tenuti a fare penitenza, ciascuno a proprio modo; ma perché tutti siano tra loro uniti da una comune osservanza della penitenza, vengono stabiliti dei giorni penitenziali in cui i fedeli attendano in modo speciale alla preghiera, facciano opere di pietà e di carità, sacrifichino se stessi compiendo più fedelmente i propri doveri e soprattutto osservando il digiuno e lastinenza a norma dei canoni che seguono. Va fatta penitenza nei giorni stabiliti come indicato dal catechismo, e a norma del can. 1250: Sono giorni e tempi di penitenza nella Chiesa universale, tutti i venerdì dellanno e il tempo di Quaresima. Secondo il can. 1251: Si osservi lastinenza dalle carni o da altro cibo, secondo le disposizioni della Conferenza Episcopale, in tutti e singoli i venerdì dellanno, eccetto che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità; lastinenza e il digiuno, invece, il mercoledì delle Ceneri e il venerdì della Passione e Morte del Signore Nostro Gesù Cristo.

Dunque, se Tizio mangiando di venerdì un bel panino col prosciutto si strozzava, moriva in peccato mortale e finiva all’inferno per l’eternità. Perché? Perché – secondo il Magistero - questa è la legge e quindi la volontà di Dio, e basta! Non c’è una spiegazione logica.

[19] Cavalcoli G., L’inferno esiste, ed. Fede&Cultura, Verona, 2010, 49 s.

[20] Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes §19 – del 7.12.1965.

[21] Maggi A., Non ancora madonna, ed. Cittadella, Assisi, 2004, 44.

[22] Da Spinetoli O., Il Vangelo del Natale, ed. Borla, Roma, 1996, 167 nota 9. In Gn 16, 2 Sara si lamenta che il Signore l’ha resa sterile. In Gn 18, 12; 20, 18 si legge che il Signore rese sterile la casa di Abimelek. Vari passi ricordano la vergogna della sterilità: Es 23, 26; 1Sam1, 5-10; Sal 113, 9; Is 4,1; 49, 21; 54, 1).

[23] E, a proposito, anche oggi, per molti cattolici, un segno dell’opera del maligno è la sterilità: Amorth G., L’azione del demonio, in AA.VV., L’azione del maligno, ed. Fede&Cultura, Verona, 2011, 9.

[24] Se i vangeli non sono una cronaca di fatti che riguardano la storia, ma sono insegnamenti di verità che riguardano la vita, essi devono essere per forza sempre attuali. Del resto, se le parole di Dio devono comunicare vita, ovvio che debbano essere valide anche per noi oggi, e non solo per i primi discepoli; devono poter dire qualcosa agli uomini nel momento presente (Da Spinetoli O., Il Vangelo di Natale, ed. Borla, Roma, 1996, 33ss.).

[25] I magi donano a Gesù oro, incenso e mirra. Israele si riteneva il popolo eletto: regale (avere Dio per re), sacerdotale (Es 19, 6) e sponsale. Matteo chiarisce che l’oro significa che i pagani riconoscono Gesù come loro sovrano. In Dan 3, 34-40 risulta evidente che l’incenso è proprio del Tempio: allora qui, l’incenso significa che il privilegio di essere considerato un popolo sacerdotale viene esteso a tutti i popoli pagani. Ma mentre nell’AT (Es 19, 5-8) il popolo poteva fregiarsi di essere sacerdotale e santo solo se quando rispettava la legge, nell’Apocalisse (Ap 1, 6; 5, 9-10; 20, 6) i tratti distintivi dei credenti (regalità/sacerdozio) non dipendono più dall’osservanza della legge, ma dall’accoglienza dell’amore di Dio che si è manifestato in Cristo (Pérez Márquez R., L’Antico Testamento nell’Apocalisse, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 410s.).

[26] In realtà toglie la parola ai sacerdoti, al magistero della Chiesa, perché è il Tempio sacro che non è capace di parlare, che non ha più nulla da dire alla gente, mentre il centro religioso si sposta su una casa profana, quella di Maria.

[27] Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, I, 3,2.

[28] Maggi A., Non ancora madonna, ed. Cittadella, Assisi,2004, 15 s..

[29] Anche se, bisogna riconoscere, la gravidanza dell’anziana parente Elisabetta, tenuta nascosta a tutti per cinque mesi (Lc 1, 24) è il segno che l’angelo offre a Maria a riprova della verità del suo messaggio (Lc 1, 36: Elisabetta è ora al sesto mese). Solo se il miracolo di Elisabetta era sconosciuto a tutti, l’angelo lo poteva presentare come prova di una conoscenza superiore degli eventi e quindi come segno di garanzia per l’annuncio paradossale fatto a Maria: se una donna sterile e in età avanzata può essere miracolata con un figlio, lo stesso può avvenire con una vergine (Da Spinetoli O., Il Vangelo del Natale, ed. Borla, Roma, 1996, 190s). Qui si ha un’ulteriore prova che nei vangeli ogni parola, anche se apparentemente messa a casaccio (quinto mese, e poi sesto mese), è sempre accuratamente studiata.

[30] Dunque Maria diventa l’archetipo del discepolo, e comportandosi come lei ci si mette al seguito della Parola. Ma inizialmente Maria è passiva, viene semplicemente inondata dalla grazia di Dio, senza alcun suo precedente merito; poi, però, quella di Maria non è una fede sottomessa, perché è una fede informata; è una fede che la fa muovere e va da Elisabetta, è una fede che canta (il cantico per di più avverrà davanti a un’altra donna, Elisabetta, non davanti all’angelo. Così Maria si fa portatrice (porta anche nel grembo) della Parola.

[31] E come si può pensare di cancellare l’inimicizia fra Dio e l’uomo con la morte di un innocente, che per di più Dio ha proclamato suo figlio prediletto? (Ortensio da Spinetoli, L’inutile fardello, Chiarelettere, Milano, 2017,35).